venerdì 17 agosto 2018

Spingo e tiro

Ancora Genova. Ancora Genova come punto di svolta mentale. Come nel 2001 (il G8 e quello che ne conseguì), nel 2014 (la presa di coscienza sul rischio idrogeologico) e ora il crollo del ponte Morandi. Tutte le spiegazioni di queste ore appaiono interessanti. Molti assumoro il ruolo di strutturisti della parola. Molti cercano spiegazioni tecniche e politiche. Che i ponti possano crollare personalmente non mi meraviglia, il cemento armato nasce per garantire resistenze meccaniche importanti, ma la resistenza non è resilienza. Questa è la premessa. Potremmo, recuperando alcuni aspetti della cultura tecnica che aiuta a prefigurare i progetti architettonici e alcuni fondamenti della cultura del restauro praticata da me per molti anni, provare a porre in questa sede un'istanza. Posta una sezione in calcestruzzo armato resistente, come viene raggunta la condizione di rottura (la condizione ultima, di collasso), valutandone per tensioni normali la sicurezza nei confini degli Stati Limite di Esercizio? Prima di tutto dobbiamo porre dei limiti al campo di analisi, tralasciando per la sezione il contributo del calcestruzzo soggetto a trazione (quota comunque esistente in realtà); quindi valutare, a premessa, una perfetta aderenza tra le barre di acciaio e il cls che le avvolge; infine ipotizzare nell'analisi la conservazione delle sezioni piane. Premesso ciò, la rottura avviene per raggiungimento delle deformazioni limite del cls compresso o della dilatazione massima dell'acciaio teso (semplificando). Operando in campo elastico/plastico andranno richiamate le deformazioni e non le sole tensioni. Individuata una specifica configurazione di rottura in termini di deformazione, la rottura può venire espressa nei termini di una coppia di valori (di sollecitazioni) di sforzo normale e di momento flettente, che agiscono contemporaneamente nella sezione. Ad ogni configurazione si lega dunque un valore di rotazione della sezione considerata, con determinazione del cosidetto asse neutro di equilibrio (della profondità/posizione di questo rispetto la sezione in c.a. verificata) e definizione della configurazione di rottura. Ogni altra configurazione deformata per la sezione porterebbe al superamento della massima deformazione ammissibile nel calcestruzzo o nell'acciaio. Questo è ovviamente solo l'inizio. In breve la cosa funziona così: assumo un carico, determino le sollecitazioni provocate e massime ammissibili, se supero questa ultimo valore le reazioni espresse dalla sezione resistente non sono più sufficienti e quindi: CRACKK!!! Tutto reso molto terra terra, perché poi vi è un mondo di analisi, di ricerca esperienziale, probabilistica, di conoscenze che non posso e non provo nemmeno a richiamare in questo contesto. Vista la premessa, parlarne al bar o al TG mi pare alquanto fuorviante. Per dirla con parole povere: il ponte resiste fino a quando può. Se si vuole incrementare le sue possibilità in tal senso, si dovrà inevitabilmente intervenire su di esso. Un ponte si deforma, operando nel campo dei valori limite e quindi delle resistenze meccaniche progettate o residue. Un ponte resiste per contrapposizione. Resistere è un termine che deriva dal latino, da RE, addietro, e SISTERE, fermarsi: io sono fermo (sulle mie posizioni) e mi contrappongo, contrasto, fronteggio, mantengo una "passività apparente, ma attiva". Resiliente non ha una risultante etimologica altrettanto lineare. Possiamo farla derivare dal latino RESILIENS, per il quale l'espressione che meglio ci aiuta a comprenderne il senso è la forma gergale "mi rimbalza" (qualcosa, una parola, o una azione). Insomma una "attività apparentemente passiva". Quando un ponte crolla ci si rende conto che il resistere non sempre basta, o perlomeno non basta resistere contando solo sulle proprie reazioni e capacità intrinseche. A volte non sono sufficienti nemmeno le idee. Per cui vale di certo il discorso della manutenzione, ma vale anche di più quello dell'aggiunta intelligente, del puntello o del tirante integrato (in fondo è sempre un discorso di appoggiare e di tirare; di sopperire a delle mancanze, non avendo paura di inserire una stampella, di perdere parte della composizione formale o "ideale" originaria). "Resistere" è inevitabilmente anche capacità di mutare, di modificare le proprie strategie e anche il proprio modo di affrontare chi si pone dinanzi. Forse stare fermi e non arretrare non è più sufficiente. Giorni fa ho ascoltato con interesse, a margine di un evento pubblico, l'intervento di un politico (di "sinistra") sottolineare che in un tempo in cui si è ormai abusato del termine "resilienza", sarebbe infine opportuno riparlare di "resistenza", poiché bisognerebbe ritornare ad un comportamento attivo, se si intende superare certe argomentazioni ("le narrazioni") e azioni ("le politiche"), ormai imperanti in questi mesi. Un ponte crolla anche laddove resiste. Forse la contrapposizione senza arretramenti (di pensiero) non è più sufficiente a determinare reazioni adeguate. Il concetto di resilienza (e qui ha ragione il politico, secondo me) è abusato nel senso. Un termine (uno slogan) NON è (non lo è più) sufficiente di per sè a generare un comportamento politico adeguato. Non è più tempo di scritte sulle magliette e forse nemmeno di striscioni o di bandiere. La modulazione del pensiero aiuta, così come è importante sapere arretrare e accettare di modificare la propria integrità (non etica o morale, ovviamente, ma ideologica) con un nuovo "appoggio" o un nuovo "tirante". Non è trasformismo, ma strategia (culturale e politica). La questione semmai è come e cosa raccontare a chi ascolta per giustificare un proprio comportamentop apparentemente ambiguo, laddove quest'ultimo venisse letto come tale. Di nuovo il problema delle "narrazioni". Resistere per narrazione non sempre funziona (coerenza, malgrado tutto). Resistere per sola reazione non sempre è adeguato (l'ideologia). Contano i fatti, più o meno comunicati che siano (il mito della comunicazione sembra ormai essere anch'esso un sottile palo del semaforo dietro cui è inutile nascondersi). Un ponte non va solo mantenuto (come si tutela l'anziano nelle case di riposo), bensì restaurato (sostenuto). Allora, forse, potrà risultare "durevole", oltre la propria vita utile stimata. Durevole con dignità. Per seguire questo percorso bisogna saper fare però delle rinuncie. La prima all'orgoglio: posso ammettere di avere fatto degli errori, posso accettare di non essere adeguato e quindi di fidarmi di altri, aprirmi alle idee altrui, alle azioni di terzi, di farmi da parte. La seconda al "portafoglio": rinunciare agli interessi diretti, in solido (il soldo) e di posizione. Purtroppo temo sia questa la situazione: i ponti non sono strutture intelligenti, nel senso che non si sostengono di idee, ma di calcoli e materiali. Le persone dovrebbero quindi avere qualche possibilità in più, anche se poi, nello scoprire che sotto certi ponti ci sono le case (dei palazzi condominiali su cui il ponte sembra appoggiarsi), anche questa ultima affermazione, riguardante l'intelligenza intendo, potrebbe lasciare il tempo che trova.
Lorenzo Lotto, Deposizione (particolare), Jesi Pinacoteca
 

domenica 5 agosto 2018

Non necessariamente coerenti...grazie!

In questi mesi, forse come mai prima d'ora, vi è la sensazione di dover porre alla base di ogni riflessione una condizione di appartenenza, sia essa nazionale, identitaria o culturale in genere. Anche generazionale, direi. Ogni discorso ha sempre una premessa non detta (o non scritta), bensì sottesa, che parte da un tacito accordo di condizione tra ascoltatore (lettore) e argomentatore. Ciò non è un bene. Ogni affermazione o pensiero appaiono come svalutati nella loro proposta di ricerca, a favore di un esame di contesto. Tra i contesti possibili: l'appartenenza politica (gli ideali o l'ideologia), la geografia (da dove vengo) e naturalmente la narrazione storica proposta. Oggi è realmente tutto fondato su un confronto (scontro) tra narrazioni molteplici, perlopiù strumentali e funzionali a dei sottopensieri forti. Nell'epoca delle potenzialità infinite di espressione "democratica" (internet) vi è la sensazione di un condizionamento espressivo senza pari; e l'aspetto più inquietante è che esso appare soltanto in minima parte imposto, perlopiù autodeterminato invece, indossato cioè volontariamente a seguito di una sensazione di disagio nel non senrtirsi pienamente accettati culturalmente o adeguati ad una narrazione piuttosto che ad un'altra. Il desiderio più forte (un'esigenza, ormai), quindi, è di incoerenza al contesto e di libertà dal "se stessi", approfittando delle occasioni di sovrapposizione e apertura che ci vengono a volte proposte. Mescolare l'alto con il basso (a ripensarci per me è stato forse sempre così), il chiaro con lo scuro, le passioni di ieri con quelle di oggi, il leggero con il grave (scorgendo il grave dentro il leggero e viceversa) In questa prassi aiuta saper vivere le cose per quello che sono, senza cercare di giustificare ogni scelta o ogni pensiero. Questo lungo preambolo è anch'esso una giustificazione, probabilmente doverosa per far capire a chi legge le motivazioni che mi spingono a parlare di ciò che segue, ma al tempo stesso dimostrazione in solido di quanto vado stigmatizzando. Il messaggio insomma è: godiamoci l'entusiasmo per come arriva, mandando a quel paese la narrazione globale che lo sostiene. Se sapessi affrontare un pensiero verso le cose del mondo con tale "libertà", forse potrei anche superare il pregiudizio con cui guardo ad ogni cosa non mi appartenga: forse potrei anche capirne di più o meglio. Ecco perché nelle mie ricerche personali colgo il meglio, il meglio per me, non in assoluto, e non mi preoccupo di determinare ogni scelta con una razionalità di percorso (non è individualismo, ma rispetto e fiducia del percorso stesso che mi ha portato sin qui). Così non mi meraviglio se la notte del 27 luglio mi trovo a guardare con interesse e fotografare l'eclissi di luna (la più lunga del secolo, pensa un pò!), ma nel scorgerla, mi scopro a pensare solo all'immagine della luna disegnata da Naoki Urosawa in conclusione al suo manga capolavoro Billy Bat (20 volumi pubblicati in Italia dal 2011 ad oggi). 
la luna di Urosawa
Un fumetto per prendere coscienza di come anche i messaggi più retorici trovano un senso dinanzi alle tristi vicende del quotidiano e della Storia. Alla fine il messaggio di Urosawa (e del coproduttore della storia disegnata, Takashi Nagasaki) sembra essere quello della capacità di un "semplice" fumetto stampato (che sia su supporto cartaceo in questo caso non è fattore indifferente) di divenire strumento d'unione tra culture diverse, allorché veicolo di passioni condivise. Senza spoiler sotanziali, tra le tante cose di cui i volumi parlano, un soldato del 2063 perde ogni ragione di esistenza nella brutalità della distruzione totale che la guerra impone, ma trova conforto in quell'unica foto stampata su carta che conserva con cura; "anche se si memorizzano le foto (le mille e mille foto) in un hard disk", staccata la corrente non le puoi più vedere. Nel 2012 con Walter Chendi (autore anch'egli di fumetti) pubblicammo un volume di racconti (SessantaQuaranta, edito da ARTeFUMETTO) con delle premesse simili, e oggi pare che quanto scritto in quel contesto abbia ancora più senso. In sostanza si scriveva: un'immagine scelta criticamente, fissata su carta (la vecchia foto), sa rendere d'istante un piccolo mondo personale che le centinaia di foto digitali archiviate e mai più guardate non riescono a tradurre. La sovrapposizione delle cose (di immagini e di notizie) ci portano a distogliere il pensiero dall'obiettivo primario: non rinunciare mai alla propria umanità. E' questa in fondo anche la storia de "La valigia" di Sergej Dovlatov, che, per essere riempita dei ricordi di una vita, appare sempre troppo grande (anche se all'inizio non lo sapevamo), poiché sono realmente pochi gli oggetti che ci rappresentano e non sappiamo lasciarci indietro. E così, mentre finisco a malincuore Billy Bat, grazie a Dovlatov, ripenso al volume finale della trilogia di Jonas Fink di Vittorio Giardino. L'autore è stato nostro ospite nei mesi scorsi a Ronchi dei Legionari e a Trieste. Nel suo lungo romanzo a fumetti ci ha condotto tra le pieghe della storia contemporanea (la Cecoslovacchia prima e dopo la Primavera di Praga). 
Vittorio Giardino a Ronchi dei Legionari
La storia narrata alla fine parla semplicemente di un uomo, che prima di diventare adulto è stato bambino e quindi ragazzo. Un uomo però posto dinanzi a scelte difficili, quale, ad esempio, pensare alla propria libertà e sopravvivenza oppure combattere per degli ideali. Il mondo del fumetto non è ovviamente la realtà, ma a volte la narrazione è più vera della realtà stessa o perlomeno è più illuminante. Così alla fine la storia di Jonas sembra divenire un'occasione di riflessione su tutte le scuse che un uomo può costruirsi per garantirsi delle fughe dalla realtà. "Uno che scappa", Jonas Fink, ma non ho trovato molti personaggi così umanamente delineati nel fumetto di oggi, tanto che il fumetto di Giardino diventa quasi un saggio per un esame di autocoscienza. E la domanda è: cosa avrei fatto io al suo posto? Quante contraddizioni mi trovo continuamente ad affrontare? Quali sono infine sopportabili? Nel pormi la questione il pensiero va a Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP, ex CSI, ex PGR, oggi "allevatore di cavalli" e cantautore a tratti. Una figura controversa la sua e naturalmente scomoda, perché, come dice lui, "pronta a ragionare con la testa propria". Il tema della coerenza sembra porsi come centrale nel ricordare le sue prese di posizione che ai più sono sembrate contradditorie, specie quando il suo avvicinamento al cattolicesimo ha aperto a gesti e riflessioni discussi ed estremi. "Sempre fedeli alla linea, perché la linea non c'è", ricordiamo. La coerenza nell'incoerenza. La ricerca del prodotto nel continuo rifiuto del prodotto (è stato questo il percorso dei CCCP in fondo). Le sue molte affermazioni recenti: "Mi colpiscono quelli che mettono i cari all'ospizio per dedicarsi al Terzo Mondo".  Ferretti era ad Azzano Decimo (PN), sul palco della Festa della Musica, il 29 luglio. Abbiamo cantato e ballato molto, riascoltando canzoni bellissime, che solo con la sua voce recitante sembrano assumere senso. Da "Morire" ad "Emilia Paranoica", ma anche "Madre" (che dice molto di come l'uomo Ferretti avesse già manifestato artisticamente più volte, in tempi lontani, alcune delle "provocazioni" che saranno poi sottolineate da molti), sino al "salto" collettivo su "Spara Jurij". I CSI (Zamboni, e compagni) sono in tour in Italia con la loro musica splendida, ma senza Ferretti la vicenda CCCP e CSI non esiste, se non nella forma. Manca quella sostanza che l'incoerenza artistica dell'assente solo sa dare. Ho voluto scattare delle foto inquadrando il volto e gli occhi di Ferretti, per rileggere quel "logo" che siglava la copertina di Ko de Mondo, disco pubblicato nel 1994.
Giovanni Lindo Ferretti ad Azzano Decimo
Francesca Michielin a Lignano
E sono nati più o meno in quegli anni, mentre i CSI scrivevano la propria Storia e una parte della Storia della musica italiana, molti degli spettatori, tra i più anziani, presenti tra il pubblico del concerto di Francesca Michielin a Lignano Sabbiadoro (3 agosto). Ho chiesto ad alcuni di coloro che erano ad ascoltare con me Ferretti ad Azzano Decimo di accompagnarmi a Lignano. I loro sguardi imbarazzati (e soprattutto quel loro affermare una distanza "ideologica" da quel mondo musicale che proponevo) hanno alimentato il discorso fatto sin qui sulla coerenza e sulle giustificazioni al proprio pensiero (...la linea non c'è...). Considero Francesca Michielin (nata nel 1995, a proposito), una delle cantanti e autrici più interessanti della scena musicale italiana attuale (chi l'ascolta con attenzione coglie un linguaggio che è inevitabilmente proprio del suo tempo e una apertura musicale molto vasta). Dalle canzoni degli inizi scritte per lei da Elisa Toffoli, sino alla maturazione di una capacità propria, che si traduce durante il concerto in un atteggiamento sul palco di grande consapevolezza e talento (le immagini da me riprese a Lignano colgono sempre una concentrazione e una "distanza" di grande interesse fotografico). Quando il concerto finisce, una parte del pubblico (molti giovanissimi, ovviamente) si avvicina al palco. Lei esce con chitarra e tamburello e regala alcuni pezzi in versione acustica, cantati tra la gente. E' di certo complesso rinunciare alle retoriche con cui affrontiamo strade per noi sicure, rimestando all'infinito parole e linguaggi consueti. Provare a ruotare il foglio che abbiamo dinanzi, guardare la faccia che sta dietro, è un impegno sovrumano oltre che un gesto semplice. In un contesto di narrazioni facili, fatte di "bianco o nero" (alla lettera, direi), ripensare a se stessi dentro una molteplicità di percorsi possibili aiuta a darsi strumenti per affrontare senza pre-giudizi l'attualità. E' un atteggiamento formativo, tutto fatto di esperienze e quindi difficile (o impossibile) da insegnare o restituire a terzi, ma è pur sempre un dovere sociale non più rimandabile.