venerdì 31 dicembre 2010

E sarà un anno bellissimo!

Si credo che sarà un nuovo anno bellissimo! Non può essere altrimenti.
Ho superato i quarant'anni e per antonomasia sto quindi nell'età baciata dalla fortuna. Inoltre sono un cittadino della Comunità Europea, cosa che per antonomasia offre una certezza in termine di aspettative socio-economiche, nonché di rispetto dei diritti umani e civili. Sono poi italiano e tanto basta, in quanto è sinonimo di savoir-faire, di simpatia geneticamente trasmessa, di consapevolezza storica, di alta cultura... e non parliamo della cucina! Sono poi del Friuli-Venezia Giulia, una regione a statuto speciale, cari i miei lettori, e qui siamo in una tale posizione di favore da dar via a metà della galassia intera! Poi, personalmente, abito a Monfalcone, quindi tra Gorizia e Trieste, città, considerate culle della cultura mitteleuropea, fulcri della storia contemporanea. Inoltre Monfalcone è città di ampio respiro (specie culturale, appunto), trattenuta tra il Carso e il mare, sede della Fincantieri e quindi di una delle più grandi vicende della cantieristica navale mondiale. Inoltre, scusate, ma sono un architetto (attenti, tenetevi forte, qui può venire giù tutto, al solo sentire la cosa), ovvero rappresentante di una categoria tra le più stimate e rispettate nel panorama professionale intero (specie se architetto di nascita italiana, avendo nel sangue i germi dei vari Leon Battista Alberti, Palladio, Michelangelo, Bernini e poi, per venire a tempi più recenti, Terragni, Carlo Scarpa, Aldo Rossi, Renzo Piano e dulcis in fundo l'inarrivabile Massimiliano Fuksas); per non parlare poi delle garanzie economiche che l'appartenenza a tale si fatta categoria garantisce! Sono poi appassionato di fumetti e tenete conto che ora i soggetti per i fumetti li fa anche il fior fiore della cultura italiana, Alessandro Baricco ad esempio, altro che Hugo Pratt, Attilio Micheluzzi, Gianni De Luca, Andrea Pazienza e via così.
Insomma, potrei continuare all'infinito, essendo quest'anno baciato, realmente, da una tale serie di situazioni favorevoli che la sconfitta non potrebbe essere nemmeno contemplata.

Bene. Qualcuno mi spieghi, quindi, per cortesia, perchè, giunto in prossimità del miglior anno che mi sarebbe potuto capitare, quello prossimo intendo, non riesco, in nessun modo a essere tranquillo!

Mando un augurio a coloro che quest'anno hanno saputo regalarmi qualcosa. Chi l'ha fatto non ha bisogno di essere nemmeno nominato. Lo sa e basta!
(nella foto, Venezia, 31 dicembre 2010)

domenica 19 dicembre 2010

News

Il giorno 15 dicembre è nata Ambra. Un bel regalo di Natale per Giovanni e Ilaria.
Benvenuta!
Lo zio Bob.

Neve-rmind

Venerdì 17 dicembre ero a Ravenna. In treno. I treni un caos. Nevermind! Con i biglietti in FrecciaArgento che costano il triplo del biglietto in Regionale, ma tanto sai che non puoi rinunciare a questo lusso per una questione di coincidenze: questione che si vanifica sul muro "glaciale" di una delle peggiori giornate metereologiche dell'anno. Nevermind!
A Ravenna ci arrivo. devo partecipare alla presentazione di un Laboratorio di formazione e sperimentazione linguistica sulla città di Ravenna, che io e la mia amica Gioia abbiamo pensato e organizzato per gli studenti del Liceo Artistico Statale "P.L.Nervi". Non volevo mancare e infatti esserci ne è valsa la pena. Ho conosciuto gente simpatica e tutta questa cosa mi sembra partire con il piede giusto. E' una scommessa che Gioia ha fatto e che io ho supportato e incredibilmente l'Amministrazione ci ha dato credito. Sonderemo con alcuni ragazzi della classe IV°, una ventina circa, il luogo urbano. Chiederemo a questi di darci la loro "immagine" della città, e chiameremo questa immagine "racconto". Giustapporremo questi racconti per capire se sia possibile mettere insieme un "romanzo" città. Useremo per questi racconti il linguaggio del fumetto, dell'arte sequenziale, della fotografia, del video, della parola scritta. Proveremo a fare "laboratorio", come sempre "a fare", "a fare"..."a fare".
Nel tardo pomeriggio sono di ritorno in treno, dalle parti di Ferrara. Siedo vicino un ragazzo che tiene in mano un libretto che parla di vocazioni cristiane e davanti ho delle ragazze venete che schiamazzano dialettalmente la loro gioventù in piena tempesta ormonale. Io e il "seminarista" (lo penso tale!), sorridiamo per quello che si dicono. Entra nel nostro vagone, poco dopo Rovigo, una vecchietta, con la sua trapunta celeste, occhiali e un fazzoletto in testa, come si usava un tempo, come facevano le mie nonne. La vecchietta chiede nello scompartimento: "Scusate lor signori...è passata di qui una signora?" Non era passato nessuno e infatti tutti noi neghiamo. "Ma dove può essere andata!" Alziamo tutti mani e spalle. "Non potrà mica essere uno spirito!" -sentenzia la vecchia, girandosi verso una signora in testa alla carrozza. La prende di mira questa signora, cominciando un lungo discorso su sua figlia, sui suoi malanni, dei quali nel breve veniamo tutti coinvolti, chi più, chi meno. La vecchia ha lanciato l'amo e ci ha pescati tutti. Il "seminarista" si volta sorridendomi e dicendo: "Mi fanno un sacco tenerezza, quando fanno così!". Io mi strofino le mani alla faccia e mi sento di rispondergli: "Che si debba elemosinare anche la comunicazione, è un triste fatto!"
E' così, è triste: siamo tutti connessi, telefonati, videocorrelati e attorno resta tutta questa gente sola; sola, specie i vecchi che di tecnologie ne capiscono poco o che spesso non ne vogliono sapere.

Il 3 dicembre è partita l'era del digitale terrestre in Friuli- Venezia Giulia. Nel mio palazzo non vede più nulla nessuno, ma alla maggior parte delle famiglie in città va meglio. O peggio.
Io vedo come sempre i telegiornali su Internet o leggo i giornali, ma mi rendo conto che la tragedia è grande. Sono apparsi una marea di canali nuovi, quasi uno dovesse vivere lì la propria giornata, davanti questo congegno malefico. Il risultato è che se prima non resistevo tre minuti dopo il rapido zapping da canale a canale, ora il zapping può diventare eterno, un'ora di zapping continuo. Abbiamo finalmente la possibilità di creare ognuno il proprio BLOB personale. Di frammentare all'infinito i nostri interessi e pensieri. Rifletto, mentre ripenso a quella vecchietta che si spende sui treni a cercare parole e a come nelle nostre stanze non vi sia invece più tempo per le parole; la televisione ha vinto, usando i nostri soldi e la nostra pazienza. Nevermind!

Ha nevicato tanto ed ho visto adulti bambini sgomberare la neve ed essere sereni per quella fatica inutile. Ho ricordato quel detto inglese: "La differenza tra bambini e adulti sta solo nel costo dei giocattoli." Cavolo, la neve è gratis! mi ha detto un mio vicino. I commercianti non la pensano così. Sono incazzati neri, a spalare la neve davanti i negozi. E' il sabato (il 18 dicembre) prima del Natale e la gente ha bisogno di strade pulite, per arrivare e comprare, spendere, comprare. E se molti decidono che gli basta la neve? Che sconfitta di questo cazzo di modo pubblicitario tutto. Apri il giornale, lo paghi un euro da solo o un'euro e mezzo con l'inserto inutile del sabato e la pubblicità ti sovrasta dentro il giornale e dentro l'inserto: mezzo articolo e una pagina di pubblicità. Ti viene veramente voglia di scegliere la neve, di spalare tutta la città. Che così risparmi anche per la palestra e i corsi di presciistica!
La neve mi fa stare in casa e non in giro a comprare regali e cazzate varie, con i soldi che tra l'altro sono pochi! Nevermind! Grazie neve, grazie neve! Riscopro l'andare a piedi, con il freddo alle mani in tasca! Mi sento ragazzo! Grazie neve. E a quel paese i commercianti tutti! A me va bene così.
Alla fine cedo al consumismo e prendo un comics in fumetteria. Nevermind! La coerenza non è il mio forte. Prendo la ristampa cronologica di The Peanuts, quella curata da Seth! Mi pare il fumetto giusto, perchè è il fumetto che prendevo già da bambino; sempre lo stesso, anche le strisce sono sempre quelle (quelle dei primi anni '70). Una striscia dice: "Fiocca, la neve fiocca!"
Sì, benedetta la neve! Che fa tremare i politici, crea disagi e dimostra quanto la natura ci può dominare in un attimo se volesse. Ma è neve, si scioglie, mentre i politici, i disagi, ecc. restano anche dopo. Nevermind!

martedì 30 novembre 2010

Ma quanto sa essere profondo il mare....

E' morto Mario Monicelli. E' morto suicida. In realtà mi importa di più il fatto che sia morto, piuttosto che il "come"! Cioè, la cosa mi provoca un grosso vuoto mentale. Un senso di perdita più grande di quanto potessi immaginare.
Nel scoprirlo a volte in televisione o a qualche incontro, in giro per l'Italia, lo ascoltavo sempre come si ascoltano le fiabe. Era una radice di quelle grosse e ben piantate, poco incline a far ondeggiare il fusto della pianta, anche quando il vento appariva forte. Non si è piegato nemmeno alla fine. La mente va a Pavese, a tutti i giganti perduti nello stesso modo.
Di Monicelli mi ricordo soprattutto un incontro. Io avevo la mania di chiedere degli autografi e lui la mania di dedicarli, chiedendo sempre se l'interlocutore fosse a conoscenza dell'origine del proprio nome. Gli risposi, quella volta, giocando a mia volta con questo suo gioco. Volevo conoscere la sua reazione.
Gli raccontai che mio nonno era un estimatore fascista e che quando nacqui volle imporre a mia madre il nome del suo primo nipote: "Ro-Ber-To" fu la scelta, poiché richiamava in forma contratta l'asse Roma - Berlino -Tokio.
Era una sciocchezza che mi era sovvenuta alcuni anni prima.
Monicelli mi guardò sornione, ma non disse nulla. Dedicò la sua firma al mio nome. Mi spiaceva però averlo raggirato e gli rivelai che il mio nome derivava in realtà da un cantante, tale Robertino, in voga negli anni Sessanta: quello sì che piaceva a mio nonno.
Monicelli mi disse che ne era contento: che nel primo caso il fardello sarebbe stato veramente troppo grande!
Avrei altri aneddoti su Monicelli, ma questo è quello più personale.
Mi manca già, per la sua schiettezza infinita, per la sua lezione continua. Mi mancano i suoi ricordi, ormai perduti. Mi accorgo ora che non gli ho mai scattato una foto.

sabato 6 novembre 2010

Foglie d'autunno e leoni

Il 16 ottobre sono a Venezia per la Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia. People Meet in Architecture, sotto la direzione di Kazuyo Sejima. E' la 12° edizione e io mi ricordo la prima volta che vi andai all'inizio degli anni '90, se non ricordo male alla 2° edizione, per vedere i progetti del concorso per il "nuovo" Padiglione Italia, che oggi è ancora lì, "vecchio" come lo era allora. Ho visitato gli spazi dell'Arsenale. Non vi è più distanza tra installazione architettonica e performance artistica. Non capisco se sia un bene o un male, credo un male. La parola che percepisco di più nell'aria, dalla gente o rivolta alla gente, è sicuramente "idea": "bell'idea", "idea interessante". Il piano a cui tutto sembra fermarsi è questo, quello dell'idea. La speculazione intellettuale basta? Lo sguardo curioso ed elaborato sul mondo è sufficiente? Per fare architettura, intendo.
E' forse al padiglione Italia allestito sempre all'Arsenale che trovo alcuni spunti interessanti. L'esposizione è di Luca Molinaro, dal titolo Ailati. Riflessi dal futuro (Italia scritta al contrario, ancora giochi, ancora autoreferenzialità intellettuale, uffa!). Qui i progetti esposti si lasciano guardare, proposti in forma complessa, affastellati uno vicino all'altro, gomito a gomito, diremo prosaicamente. Tra plastici e disegni, taccuini con schizzi a penna o colore, una voce registrata di ragazza declama senza interruzione decine di date e dati di tipo statistico: "in Italia, ci sono ...laureati ogni anno", "in Italia, il numero annuale di progetti autorizzati è...", "in Italia, la regione con il maggior numero di concessioni edilizie rilasciate è...", e così via. Ciò, come anche ben espresso nel foglio di presentazione all'esposizione che accompagna la visita, rappresenta con acutezza quel rumore di fondo che si sovrappone ale nostre vite di progettisti e di uomini e che disturba di continuo il "fare". Il notiziario continuo dei fatti ci distrae dai problemi e dalle soluzioni. E' una triste metafora mediatica e infine politica. E' la tristezza quotidiana di questi anni.
A proposito: non ho guardato per niente la televisione in queste settimane. Le notizie riescono ad arrivarti comunque, ti investono, ti coprono, anche se non le cerchi.
A Palazzo Cavalli Franchetti, a Venezia, ho visitato la mostra Stanley Kubrick fotografo 1945-1950. E' un'ottima occasione per vedere il magnifico scalone del palazzo e quindi le fotografie di un regista che usa gli scatti come fossero sequenze di tante storie da raccontare o solo in parte raccontate.
I grandi non si limitano mai alla sola immagine, all'icona fine a se stessa o allusiva, ma si sporcano le mani con il racconto, con le storie. Negli scatti dell'americano riscopro le facce dei personaggi dei film di Kubrick che saranno di lì a poco. Facce, modi espressivi che non esistono più, ormai cambiati dalle mode e dai costumi, ormai perse per sempre.
Il giorno 30 ottobre sono a Lucca per la Fiera internazionale dei Comics. Sono con Alessia e Walter Chendi. E' serata di premiazioni. Praticamente dalla scorsa estate (2009) ho visto nascere il romanzo a fumetti di Walter, La porta di Sion, edito poi da Edizioni BD nel gennaio 2010. Ne ho seguito a distanza il percorso. Restiamo in parte sorpresi (si badi non per la qualità del libro, ma per il fatto che ci sia stata gente capace di capirne la stessa qualità in questo sistema editoriale propenso a inseguire soltanto gli eventi, a seguire le mode e le etichette), quando Walter viene chiamato sul palco per ricevere il Premio Gran Guinigi 2010 per la Miglior storia lunga (graphic novel si dice nel giro degli intellettuali!). La porta di Sion ha vinto, ne sono contento. Anche Walter lo è e questo mi rende ancora più contento. Sul palco Walter dedica la vittoria a Vittorio Giardino. Mentre torno a sedermi in platea, dopo aver scattato alcune fotografie sotto il palco, durante la premiazione, vedo nella sala gente conosciuta con stampati in fronte gradi punti interrogativi. Credo faccia bene interrogarsi ogni tanto.Nella settimana di Lucca Comics 2010 è uscito in edicola il primo di una collana di volumi che raccoglie alcune tappe del lavoro di Sergio Toppi , edita dai Periodici San Paolo di Milano (Il Giornalino, Famiglia Cristiana), in collaborazione con il Museo Italiano del Fumetto e dell'Immagine di Lucca. La collana curata da Stefano Gorla e da Angelo Nencetti ristampa alcune storie e molte illustrazioni che il maestro Toppi ha editato nella sua carriera. Lo stampato è raccolto in volumi attorno a dei temi geografici: Africane, Mediterranee, ecc, riprendendo un progetto che già emerge nell'opera di Hugo Pratt. La cosa che più mi ha interessato di questa novità editoriale è che i curatori hanno voluto dare alle illustrazioni un filo conduttore che le accompagni, creando una sorta di metaracconto, di diario di viaggi possibili, sulle rotte dell'immaginario di un autore. Io credo che questo sforzo di abbandonare una rappresentazione esclusivamente fatta per immagini, il catalogo d'arte per intenderci, e riscoprire il senso della sequenzialità, del racconto appunto, sia un bene, in senso assoluto. E' forse un insegnamento riscoperto, a cui Toppi è abituato con il suo fumetto "etico", che tanto ho apprezzato negli anni e che oggi molti "giovani" autori, che si credono artisti e tanto adorano i "diritti" e così poco i "doveri" dell'essere autore (il lavoro duro, prima di tutto), farebbero bene a rileggersi.

giovedì 14 ottobre 2010

Cambio di prospettiva

Il giorno 14 settembre questo blog compiva un anno. La cosa, invece che costituire un momento di stimolo per fare crescere ulteriormente questa "sede" virtuale, si è rivelata un momento di riflessione contraddittoria.
Se c'è una cosa che mi da fastidio è la dipendenza. Qualsiasi forma di dipendenza. Quella diretta e quelle indirette a cui le situazioni della vita ci costringono (non parlo degli affetti, dei sentimenti e nemmeno degli interessi veri, che quelli sono altra cosa, parlo di sovrastrutture che consciamente o involontariamente finiamo per crearci, oppure alle quali parassitariamente finiamo per affezionarci: i vizi, anche). Avevo voglia così di capire se queste pagine a cui ho dedicato del tempo fossero diventate, un pò per alcuni commenti lusinghieri che esse hanno ricevuto, un pò perchè ho scoperto essere lette da molti, una piccola narcisistica dipendenza.
Dopo un mese esatto di "digiuno" ho capito che da un lato esse sono state positive per l'avermi fatto allacciare rapporti culturali con specifiche persone, oppure per avermi concesso di pensare "ad alta voce" su certi argomenti (e quindi indirettamente di rifletterci sopra). Dall'altro hanno però assorbito del tempo e un' pò della mia propensione verso "il fare".
Ho capito che ci sono anni del "dire" (del "pensare") e anni del "fare". Percepisco, come una dirompente esigenza, che l'anno che idealmente sta nascendo in queste settimane, sarà un anno del fare.
A questo punto, inevitabilmente, dovrò assecondare tale stimolo, altrimenti sarei contraddittorio con la mia indole, e, altrettanto inevitabilmente, dovrò tralasciare "il dire".
Non farò però morire questi fogli. Dilaterò a cadenza, che spero perlomeno mensile (ma non mi pongo limiti veri o appunto sovrastrutture), gli aggiornamenti sulle situazioni, sui pensieri che accompagneranno "il fare".
Posso anticipare solo che dopo un anno di pensieri vari, alcuni punti si sono focalizzati come interessi veri, che saranno quindi affrontati in altra sede (nel mondo reale, quello delle persone, dei confronti e degli scontri necessari per concretizzare delle idee). Tra essi: la necessità del costruire, del raccontare, di ridefinire nuovamente qualcosa attraverso un atto narrante che possa superare l'ormai, a mio giudizio, fallimentare raggiungimento di decostruzione postmoderna. E inoltre: sondare ancor più a fondo il senso della memoria, non tanto nella sua rappresentazione poetica o mentale, ma in solido, nel confronto diretto e materico con le generazioni che ci hanno preceduto, nell'intento di scoprire cosa è andato perso rispetto loro, in particolare cosa facesse di quella generazione una generazione di inarrivabili "giganti", per noi, a confronto, teneri e decadenti lillipuziani.

A presto con qualche nuovo sguardo interrogativo sul "fuori".

martedì 14 settembre 2010

Corsi e rincorse

Oggi questo blog compie il suo primo compleanno.
La cosa più allarmante sta nel fatto che è già passato un anno.

Sono contento di non aver lasciato queste pagine a se stesse. Spero che qualcuno leggendomi si sia interessato, non a me (sarebbe un scarso risultato), ma agli argomenti che mi hanno stimolato apparendomi importanti, tanto da volerne (doverne) parlare.

A chi mi ha letto, grazie. A chi non mi ha letto, grazie.

Per festeggiare riporto una frase che ho scovato in didascalia ad una foto di Henri Cartier Bresson, in mostra a Palazzo Morpurgo a Udine in questi giorni.
Il commento è di Alain Jouffroy: "...non si fotografano che fantasmi. La Storia è un incubo da cui bisogna risvegliarsi, per inventarne un altro."

venerdì 10 settembre 2010

Umanesimo

Ho visitato a Trieste una piccola mostra di pittura (alla Sala Comunale d'Arte di piazza dell'Unità d'Italia). Il pittore è una persona che conosco, per essermi confrontato con lui durante il mio lavoro come architetto. Il pittore è un architetto. Si chiama Ruggero de Calò, nato a Trieste, classe 1954. La mostra è molto interessante. E' sicuramente una delle più significative esposizioni di lavori pittorici, nati da un architetto contemporaneo, mi sia capitato di vedere. Sono i suoi dei paesaggi. Nelle didascalie alle opere l'autore unisce spesso la nota Architectural a quella di Landscape. Architectural 2 landscape e Architectural-Iceberg (se non ricordo male) sono le due opere che mi hanno colpito maggiormente. Quando vedi degli architetti dipingere, l'"oggetto" viene sempre definito tramite rimandi diretti alla rappresentazione o alla composizione: la realtà urbana o l'immaginato progettuale (surrealista a volte, come per Massimo Scolari o Cantafora, lo stesso Aldo Rossi) vengono sempre ricondotti ad un piano descrittivo. Nei quadri di de Calò esiste una libertà completa nella rappresentazione del contesto paesaggistico, dove l'"architettura" diviene solo richiamo, per appartenere contemporaneamente al mondo dell'esistenza e della creazione: è una rappresentazione emotiva che coglie il momento della fusione delle cose, dove l'architettura non è ancora tale; sussiste come nota in un paesaggio, che però al contempo è già violato. E' una scelta pittorica resa all'interno di una cultura dell'informale e a volte espressionista, che dimostra di aver digerito parte della ricerca di un altro triestino, quel Nino Perizi scomparso nel 1994, la cui opera pittorica è sparsa negli edifici pubblici e privati di Trieste.
De Calò ha lavorato molto come architetto sul paesaggio e su restauro architettonico e urbano e la fusione a cui mi riferivo rende bene questa sua ricerca a far sì che il costruito, la sua fisicità, possa integrarsi, coesistendo, in perfetta simbiosi evolutiva con il contesto, spesso naturale.
Ciò che mi premeva qui sottolineare è però una nota contenuta nella presentazione della mostra che Marianna Accerboni regala all'autore nel volantino di comunicazione dell'esposizione. Dice: "...incarna (l'architetto-pittore) le qualità dell'architetto umanista, la cui professione contribuisce ad ampliare i suoi interessi verso molteplici aspetti creativi e culturali."
E' questa la condizione di architetto che apprezzo, a cui aspiro: la condizione di persona coinvolta e non estranea, viva e fremente e non frenata. Impegnata perché affascinata e di conseguenza capace di vedere e descrivere.
Credo che questi tempi abbiano bisogno di "umanesimo", naturalmente oltre ad una non ipocrita "umanità".

sabato 4 settembre 2010

Giochi e salvagenti

Il 1 settembre sono a Venezia perché ho un appuntamento in Università. Devo seguire una tesi di laurea, parlare con delle persone. E' una giornata strana dove sin dal mattino mi scontro con piccoli contrattempi, ritardi, ecc.. Mi rilasso solo quando sono in aula. Lascio però l'Università presto, già verso le tre di pomeriggio, perché in serata ho un appuntamento di lavoro. Sono in prossimità del ponte di Calatrava a Piazzale Roma, e quindi alla stazione per riprendere il treno, quando dallo studio mi chiamano per dirmi che l'appuntamento è saltato. Mi incazzo un pò per le corse che ho dovuto fare, per non essermi potuto godere meglio la giornata universitaria. Poi mi spunta in testa un'idea, che in realtà credo fosse una remota speranza, considerato la prontezza con cui ho aderito alla possibilità soppravvenuta. Collego rapidamente: 1 settembre - Venezia - Lido - inaugurazione mostra del cinema -vado! La macchina fotografica è sempre con me! Sono già in Piazzale Roma, monto sul traghetto e verso le 16.30 sono già al Lido in prossimità dell'area del Festival. Non sono molto organizzato visto l'improvvisata, non so che film vedere, che cosa fare. E' la prima giornata e i biglietti per i film principali sono praticamente esauriti e cari. Decido per il cazzeggio, per godermi l'atmosfera: giro tra gli stand, vado fino all'Hotel Excelsior, faccio un giretto per il lungomare, mangio qualcosa, mi informo con qualche giornalista e fotografo su chi ci sarà in passerella, compro di conseguenza alcune foto, alcune riproduzioni di locandine cinematografiche. Poi verso le 18.00 mi sistemo tra una piccola folla di fotografi e giapponesi urlanti, essendo ormai prossima la passerella principale. Arriva di tutto sul gran tappeto rosso: i vip. Sembrano dei mostri in realtà. I tacchi esagerati, i vestiti bellissimi e improbabili. Certe donne sembrano delle fate, altre delle streghe. La gente urla. Io mi sposto un pò, mi metto dietro un vecchietto. E' alto la metà di me, e mi assicurerà ottima visione della passerella per tutta la serata: ogni tanto porta alla bocca una caramella, suda tantissimo; temo gli venga un infarto da un momento all'altro. Non dirà una parola per tutto il tempo: sereno spettatore. Mi sistemo lì, facendo quindi amicizia con due operatori di Fashion TV, mi pare di aver capito. La confusione è parecchia. Gli operatori, uno con la cinepresa su treppiede e una con il gelato/microfono in mano, vogliono intervistare direttamente i "divi" durante la passerella: sono curioso.
Passa il mondo trash della TV, passa il mondo trash della bell'Italia nobile e politica. Fashion TV in parte funziona, non ci avrei mai scommesso; ogni tanto qualcuno si ferma e scambia alcune parole: passa Manuela Arcuri, quel mostro inguardabile di stucco e boriosità di Gabriel Garko, passa Lino Banfi (un comico vero, come si rivela, con quel giusto cocktail di estro e malinconia), passa Carlo Verdone (un impiegato delle poste, praticamente). Poi Carla Fracci (una mummia in carne e soprattutto ossa); Isabella Ragonese è straordinaria, fa la falsa vamp, atteggiandosi con humor davanti ai fotografi, ha il miglior sorriso che mi sia capitato di vedere in una persona. Passa Violante Placido: sembra una Madonna di Filippo Lippi, tanto è languida e solare al tempo stesso. Poi Margareth Madè, molto bella vista da vicino. Passa e si ferma quella balena di Simona Ventura, troppo rifatta in volto per ogni commento. Poi improvviso parte un coro da stadio: "Quentin! Quentin! Quentin!...". Sta passando Quentin Tarantino e la gente lo adora, non solo i ragazzi. Il regista è sorpreso dall'acclamazione e si getta a pesce verso gli spettatori, cioè noi. Fashion TV funziona. Tarantino si ferma, scambia alcune frasi con loro e con me, che non capisco niente di americano, (con tutti insomma, tranne che con il silente vecchietto): fa il gigione, l'estroso. Mi faccio autografare una foto della locandina di Pulp Fiction (poco prima ci avevo visto giusto comprandola!). Poi succede il casino: arrivano Natalie Portman e Vincent Cassel. La gente esplode. Io a quel punto mi ero dato una missione da compiere: far autografare una locandina di Ocean Twelve con l'immagine di Vincent Cassel. So che Alessia adora l'attore francese e quindi ci provo. Fashion TV non funziona. In compenso stavolta mi appoggio al vecchio, gli infilo un gomito in bocca (lui non dice nulla, sembra capire), mi estendo come un atleta di salto in alto, stile Fosbury, arrivando sino alla mano dell'attore, che prende la foto, la firma e me la restituisce. Incredibile ce l'avevo fatta! Scopro che mi sto divertento molto, con una buona dose di consapevole masochismo e di autoironia.
La passerella sta scemando e riesco a guardarmi intorno meglio. Vedo le ragazzine, per le quali gli autografi sono una conquista della quale a loro importa in realtà molto poco, un gioco insomma. Vedo alcune persone che con ironia scherzano su quella situazione naif che è la caccia all'autografo; vedo anche delle persone sofferte e sofferenti, che si disperano veramente per non essere riusciti ad averlo quel sgorbietto sulla carta. Vedo persone che vivono la cosa veramente male. Vedo la gente nella sua diversità: la gente che si diverte con distacco, quella che per un attimo ha la sensazione di aver condiviso una parte della celebrità, della fama, del successo di coloro che gli sono passati davanti. Provo una certa malinconia nel pensare a come questo protagonismo sia innato in noi, come sia un modo privato per vivere le difficoltà di tutti i giorni, per trovare da esso una parziale via di fuga dal quotidiano. Riconsidero la cosa e capisco le ragioni di ognuno. Sono contento di essere lì con tutti loro, di condividere quella festa, quella messa sociale, quel palliativo per i giorni anche tristi che spesso ci si presentano: quel ricordo che sarà poi un piccolo raggio di sole nella memoria a fronte di momenti anche bui. Vi racconterò un'altra volta, forse, della passerella degli attori giapponesi, del putiferio dei loro fan. Vi basti sapere che poi ho preso il battello, quando ormai faceva buio. Mi sono messo a poppa, all'aperto e mi sono goduto il mare scuro e l'aria fresca della laguna di notte.

sabato 28 agosto 2010

Confronti e autoscatti

Se c'è una persona che ha saputo con il suo disegno aprirmi la strada a quella che ancora oggi è una delle mie più grandi passioni, è certamente Giorgio Cavazzano.
Ebbi riscontro da un giornaletto trovato in soffitta che la prima lettura che feci delle sue storie sul settimanale Topolino risale al 1972. Lo testimonia un giornaletto dedicatomi in copertina a biro da mio nonno: è un ricordo nel ricordo, che tengo tra le cose più care. Per uno di quei strani casi della vita vi era all'interno la prima pubblicazione della storia di Rodolfo Cimino e Giorgio Cavazzano, Paperino e l'avventura sottomarina, con l'apparizione nel mondo Disney di Reginella. Probabilmente era destino che il fumetto e in particolare quell'autore si vincolassero a me, temo, per sempre.
Ho seguito con continuità, da allora, prima inconsciamente e poi consciamente l'attività dell'autore veneziano. Nel 1995 ho avuto l'occasione di conoscerlo per la prima volta: mi parve allora di vedere la Madonna! Nello stesso giorno conobbi Magnus e Moebius e fu quella forse la giornata più importante, fumettisticamente parlando, della mia vita. Nel 2003 a Giorgio dedicai con ARTeFUMETTO anche una mostra, a Monfalcone. Ho sempre collezionato e frequentato i suoi fumetti e le sue mostre.

Ieri, 27 agosto, si inaugurava, Tutto Cavazzano, una mostra che Mirano, la sua città di adozione, gli dedica fino al 19 ottobre. Organizzata dal comune e curata tra gli altri anche dal figlio di Giorgio è sicuramente uno delle pù importanti mostre regalate all'arte dell'autore. Essa è allestita nel parco di Mirano, negli edifici di villa Giustinian Morosini, della Barchessa e del Castelletto. Sono 420 pezzi in mostra, con molte curiosità, anche per me che ho molto frequentato negli anni l'arte di Cavazzano. Non potevo mancare alla cosa; andare da Giorgio è rendere omaggio alla sua arte, ma anche alla mia infanzia e alle mie passioni. E' per me una scoperta continua nel flusso dei ricordi. Quando rivedo Giorgio, in queste occasioni, lo ritrovo inevitabilmente invecchiato e rivedo all'istante gli anni che passano anche per me. E' diventato il suo lavoro quasi uno specchio della mia crescita da bambino ad adulto e, quindi, se entrambi avremo fortuna, a vecchio.
A presentare la serata era venuto, per l'occasione direttamente da Roma, anche Vincenzo Mollica, il giornalista che ha il merito di aver sostenuto da quasi tren'anni a questa parte l'arte del fumetto in Italia, dandogli anche una possibilità mediatica, attraverso le pubblicazioni e la televisione. Mollica l'avevo conosciuto già a Roma nel 2005. E' stato allora uno sfiorarsi in occasione di una mostra dedicata ad Andrea Pazienza. Con il beneficio dell'essere uno sconosciuto ho scambiato ieri con lui alcune chiacchiere. Nel parlargli così da vicino mi è passato un piccolo brivido lungo la schiena. Lo so è una cosa stupida, ma in quel frangente non riuscivo a dimenticare tutte le persone con il quale il giornalista aveva avuto modo di intrattenersi e di confrontarsi nella sua carriera. Mi sono reso conto, in quel momento, della sua, forse inconsapevole, responsabilità di chi si porta dietro un bagaglio testimoniale immenso, che difficilmente potrà, anche se ne troverà il tempo, riversare a terzi e che quindi sarà inevitabilmente in parte perduto. Per lunghi periodi Mollica ha frequentato e viaggiato con Federico Fellini, Hugo Pratt, Fabrizio De Andrè, Andrea Pazienza, Alda Merini: e credo possa bastare. Non per avergli garantito di diventare anche solo un decimo di quanto essi furono, ma, come dissi, per la memoria di quelli che si porta dietro. Queste cose ho avuto modo di dirle brevemente a Mollica. Poi mi è venuta la voglia di avere una foto con lui, quasi mi aspettassi apparissero nella foto anche le auree mitiche di quanti lui ha conosciuto. Un ragazzo mi ha chiesto se desideravo ci scattasse la foto. Gli ho risposto che preferivo farmi un autoscatto, per la sua genuinità, perchè mi pareva rendesse la cosa più personale. Mollica mi ha confidato: "Anch'io faccio sempre così!" Si è creato un attimo di simpatia tra di noi e un bel ricordo.
Poco dopo anche Giorgio mi ha riconosciuto; mi ha regalato una carezza vedendomi lì, venuto da lontano. Mi ha reso contento. Ci siamo fatti un autoscatto mentre si rideva delle cazzate che la gente e noi stessi si diceva in quel momento.
Ho conosciuto più tardi anche Alessandro Zemolin, l'inchiostratore storico di Cavazzano e suo vero alter-ego. Ho scambiato con lui alcune considerazioni. Si è parlato di come il segno di Giorgio risultasse sempre più lineare, più pulito nel tempo, alla ricerca di una sintesi sempre più evidente. Zemolin mi ha risposto una cosa strana, che non era riferita a Giorgio, ma più generica e interessante. Più o meno: "E' un mondo che va verso la sparizione!" Mi ha portato a riflettere.
Durante la presentazione della mostra Cavazzano era molto emozionato, la voce anche un pò rotta quando ha ringraziato e presentato il figlio. Mollica ha ricordato come avendogli Cavazzano regalato un alter-ego nel mondo Disney, Vincenzo Paperica, abbia lasciato detto di volere sulla propria lapide non una foto, ma quella di Paperica, con sotto scritto: "A Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica".
Bene. Bella serata. Venata da alcuni momenti, come vi sarete resi conto, di nostalgia. Rivedo ora gli autoscatti fatti. Mi rivedo da fuori, in questi momenti di malinconica serenità. Mi serviranno, allorchè ne seguissero altri che forse potrebbero esserlo meno.

giovedì 26 agosto 2010

Piccole scatole emozionali n.5

L'appartamento della Grotta nel giardino di Palazzo Te di Giulio Romano a Mantova (1530): un esempio di decorazione parietale dell'intonaco. La grandezza artistica nella visione costruttiva dei nostri avi.

mercoledì 18 agosto 2010

Distrazioni ingiustificate

Quanto Cossiga si legge e si ascolta da queste parti, quanto passato; mentre basta girarsi appena e si scorgono otto milioni di pakistani in pericolo di morte.
Ma il giardino del vicino è sempre un pò più verde soltanto quando è verde, mentre in tale caso ha il colore marrone dell'acqua alluvionale.
Come sempre stiamo ad una finestra che diventa giorno dopo giorno sempre più esile.

sabato 14 agosto 2010

Le vacanze

Vi ho lasciato il giorno 3 agosto mentre facevo le valigie e mi ritrovo qui oggi a disfarle. Sono passati 11 giorni e mi pare al contempo uno spazio brevissimo e lunghissimo. Quest'anno sono stato in Svizzera, il cantone francese, Ginevra, il Vaud e poi fino a Basilea. Credo di aver accumulato una quantità di stimoli da poter occupare parecchi dei prossimi post. Vedremo se sarà così. Per ora voglio farvi una piccola sintesi del mio viaggio, come fosse una premessa per capire quanto scriverò prossimamente.
La sera del 3 agosto, valigie completate, decido di andare a sentire Patti Smith che canta a Grado. Già il fatto che il concerto sia qui a pochi chilometri da casa mi pare un buon motivo. Lo sarebbe anche solo per dare coraggio "economico" a chi organizza queste cose in queste terre sempre un pò ai margini delle cose. Il concerto comincia alle nove, c'è un temporale in arrivo e circa mezz'ora prima, mentre ascolto da lontano suonare un cantautore tarvisiano che ha il compito di aprire la serata, sto appollaiato sul muretto della diga, parlacchiando con Alessia del diluvio universale che credo sarebbe scoppiato fra poco. Vedo passarmi accanto Lenny Kay, il chitarrista storico di Patti Smith: lo riconosco dai cappelli lunghi e bianchi. Al suo fianco, con una maglietta con disegnato un teschio, la solita giacca lunga e abbondante e i soliti stivali, se ne sta Patti. Ci passa accanto, a circa due metri, si ferma a contemplare la spiaggia e il mare, a guardare il temporale che arriva. Si toglie gli stivali e anche Kay lo fa, poi scendono lungo l'arenile, camminano nell'acqua, si scattano delle foto tra loro.
Nessuno li riconosce e io e Alessia li guardiamo e decidiamo di continuare a fare gli spettatori e di non rovinare quel momento privato per chiedere una foto o un autografo come in realtà avrei la tentazione assoluta di fare. Scatto qualche foto al volo e mi piacciono così, per come sono venute, imperfette, sgranate, perché rendono bene la tenerezza di quel momento di due vecchi adulti bambini che giocano con amicizia tra loro (qui una foto in allegato).
Poi il concerto, imperfetto, con la pioggia che è lì per venire giù, ma non viene; con gli strumenti che non vanno e lei vecchia e scatenata e trascurata come sempre saluta e si sgola: un mito per me.

Poi il giorno dopo si parte, presto. Si visita il castello di Fenis, poi si raggiunge Aosta. Si visita un pò il centro che non avevo mai visto. Il giorno dopo, prima di partire vado al chiostro della Collegiata dei Santi Pietro e Orso. Qui convinco un architetto della Soprintendenza della regione Valle d'Aosta a farmi visitare gli affreschi ottoniani dell'anno 1000 d.c., nascosti nel sottotetto della navata della chiesa. Poi il traforo del Monte Bianco, Courmayer e poi Ginevra. Si dorme a Gex, in Francia. Il giorno dopo siamo a Losanna: il centro, la mostra di Zep, il disegnatore di Titeuf (un pò di fumetto ci vuole sempre), Ouchy, il lago, il museo olimpico. Poi in macchina fino a Chexbres, lungo i vigneti del Lavaux. Quindi Vevey dove è sepolto Chaplin e dove non trovo la Villa de Lac di Le Courbusier. Poi di ritorno ci si ferma a Nyon e quindi di nuovo Gex. Il giorno dopo è per Ginevra: il centro, la cattedrale, il palazzo dell'ONU, lo shopping. La sera, alle dieci, c'è la festa agostana di Ginevra, ci sono i fuochi d'artificio, bellissimi e lunghissimi sul lago, tra una folla immensa. Il giorno seguente siamo in viaggio, facciamo un casino per vedere la tomba di Audrey Hepburn a Tolochenaz. La troviamo per miracolo, grazie ad un ragazzo di Brescia. E' un luogo misero e al contempo bellissimo per l'umiltà che ne traspare (qui l'esterno del cimitero).

A mezzogiorno siamo a Yverdon-les-Bains visitiamo l'area che nel 2002 fu dell'Expo. Poi raggiungiamo l'area dei menhir: quasi una piccola Stonehenge. Poi ancora in viaggio fino a Neuchàtel, quindi fino a Basilea. Quando arrivo, parcheggio e attraverso, per raggiungere a piedi l'albergo, un piccolo parco vicino l'Università. E' domenica, sento un tango suonare e vedo quindi della gente imparare a ballare sotto un portico, così, in maniera privata, poetica. E' una scena di una pace assoluta. Penso, in quel momento, che passerò tutte le ore che dedicheremo a Basilea in quel parco, invece poi non ci tornerò più. La sera giriamo il centro con un silenzio irreale: è bellissimo.
Il giorno dopo sconfiniamo in Germania, visitiamo il Vitra, con il museo di Frank Gehry, il padiglioncino di Tadao Ando e lo shop della Vitra di Herzog & de Meuron. Poi si va alla Fondation Beyeler, progettata da Renzo Piano, che ospita tra l'altro una mostra incredibile di Basquiat: qui vedo l'uomo che cammina di Giacometti e ne resto incantato. Poi si gira in centro con le viette, i negozietti, la bellissima cattedrale. La sera mangiamo in Francia, in una brasserie, costa molto meno ed è a cinque chilometri soltanto dall'albergo.
Il giorno dopo visito il Kunstmuseum con l'impressionante carrellata di opere antiche e moderne: resto affascinato da un quadro di Lucas Cranach del 1500 e dall'Isola dei morti di Arnold Bòcklin. Poi vado al museo Tinguely di Mario Botta e mi lascio impressionare dalle fantasie robotiche dell'artista svizzero. Il pomeriggio vado alla Shaulager, di Herzog & de Meuron dove c'è la personale di Mattew Barney: gli spazi sono impressionanti, il minimalismo si sposa ad un gusto per la materia e per il particolare che mi entusiasma. Poi si torna in centro, prima vado a Sant Alban e quindi mi metto a disegnare in un giardino davanti al Reno: della gente si lancia nelle acque con delle boe gonfiabili, sono dei pazzi, ma sono molti.
La mattina riprendiamo l'autostrada verso Berna. Visitiamo il Centro Paul Klee di Renzo Piano. Qui c'è una mostra sull'evoluzione artistica di Picasso e Klee messe a confronto. Vedo quadri mai visti prima, specie di Klee e ne capisco solo in questa occasione la totale e assoluta grandezza. Scendiamo a Berna: il centro storico è splendido, saliamo sino al Kunstmuseum, che ospita anche il museo Albert Einstein. Scendiamo verso l'Italia, dormiamo in montagna a Panex, vicino a Villars, nella dependance di due vecchi sessantottini svizzero-italo-francesi, spannati come pochi. Si sta bene, è alta montagna, l'aria è freschissima: la sera alcuni cerbiatti ci tagliano la strada.
La mattina dopo andiamo a visitare il castello di Chillon e riviviamo un pò il mito romantico di Byron: è una visita lunghissima, ma molto didattica. Poi andiamo a mangiare a Montreux, visitiamo gli shop con le tracce passate di uno dei luoghi dedicati al jazz più famosi al mondo. E' strano, ma sul lungo lago capeggia solo la statua di Freddy Mercury dei Queen. Potrei comprare un cappellino autografato dal cantante per soli 1250 franchi svizzeri!! Le ore successive sono dedicate alla fine di un viaggio, al relax sul lago Lemano: Alessia legge un libro di Simenon e io disegno i passanti di fronte ad un the caldo. Poi verso pomeriggio tardo ci rimettiamo in auto e attraverso il traforo del Gran San Bernardo torniamo ad Aosta. E' sera tardi e decidiamo di dormire qui.
Il giorno successivo ci rimettiamo in auto con calma fino a Monfalcone, ci fermiamo qua e là, ce la prendiamo comoda. La sera siamo a casa e si decide di andare a Trieste a vedere il concerto dei Morcheeba in Piazza Unità. Il concerto, dedicato perlopiù all'ultimo lavoro Blood Like Limonade, è travolgente. Skye è bellissima con un vestito che non capisci se venuto fuori da un atelier italiano o da un mercato africano: molto optical-art direi. Dopo il concerto scambiamo alcune parole con Ross Godfrey, il chitarrista, più interessato a trovare da fumare che alla gente con cui parla.
Basta, finisce qui, passate le ferie, come dicevo brevissime. Meno male, altrimenti sarei morto!!

martedì 3 agosto 2010

Democrazia intellettuale

Si vede subito quando uno Stato è garantito da editori lungimiranti e intelligenti.
Se sfogliate i giornali in questi giorni, vi trovate una simpatica pubblicità promossa dalla FIEG, Federazione Italiana Editori Giornali, che capeggia a piene pagine e a colori. Lo slogan è: "Giornali, quotidiani e periodici: il miglior modo per non rimanere senza parole: Se leggi puoi svagarti con quello che ti piace, arricchirti con quello che ti interessa e informarti con quello che non sai. Perché tutte le persone parlano di cose e saperle è meglio che non saperle". L'immagine presenta invece quattro belle signore e ragazze intente a farsi un aperitivo in qualche bar cool della città, arredato con un design fashion, e che probabilmente stanno pure ascoltando della simpatica lounge music. Tre di loro sono vestite con abiti estivi, tacchi 11, pantaloni o veste lunga, e tutti i tessuti portano stampate scritte e parole in contrasto. Una quarta ragazza è vestita delle sole mutandine che portano stampate in nero la scritta: "Eh?". Tiene le braccia chiuse sul petto a coprirlo. E' scalza. Ed in evidente imbarazzo, mentre le altre tre ridono, sentendosi a perfetto loro agio. Sull'immagine capeggia la scritta: "Chi legge, si vede.".
Fermo restando che chi legge si dovrebbe forse "ascoltare" o "leggere" a sua volta e non necessariamente "vedere", e fermo restando che non è vero che le cose è sempre meglio saperle che non saperle e che se proprio devo saperle sarebbe interessante che la cosa avesse senso a livello personale e non come pettegolezzo da spiaggia o, appunto, da bar; fermo restando ciò, credo che scelta pubblicitaria peggiore non si poteva fare per promuovere la lettura quale esperienza di formazione culturale. La cosa che secca è proprio la scelta di rappresentare un mondo di lettori (superficiali o no non ci è dato di sapere) o, potremmo forse osare, di presunti intellettuali (o, come è di moda oggi, spacciatisi tali), che beatamente se la ridono a scapito di chi, per vicende personali, per scelta o forse per problemi anche economici (che ne so magari perché lavora tutto il giorno) di leggere non solo non ha il tempo, ma nemmeno la voglia. Io credo che questa pubblicità "innocente" rappresenti bene l'intellighenzia contemporanea e di certo la cultura della classe editoriale tutta. La rappresenta per snobbismo, per attaccamento all'immagine e a certi modelli di vita, per mancanza assoluta di visione pragmatica delle cose e soprattutto per mancanza assoluta di contenuti veri. La rappresenta, inoltre, per totale mancanza di senso democratico, specialmente a livello psicologico e naturalmente etico.
Così mentre mi preparo a partire per le ferie estive (le classiche ferie agostane che il mondo del lavoro italiano ha deciso risultino essere l'unica forma e maniera possibile, garantendo speculazioni per le concentrazioni di richieste e movimenti che si producono in queste giornate e garantendo di fatto a tutti solo un mare di sbattimenti continui invece che un sano divertimento (a tale proposito ho finalmente capito che anche gli architetti fanno parte, involontariamente e di fatto, del contratto collettivo dei metalmeccanici e che quindi anche noi in ferie ad agosto o morte)), mentre butto alla rinfusa oggetti dentro una valigia, decido di non portarmi dietro nessun libro. Così facendo non leggerò nemmeno una riga e potrò rinunciare a sapere le cose, a parlare con le persone "per bene" di questo paese, a intrattenermi con i "migliori".
Buone vacanze a tutti!
P.S. Non leggetemi!

lunedì 26 luglio 2010

Ripari

Mai come oggi (inteso come periodo e non come giornata) mi sembra che non vi sia alcun riparo adeguato alla bufera che sta attorno. E' una sensazione generalizzata di smarrimento, come se mi trovassi in un vasto, illimitato campo di neve bianca. E non ci sono alberi, non ci sono riferimenti, non ci sono certezze e nevica (politica), nevica (cultura), nevica (economia)... e ti viene da chiederti:"ma si scioglierà poi mai questa coltre che si sta accumulando?" E ti viene da pensare: "In fondo non pare nemmeno così candida!"

sabato 24 luglio 2010

Slogan e "virgolette"...

I miei "quattro lettori" sicuramente avranno notato delle coincidenze non taciute tra "dittatura dell'assenza" e "cultura del dovere". Chi mi conosce sa anche che non amo gli slogan, ma in questo caso mi servono per sintetizzare dei filoni di pensiero. I due slogan potrebbero essere riassunti così in un terzo: "fare etico".

Si badi, non è questa che sto scrivendo una nuova "Commedia" e di certo non sarà mai "Divina". Non ambisco alla creazione di gironi danteschi dove incasellare i buoni e gli antagonisti, ma ciò non toglie che ci si debba anche guardare intorno e confrontare con il "vicino di casa". E non mi pare quest'oggi "che l'erba del vicino sia (in fondo) più verde"! Ciò va detto ed è importante. Purtroppo, una critica e un'interrogazione propositiva in merito al fare cultura, sul come farla, se la sua trasmissione corrisponda ad un modus operandi specifico, può infine portare a confronti, a comportamenti e parole a volte volgari, che potrebbero sembrare nascere o sfociare nell'invidia. Io ho già scritto in queste pagine dei miei vizi capitali (vedi post precedenti), li confermo e potrei amplificarne anche i contenuti, ma nel campo del "fare cultura", vi giuro, non provo invidia.

Quando mi invitano ad un "evento" io ci vado. Il mio narcisismo sfocia di continuo nel presenzialismo: e sono due grandi mali. Ciò mi porta ad esserci, sempre e comunque, a volte per semplice curiosità. In quelle occasioni mi pento, mi pento delle mie debolezze, perché guardandomi attorno vedo sempre (in quelle occasioni) la sintesi delle bassezze umane. Mi vedo da prima forse allo specchio (narcisismo, e molto...!) e poi mi auto-convinco del disinteresse per le "cose", per "l'oggetto", per le motivazioni vere che ci dovrebbero essere. Così vorrei parlare delle "cose", appunto, e invece mi si ribatte di continuo "se voglio da bere". E poi bla! bla! bla! bla!...eventi forzati... distanze che si pongono (i pass, cordoncini al collo, gli inviti)... chi fuori e chi dentro. Alla gente piace così: mettere barriere, finte o vere, vivere incasellati. Sono sempre conflitti in fondo, anche in tempo di pace. E spesso chi li pone si propone quale intellettuale, come democratico (di sinistra o di destra non importa), spesso pone la sua predica sopraffina.

"Cultura etica", dico io, e quindi priva di sovrastrutture imposte. Interesse vero, concentrazione sull'oggetto e non dispersione nei rivoli del "qualcosa d'altro". E' un lavoro portato sul nucleo delle cose; è una politica dell'anti-evento, dell'anti-economico, dell'anti-affollamento. Non è una prassi dell'isolamento, ma del confronto profondamente inteso, svolto per capire principalmente se stessi. E' attenzione al "sè", all'"io" e quindi all'altro: è atto di formazione ed è questo il primo "dovere".

giovedì 22 luglio 2010

Cos'è cultura? (Parte 1 di 1000)

Stanno infuriando scambi mediatici di vasta portata intorno ai tagli operati alla "cultura" in Italia, praticamente per tutti i settori e diramazioni: circuito arte, cinema, spettacoli ecc..

Tutti gli operatori sono in tumulto, per i finanziamenti pubblici ridotti al lumicino, per la messa in discussione di molte iniziative che da quei finanziamenti dipendevano. C'è allarmismo, c'è molta paura, visto che da quei fondi dipende l'attività di molti operatori e di tutte quelle persone che vi gravitano attorno: molti volontari, ma anche molti che da tutto quel giro di denaro trovano anche la loro sacrosanta "pagnotta" giornaliera.

A destra e manca si parla della perdita (sul piano culturale) derivante da tali tagli, dell'importanza che questo o quell'evento aveva nel mantenimento di una corretta "politica culturale" in Italia.

Scrissi già alcuni anni fa tra le righe di un mio racconto quanto poco credessi nel ruolo dei cosidetti "eventi", forse anche in quelli che io stesso a volte mi mettevo a progettare e organizzare. Io credo che, adesso che i soldi apparentemente sono minori di prima, andremo verso una concentrazione del denaro pubblico intorno a un numero minore di cose, di situazioni. Personalmente nè allora, nè adesso credo che questo possa essere considerato un male in senso assoluto. Io credo che il sovraffollamento di occasioni culturali avuto dal 2003 in poi, spesso mal gestite, mal comunicate o a volte volutamente nemmeno comunicate, tanto si ritenevano rivolte a "gruppi di ascolto" o "di interesse" ristretti, non costituissero e costituiscano in alcun modo una condizione ottima per la cultura. Anzi.

Credo però pariteticamente che la concentrazione di fondi su poche cose generi limitazioni inevitabili alla pluralità culturale. Mi viene da chiedere ad esempio: Caravaggio? Ma esiste solo Caravaggio? Ma se fino a qualche mese fa alla chiesa di S. Luigi dei Francesi a Roma (per ammirare il ciclo di S. Matteo) non ci andava nessuno!

Purtroppo in Italia esiste un'unica cultura accettata, che è la cosidetta "cultura di massa", quella che fa i numeri, che produce i denari. Quando noi con ARTeFUMETTO facevamo gli allestimenti nessuno ci chiedeva: "Ma la gente apprezza? Ma le persone sono contente di quello che hanno visto?". No. Ci chiedevano: "Quanti?" E con le logiche dei grandi numeri è inevitabile che la cultura passi per i grandi soldi. Quindi l'evento sempre e comunque.

D'altra parte, come già sopra anticipato, sia ben chiaro che non apprezzo nemmeno chi si coltiva l'orticello a casa sua: si fa i propri interessi vendendo cultura ai margini, disperdendo in mille rivoli inutili soldi non propri, ma di tutti.

Io penso che si debba partire da qui, chiedersi cos'è "cultura", cos'è che ci rende colti? Ecco il primo nodo. Cultura non è per me necessariamente ciò che ci rende colti. E' invece ciò che ci rende "sensibili" alle cose, che crea in noi (esseri, senza esclusioni di ceto e di classe, nati gretti, ma con delle propensioni innate) delle aspettative inconsapevoli, delle suggestioni che diventano poi epifaniche del nostro essere e del nostro agire. Cultura per me non è leggere un libro, non è vedere una mostra, non è andare a teatro, non è andare al cinema, non è ascoltare musica (rock, jazz, classica, ecc). Cultura è un percorso, una ricerca che passa anche per quelle attività sopra ricordate, ma che da sole, "di per se stesse" non appaiono sufficienti. Solo all'interno di quel percorso non rettilineo, ma fatto di scarti, di ritorni indietro, di prove sul campo si nasconde la prassi culturale. Ecco che tutto appare di nuovo utile, perché effettivamente tutto stimola, ed essendo noi tanti esseri diversi (anche, ancora oggi, anzi forse più oggi che ieri, in ceto e classe purtroppo) non può esistere lo stimolo migliore o ottimale. Ecco che ciò potrebbe riportare a rendere legittimo il sovraffollamento, il tutto per tutti, ecc.

Ma attenzione vi è un limite, un confine. Esso sta nel ruolo che ha chi fa cultura. Non solo i cosidetti "attori", i "protagonisti" (chi va in scena cioé), ma chi opera dietro le quinte. Quelli che a quei fondi che oggi vengono meno stanno e starebbero aggrappati come le mosche alla lampadina (e sono gentile...). Mi chiedo se qualche volta questi si siano mai chiesti o si chiedano se stanno operando suggestioni, se stanno promuovendo ricerche personali o se stanno fungendo solo da attori economici. Un giorno Mario Monicelli alla presentazione di un libro di fumetto, avente come riferimento un suo soggetto mai realizzato, chiese all'autore: "Ma poi sta cosa si vende?" La pragmaticità dei nostri genitori. Con la loro logica del quotidiano.

Oggi, per gli operatori a cui alludo non si tratta della logica del "pane", ma della logica del profitto. A loro oggi chiederei: "Ma per un momento solo avete mai veramente ragionato senza pensare al soldo? Non solo "durante la cosa", ma anche "prima della cosa". Prima di farla questa cosa. Una qualsiasi cosa. Perché, mi chiedo ancora, oggi, all'interno del nostro sacrosanto gridare ai tagli, ai soldi, alle cose, vi è ancora qualcuno, anche uno solo, uno piccolino, che guardi alla cultura non sempre e solo come ad un diritto, ma anche come ad un dovere?

Perché, stiamo attenti, la società si rende migliore soltanto quando si ragiona a doveri e solo poi, solo poi, a diritti.

domenica 18 luglio 2010

Ritorni a casa

Sin da quando mi sono interessato alla musica rock, ho sempre cercato di fare chiarezza (mentale) sulle filiazioni che venivano formandosi negli anni rispetto certi artisti che consideravo dei capostipiti. Difficilmente è possibile in realtà ricondurre tutto a qualcosa d'altro, ma è un gioco a cui mi è sempre piaciuto dedicarmi. Se togliamo i padri fondatori, le "roots", e se isoliamo due casi che secondo me è difficile collocare realmente, il fenomeno The Beatles e il complementare fenomeno The Rolling Stone e se creiamo ancora una limitazione a questo pensiero, ovvero accettiamo di interessarci della musica dagli anni '60 in poi, mi pare che tutto quanto sia accaduto successivamente possa essere ricondotto a due realtà generanti, perlomeno in termini creativi, culturali e d'ispirazione: Bob Dylan da un lato e la Factory di Andy Wharol dall'altra. Sono due approcci al fare musica diversi, con sonorità, sensibilità e punti di vista diverse. E' questa relazione qualcosa che mi sembra superare persino le componenti geografiche, tipo America, Inghilterra, Italia stessa ecc. Ovviamente è un punto di vista e come tale nato per essere messo in discussione.
Ogni anno scelgo qualche concerto da andare a vedere, ogni anno devo selezionare, anche perchè costa tutto tantissimo, economicamente, i biglietti, viaggiare, mangiare fuori, ecc., ma anche fisicamente, e il fisico, che non c'è mai stato di suo, mi sta peraltro abbandonando giorno dopo giorno. Quest'anno ho fatto un'operazione selettiva mirata: volevo tornare a casa. Volevo andare agli inizi dei percorsi, godermi il seme generante e non perdermi nei rivoli delle derivazioni, che peraltro ho negli anni abbondantemente frequentato. Così il 13 giugno sono stato a Lubiana a vedere Bob Dylan (ne ho già scritto) e il 16 luglio ero ad Azzano Decimo (vicino Pordenone) per il concerto di Iggy Pop and The Stooges. Nel 1969 esce il disco The Stooges e lo produce John Cale fondatore di The Velvet Underground, a loro volta prodotti da Andy Wharol. E' un disco, con i due successivi (Fun House e Raw power) che influenzerà molti e creerà quel suono proto-punk che segnerà di lì a venire molte figure della scena musicale internazionale.
Ad Azzano, nello spazio della Festa della Musica, fa un caldo micidiale, sono le 22.30 e ci saranno ancora circa 35 gradi. Mi metto in posizione un pò appartata, lontano dal palco, perchè il luogo è un catino d'afa e non sopporterei lo schiacciamento delle circa 4500 persone presenti. La gente ha appena sentito finire l'esibizione di un gruppo supporto che ha decisamente fatto pena sul palco (Gang of Four, veramente perdibili) e respira come una cosa sola in attesa del concerto vero. Ma Iggy non arriva e l'attesa si fa pesante, la gente urla un pò, ma fa caldo e alla fine sembra accettare l'attesa. In quell'attimo di pausa il gruppo entra pressoché di corsa; nessuno capisce nulla, è come un tuono improvviso e Iggy è lì sul palco che urla "Raw power". Io guardo Alessia che mi sta accanto e la vedo sorridere, perchè il suono è incredibilmente punk e la voce è quella calda e pastosa di un epoca rock che sembrava non esistere più. Da lì in poi è un delirio. Sono contento di non essere sotto il palco perché oggi Iggy ha 63 anni, con la pelle e il volto di un sessantenne, ma la muscolatura e la verve di uno di vent'anni. Così a dovuta distanza sembra di assistere ad un concerto negli anni'70. Fabio mi dice, ridendo, che quelle quantità di droga che Iggy ha assunto tra il 1970 e il 1980 probabilmente ad oggi non è riuscito ancora a smaltirle.
Il concerto è breve (ma è punk, non un'opera di Wagner) e quando un ora e un quarto più tardi parte "No fun", si capisce immediatamente che la festa sta per finire.
Siamo sudati fradici. Attorno a noi ritroviamo amici, conoscenti che non vedevamo da tempo. Attorno a noi sono tutti contenti. Il ritorno a casa ha dato i suoi esiti.

mercoledì 14 luglio 2010

Novecento che rimane

La notizia, in sintesi: "Trieste, 13 luglio 2010. Stretta di mano storica tra i presidenti delle Repubbliche italiana, Giorgio Napolitano, slovena, Danilo Turk, e croata, Ivo Josipovic, nell’occasione del concerto “Le vie dell’amicizia”, promosso e diretto da Riccardo Muti in piazza Unità d’Italia quale evento conclusivo del Ravenna Festival 2010. Insieme i tre, prima del concerto, hanno deposto due corone d’alloro in due luoghi simbolo della memoria comune: l’edificio dell’ex hotel Balkan, oggi sede universitaria, che ospitava il Narodni Dom, la Casa del Popolo degli sloveni, assaltata e incendiata il 13 luglio 1920 dalle squadre di azione fascista e divenuta da allora emblema della persecuzione fascista contro gli sloveni; e ilmonumento all’Esodo eretto in piazza Libertà, in ricordo dei 350 mila esuli italiani costretti a lasciare l’Istria, Fiume e la Dalmazia dopo la Seconda guerra mondiale, dopo l'assegnazione alla Repubblica Jugoslava".
Bene! Tutto giusto, tutto perfetto, tutto maestosamente storico!
La storia contemporanea, che a queste latitudini passa ancora per la memoria. Una memoria che non trova pace, che passa dai nonni ai padri e dai padri ai figli. Una menoria che scava sempre negli angoli bui delle cose, incapace di vivere l'oggi senza pensare al ieri. Una memoria che a volte si ricorda del domani, ma preferisce girarsi velocemente per la paura di venirne cambiata, nell'accorgersi che il "domani" ormai parla poco la lingua del "ieri". E' una memoria che ha paura e che oggi posso dire ha proprio rotto le palle!

Conosco la storia, l'ho studiata e, vivendo qui al confine, l'ho indirettamente vissuta nelle vicende degli ultimi decenni. Capisco il dolore di tutti; capisco le ragioni di tutti, specie quelle dei nonni o forse dei padri. Capisco meno quelle dei figli. Conosco i torti subiti e le tragedie provate e condivido le accuse, condivido tutto. Di quei torti me ne faccio anche carico per la parte che mi compete, se per caso la storia crede mi debba considerare in qualche modo o forma colpevole. La storia non si cambia. Il problema è che non si cambiano nemmeno le menti, allorché queste sono fatte di piombo. Siamo, nel guardarci indietro, sempre pronti a scambiare piombo con il piombo. Ma se il piombo è qui nelle teste?
Credo che basti, che ognuno abbia dato (chi più chi meno certo, ma non possiamo farne sempre e solo un problema di principi, visto che "il solido" non sarà mai restituito, sia esso case, sia corpi, sia affetti, sia terra). Credo che la memoria e la storia e il ricordo e le paure e tutto quanto si riesca ancora ad elencare, possa essere messo da parte. Una pietra sopra, vi prego, a questo Novecento che non smette di torturarci, che ci sottrae la vita e la serenità, offrendoci in cambio solo parole già dette.
(la foto l'ho scattata a Trieste nel gennaio 2007. E' una piazza Unità vuota, come lo è spesso, ma capace di riempirsi in passato per il passaggio della storia, oppure di riempirsi oggi per rimasticare le angosce del passato)

giovedì 8 luglio 2010

Novecento che scompare

Stanotte è scomparso Lelio Luttazzi, nuovamente triestino da poco più di un anno e mezzo. Incredibile la sua carriera, incredibili le persone che ha visto e conosciuto. Si dice in questi casi: "E' scomparso uno degli ultimi veri gentiluomini della televisione..." Non mi sono mai interessato a Luttazzi, veramente intendo, ma quella "sua" televisione, quel suo mondo, mi interessava e mi interessa ancora, perchè li confronto con quelli di oggi.
Questa nostalgia per qualcosa che infondo non ho mai avuto, mi preoccupa, ma anche mi fa pensare che sarò, anche se gli anni passano e passeranno (spero) sempre un uomo del Novecento e non di questo nuovo secolo, che mi fa sentire, da quando è cominciato alquanto a disagio. Sarà che ad un secolo nuovo, come per le scarpe, bisogna prima farci l'abitudine... sarà!
Ciò che mi mancherà di Luttazzi per non averlo mai conosciuto è quella fetta del Novecento che non riuscirà più a testimoniare, un'altra ancora. Mi mancherà ciò che non ho conosciuto di lui, le emozioni che ha provato nel conoscere persone mitiche che non ci sono più, le sue esperienze che io non ho vissuto, ciò che stava nella sua testa insomma! Maledetto, così senza poter carpire più nulla. Maledetto, così senza preavviso..., cantando:
"...quel fiol de un can de un can
el xe cussì beato
adesso el me leca come un mato
perché spuzo sempre più de vin
e so che'l me vol ben che go un amico
per la prima volta in vita mia
a mi me basta un ano de sta bela vita
e poi sarà quel che sarà..."

lunedì 5 luglio 2010

Una mattinata di luglio

Sabato 3 luglio, tarda mattinata. Si sta svolgendo un incontro pubblico sulle opere prime del cinema italiano. Un critico a me sconosciuto fa domande sui generis ad alcuni registi, produttori e attori, pescando all'interno di un bagaglio a cui credo attinga di continuo. Il critico presenta poi alcuni altri ospiti che lo raggiungono al tavolo dei relatori. Uno di essi porta una maglietta con su scritto "mai dire opera prima". La ragazza, un pò attardata rispetto gli altri, li raggiunge mettendosi a sedere all'estremo del tavolo. Mentre tutti iniziano a conversare lei appare a disagio, continua a muoversi compulsivamente, nervosa o innervosita. Prima che la discussione entri nel vivo lei chiede ad alcuni del pubblico se può avere la sua borsa. Si alza per anticipare l'arrivo di coloro che prontamente gliela stanno portano. Noto solo ora che la guardo in piedi, come cammini tenendo le gambe lasciate scoperte dal corto vestito e come queste siano alquanto incurvate. Appare impacciata sui tacchi che porta, non ha decisamente una camminata da modella. Lei si siede, e mentre gli altri parlano inizia a frugare dentro la borsa con frenesia. Ne tira fuori poi una scatola per il fumo. La apre e ne estrae un filtrino che infila al lato della bocca. Inizia quindi a rollarsi una sigaretta con una maestria veramente notevole. Gli altri relatori appaiono alquanto sorpresi. Lei lecca e poi scalda con l'accendino il lembo della cartina, poi accende la sigaretta, cominciando ad aspirare fumo a boccate compulsive: una, due, tre (espira il fumo direttamente dalle narici), quattro e poi sembra in parte rilassarsi. Gli altri continuano a parlare anche se i più cominciano a essere alquanto invidiosi della fumatrice, aspirando anch'essi ad una sigaretta, ma cercano di trattenersi. Lei fuma rapida, finendo quindi la cicca, poi la spegne direttamente a terra sulle doghe del pavimento della terrazza dell'albergo che ospita la manifestazione.
La cosa mi è parsa divertente per il tono del tutto informale mantenuto dalla ragazza nel contesto (meno per la sigaretta spenta sulle doghe!). Siamo a Trieste durante la giornata conclusiva dell'undicesima edizione del Festival Maremetraggio. Siamo in Piazza Unità alla terrazza dell'esclusivo Harry's Grill - Grand Hotel Duchi D'Aosta: sono le dodici circa. Io sono seduto tra le prime file del pubblico che sta seguendo l'incontro/carrellata con autori, registi e attori dei film partecipanti alla sezione Ippocampo del festival. Io siedo con il regista romano Claudio Noce e il suo produttore. Dietro a me ci sono Sergio Rubini e un insieme variegato del miglior cinema italiano di nuova generazione (Michele Riondino, Valerio Mieli, Marco Luca Cattaneo, Edoardo Leo). Al tavolo Filippo Mazzarella (il critico) sta parlando con Alessandro Aronadio (il regista), Lorenzo Balducci (l'attore protagonista) e Rocco Papaleo (coprotagonista). Lei è Isabella Ragonese, nel cast del film "Due vite per caso". Lei ha uno sguardo veramente magnetico e una consapevolezza notevole. Lei è probabilmente una delle attrici più importanti tra quelle della sua generazione e probabilmente una di quelle che segnerà il cinema italiano dei prossimi anni. Alcuni titoli: Nuovomondo di Crialese, Tutta la vita davanti di Virzì, Dieci inverni di Mieli, Viola di mare di Donatella Maiorca, La nostra vita di Lucchetti. A fine incontro, nello scambiarci alcune parole, mi sorprendo per questa siciliana, classe '81, carismatica oltremodo, moderata e incisiva nelle parole come poche mi sia capitato conoscere. Quello che mi ricorderò di lei è però quella sigaretta fumata con avidità, quella naturalezza dei modi che non è semplice trovare in giro.
P.S. Due vite per caso è un bel film, ispirato, ma solo ispirato da Sliding doors.

lunedì 28 giugno 2010

Inevitabile calcio!

E' una sorpresa anche per me trovarmi a parlare di calcio. Chi mi conosce sa quanto ne sia estraneo sia per interesse che per pratica. Ma non mi ritengo un disfattista sul tema: mai pensato "il calcio che pena! Undici uomini in mutande a correre dietro ad un pallone!". Credo che sia un grande sport, uno dei più complessi sul piano agonistico e soprattutto tattico. I Mondiali di calcio li seguo da sempre: dal 1978 ne ho anche personale memoria. Ho sempre apprezzato lo spettacolo della concentrazione di speranze e delusioni perfettamente umane che una vittoria o una sconfitta in quel contesto offre.
Da spettatore ho visto l'Italia perdere con la Slovacchia il 24 giugno scorso: 2 a 3. La cosa che mi ha colpito aldilà dell'evento sportivo è stata la vicenda dell'allenatore della nostra squadra, Marcello Lippi. La sua sottile arroganza dimostrata dai tempi della sua sostituzione a Donadoni è stata esemplare direi ed epifanica di certi sistemi. La cosa più interessante è stata la sua conferenza stampa a partita persa ed elimazione avvenuta. Ha detto, pressapoco: " Sono dispiaciuto e mi assumo tutte le colpe!" Le persone che dovrebbero darci degli esempi ci hanno ormai abituato in questo paese a formularsi da soli i giudizi e a non accettarne dagli altri. Lippi non è stato da meno, rivelando in tal senso quanto fosse fuori posto nel suo ruolo di guida e quindi di "educatore". Lippi è l'Italia, purtroppo. La rappresenta con tutte le sue contraddizioni, con la sua scarsa umiltà. Lippi rappresenta il "sistema Italia" e la sua classe politica tutta. Un mondo di persone "infoiate" dentro le proprie aspettative di successo personale ed economico. Persone alle quali di questo paese, realmente, importa poco. Loro stesse forse non se ne rendono conto. Vecchi, non anagraficamente, ma vecchi dentro.
Andrea Pazienza riprendeva Boris Pasternak nei suoi pensieri a fumetti e recitava: "La vecchiezza è una Roma/ senza burle e senza ciance/che non prove esige dall'attore/ma una completa autentica rovina". Un tempo leggevo suggestioni diverse in quelle parole, che probabilmente rimandavano invece a tutt'altro. Oggi, nel collegamento di idee che ne è sorto, per me quelle significano semplicemente che la vecchiezza domina, CI DOMINA, attraverso le persone che dovremmo stimare, quelle che votiamo e quelle che non votiamo. Al contrario dello spunto dei fratelli Coen nel loro film premiato dall'Oscar: "Questo è un paese per vecchi!" E' uno Stivale calzato a pennello su ciò che siamo! E sinceramente, mentre comunque alzo le mani ad ogni gol della nazionale calcistica, un certo disgusto di fondo alfine lo provo!

domenica 20 giugno 2010

Piccole scatole emozionali n.4

Roma. Basilica di San Pietro in Vaticano. L'elenco dei papi sepolti nella chiesa: il senso di far parte della storia, il senso della brevità di ciò che chiamiamo storia. Una serie di nomi tutti contenuti in una lapide e per ogni nome vicende, destini, uomini, tragedie: al contempo una costrizione ed un allargamento infinito. Brividi sotto pelle...devo distogliere il pensiero.

martedì 15 giugno 2010

Io ero là e lui forse non c'era

Domenica 13 giugno alle 20.30 precise. Sul palcoscenico temporaneo, montato sul parquet del palasport Hala Tivoli di Lubiana le luci si spengono. Una voce programmata fa un discorsetto retorico, elogiativo in inglese e poi conclude, sempre in inglese: "Signore e signori, ecco a voi Mister BOB DYLAN!"
Sì per anni ho rimandato questo appuntamento con Dylan. Avrei potuto vederlo anni orsono a Verona con Tom Petty, poi a Trento, ma mentre vedevo decine di altri concerti, quello con Dylan era un appuntamento continuamente posticipato. Non so perchè, ma le cose succedono e basta.
Non sono mai stato uno sfegatato dylaniano, ma le sue canzoni, il suo mito mi hanno sempre affiancato, in alcuni periodi di più, in altri meno. Non ho un disco preferito, non ho una canzone migliore, ho solo il senso di una presenza continua, aleatoria, sfuggente, lontana. Alcuni mesi fa mi è capitato tra le mani il DVD del film a lui ispirato (."..le vicende di sei personaggi, ognuno dei quali rappresenta un aspetto diverso della vita e della musica di Bob Dylan...") e il titolo dato mi sembrava parlasse esattamente di questa condivisione per una distanza tra l'effige di un musicista, il suo mito e la realtà delle cose. Il titolo era "I'm not there" (tradotto "Io non sono qui", film di Todd Haynes del 2007).
Bob Dylan entra in scena. Io sono a pochi metri dal palco ed è già una cosa strana. Mentre la gente urla e applaude mi cade lo sguardo sull'uomo. Sono lì per il mito e vedo l'uomo: ha in testa un cappello tipo "panama" colore crema a coprire i ricci radi e grigi; indossa una specie di livrea nera con i bottoni e i polsini dorati; i pantaloni sono neri con una riga verticale per gamba anch'essa dorata; cammina a fatica dentro degli stivali a punta, a passi lenti ed insicuri. Mi ricorda il presentatore di uno spettacolo circense, mi viene in testa Buffalo Bill, la fine della sua carriera nei circhi. Non riesco a concentrarmi sulla musica, continuo a guardare l'uomo. E' un vecchio, ma per nemmeno un minuto, durante tutto il concerto non perderà il suo carisma: sento e percepisco l'aurea di un mito, percepisco la distanza. Alla fine mentre inizia Don't Think Twice, It's All Right da "Freewheelin' Bob Dylan" in versione elettrica, riesco a uscire dai pensieri e ad ascoltare finalmente il concerto. Dylan starà poco alla chitarra e passerà gran parte della serata alla tastiera e all'armonica a bocca. La voce per quasi sei canzoni è un grugnito faticato, poi da una splendida versione di Simple Twist Of Fate in poi riprende quella sua densità tipica. E' un crescendo fino ai bis. Il gruppo è costituito da due chitarre, una steel guitar, una bass guitar e una batteria. Highway 61 Revisited ne esce benissimo e dopo un pò parte Ballad Of A Thin Man. Nel risentirla capisco che forse è una delle canzoni che amo di più e lui la fa benissimo, si contorce sull'armonica, la canta con la sua voce da fumo e sinusite. Mentre la canta e suona Dylan ha gli occhi come fessure e sorride, sorride per gli applausi, sorride perché stare su di un palco a cantare è la sua vita. Il pubblico esplode. Poi Like A Rolling Stone ed è storia. Quindi si finisce con una tiratissima All Along The Watchtower. Poco meno di due ore, le luci si spengono, Dylan si muove al buio sul palco, i musicisti posano gli strumenti e si avvicinano, insieme si scambiano parole al buio, il pubblico grida, le sagome si mettono in fila lungo il palco, poi i fari si accendono per alcuni secondi. Dylan prende gli applausi, li assorbe. Le luci si spengono di nuovo e dopo alcuni secondi il suo mito "non è già più lì".

sabato 12 giugno 2010

Panem et circenses

La scorsa settimana ho passato alcuni giorni a Roma. Era un pò di tempo che non vi tornavo e avevo voglia di rivedere alcune cose frequentate ormai molti anni addietro e farmi un'idea diretta di alcune architetture contemporanee non ancora visitate. Inoltre vi era una mostra su Edward Hopper, una su Caravaggio, una su De Chirico, ecc.. Di tutto e di più.
Bene. Si è girato, si è visto un sacco di cose, si è frequentato perlopiù la Roma minore, Trastevere con la sua caciarosità; si è cercato di visitare Villa Albani, privata e inaccessibile a quanto pare (la famiglia Torlonia non concede facilmente le visite), ma si è anche visitato il nuovo MAXXI, il Parco della Musica di Renzo Piano, l'Ara Pacis con la scatola "conservativa" di Richard Meier.
I momenti forse più intensi e interessanti di questo viaggio di riposo, che come sempre è diventato un viaggio massacrante per la curiosa frenesia che ogni volta mi assale nel frequentare le grandi città, credo siano stati il rivedere l'Estasi di Santa Teresa d'Avila del Bernini nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria (L.go Susanna), scoprire i disegni preparatori (maniacali e meravigliosi) di Hopper per i suoi quadri: disegni dove il pittore appuntava tutte le gradazioni cromatiche offerte dalla luce e ogni riflessione connaturata alla costruzione dell'immagine finale; la mostra di Gino De Dominicis al MAXXI (una scoperta il suo lavoro, specie per la sua irriverenza, che però nascondeva una maestria concettuale e pittorica notevole).C'era questa frase tra le tante che il curatore, Achille Bonito Oliva, ha voluto riportare alle pareti del percorso della mostra: "E' il pubblico che si espone all'arte e non viceversa". Credo che coincida con il leit motiv di questa permamenza romana.
Il pubblico e l'arte. Il grande pubblico e l'arte. Non ho potuto visitare la mostra di Caravaggio per le file immense che si formavano davanti l'ingresso delle Scuderie del Quirinale (vedi foto). Non ho potuto rivedere Raffaello ai Musei Vaticani per la fila infinita che coronava lo svilupparsi delle mura vaticane prima dell'ingresso ai musei. Non ho potuto entrare nella Galleria Borghese, perchè, arrivato giovedì, avrei potuto accedervi solo il mercoledì successivo. In ogni luogo si vedeva tutto poco e male. Negli ultimi vent'anni è cambiata completamente la fruizione dell'arte. Un tempo si parlava dei fastidiosi turisti incolti, delle masse sprovvedute scaraventate ai musei, dei visitatori che assimilavano pariteticamente Michelangelo e una Carbonara, con lo stesso interesse. Oggi non credo sia più così. I turisti ci sono, le folle anche, più e molto più compatte di prima: ma non è gente portata lì per caso. Se ti metti in fila scopri le persone più inaspettate discutere di Caravaggio come di De Chirico, fare paragoni azzardati tra autori, discutere con le forme (non certo con i contenuti) dei critici. E' gente che cerca l'arte e la vuole, per presenzialismo più che per ricerca personale, ma la desidera. E per l'arte accetta ore sotto il sole, dolore ai piedi e quant'altro.
Ormai ogni visita va programmata. Internet ha creato molte facilitazioni comunicative, ma un tempo alle mostre, nei luoghi ci dovevi andare di persona, telefonare, sbatterti prima di poter fare prenotazioni. Oggi la massa (colta ed incolta, democraticamente, ma "L'arte è democratica e richiede una fruizione democratica?") formalizza tutto con un click del mouse e chi arriva prima meglio alloggia, indipendentemente dall'interesse e dalla ricerca personale. E' il popolo dei media, di coloro che hanno comprato in edicola all'inizio degli anni Novanta gli allegati al Corriere della Sera con L'Arte Moderna di Giulio Carlo Argan, magari solo perchè ci regalavano le litografie de I girasoli di Van Gogh (è da qui che parte la fortuna degli Impressionisti in Italia da quella litografia lì, da quelle riproduzioni che trovi ancora oggi nei soggiorni delle case più disparate, come negli studi dentistici). E' il popolo che ha acquistato poi le collane d'arte senza fine promosse da la Repubblica e ancora dal Corriere, che ha guardato per mesi Sgarbi alla TV e che ora segue Philippe Daverio. E' un popolo "acculturato" a colpi di inserti nei quotidiani, a colpi di pagine culturali ne Il Sole 24 ore, a forza di speciali televisivi misti a spot, di cataloghi della Silvana Editoriale distribuiti in edicola. E' un popolo che poi magari, come senti se giri nei treni, colloca Parmigianino nel 1700, ma che ha investito, ha pagato tutti quegli allegati per costringersi ad una cultura e ora vuole esserci, vuole vedere, presenziare appunto.
La gestrice di un B&B non lontano dal Vaticano, laica oltremodo, commentava alcuni giorni fa le domeniche dei fedeli in Piazza San Pietro, dicendo: "E' l'oppio dei popoli! Tutti a guardare in alto, ad ascoltare parole vuote! Ad inseguire speranze e disposti a passare ore in piedi, sotto il sole, per una parola che gli faccia credere di poter superare i momenti difficili solo sperandolo!" Mi sono sentito di ribattere che era storia vecchia, che era un discorso demagogico anche quello, che se a qualcuno andava bene così a me andava bene pure. La vita è di ciascuno la viva e credo ciò sia fondamento di libertà, se un atteggiamento viene vissuto in proprio senza voler condizionare gli altri (e qui la cosa si fa più ingarbugliata). Ma, ho detto, che se ci si guardava intorno, un pò oltre la piazza vaticana, c'erano modi più subdoli, meno privati per "obliare le menti". Uno di questi è l'arte in quanto oggetto mediatico di consumo. Nel senso che a colui che lavora tutta la settimana, fa i turni, torna a casa, segue i figli, lava, stira, oppure sta sul divano in cassa integrazione da un anno o più, oppure vive con 800 euro al mese, così che la vita sembra un pochino misera, oggi gli puoi togliere tutto, ma non puoi togliergli: 1) la televisione e 2) la possibilità di mettersi in fila per ore per vedere Caravaggio. Godere del circo mediatico dell'arte, che come in molti altri casi, arricchisce qualcuno (con i soldi), convincendo qualcun'altro di stare ad arricchirsi (con la cultura mediatica). E' un vendere aria, è non dire le cose come stanno, è un fare perfettamente in linea con questi tempi. Non è un caso che si risparmi sulla spesa girando per tredici supermercati di fila e comprando ogni volta al prezzo minore qualcosa e poi non si rinunci alla mostra d'arte (con le file, con gli scazzi che comporta), al concerto rock (a cinquanta, sessanta euro a biglietto + trasferta ecc.), ad un libro (di Bruno Vespa magari). Non è un caso che dalle profondità della "crisi" che ci attanaglia, si salvino solo le carovane dell'arte e dei concerti oltre al calderone (sempre più esteso e incontrollato) dell'editoria libraria.
Panem et circenses si diceva nell'antichità, lo diceva satiricamente Giovenale, credo. Solo che oggi sono restati i Circenses, mentre il Panem scarseggia. Ma tanto vale.