domenica 15 giugno 2014

Forse

Si fa sempre più fatica a capire il motivo recondito che ci porta a riversare i nostri pensieri tra queste pagine virtuali. Potremmo sintetizzare con voglia di comunicare; tradurre un proprio sentire individuale all'interno di un luogo comune: la rete. Ma anche questa speranza in fondo risulta frustrata dalla parcellizzazione del mare che ci ospita. Certo vi sono "isole" più dense, dove molti scelgono di soggiornare anche a lungo, trovando indirettamente nella luce riflessa di qualcuno quel senso di comunità che potrebbe essere anche scoperto altrove, nel mondo reale ad esempio. Vi sono però anche altrettante isole reali, proprie del mondo reale cioè, dove molti rincorrono la stessa luce altrui, confidando che la vicinanza permetta ad una parte dello scintillio di rimanere impigliato alle proprie vesti. Purtroppo sono sempre meno le stelle che brillano di luce propria. Il talento non ha un percorso osmotico, ma impone fatiche che più o meno involontariamente scansiamo. La fatica non piace, perché tautologicamente affatica, appunto. Si diceva, quindi, di questo grande universo di individualità (i siti, i blog, le pagine social, ecc.) dove ciascuno, come passerotti appena nati attendiamo che ci venga recato il verme in becco (il "mi piace", la "visita"). Perlopiù si muore di fame, perché come dicevo alcune isole sono più dense, e qualcuno, oltre al talento del dire, possiede o sviluppa il genio. A quei pochi geni, devoti regaliamo i nostri pensieri, le nostre passioni; e nel farlo dimentichiamo di crescere, scordiamo che sappiamo anche imparare, che siamo meno deboli di quanto crediamo. Questa situazione potrebbe descrivere molti frequentatori della galassia denominata "rete", che non si chiama così in quanto correla, ma perché invischia e trattiene. Altro caso è poi quello opposto, ovvero la situazione di coloro che, senza autocritica, generano cloni. Se da un lato la "rete" limita, dall'altro spazientisce. I pesci una volta presi si agitano inconsapevoli della fine certa. L'agitazione è spesso entusiasmo, ovvero inconsapevole bramosia d'imitazione. Chi imita rischia di cadere nella duplicazione, non tanto del risultato, che in fondo non sarebbe un male (la copia non è uno scarto, ma uno strumento di crescita), ma della confezione. Per tale entusiasmo si desiderano vite altrui, si duplicano le situazioni e gli strumenti. Chi ama leggere, pubblica. Chi ama disegnare, pubblica. Chi ama navigare, apre nuovi porti a beneficio della rete. Ma questo fare è acritico, privo di consapevolezza critica. La crescita esponenziale delle "scatole" porta con sé l'impotenza di coloro che hanno le qualità per osservare e scegliere. Troppo materiale in gioco impone un lancio di moneta e, se sarà testa o sarà croce, sapremo casualmente l'involontario percorso culturale che ci verrà consigliato. Infine, un universo a disposizione impone a qualcuno di cercare l'attenzione attraverso scelte monomaniacali. Le scelte si concentrano sulla punta delle dita, anche laddove la luna è bene in evidenza, e in un eccesso di zelo, scambiato per talento, si impoveriscono nell'incapacità di darsi e di risultare socialmente utili.
E' un mondo strano questo che ci viene offerto, non buono, subdolo, che antepone tra i propri desideri quello dell'azzeramento delle coscienze, mentre al contempo propone una presa di coscienza. Allorché viene depotenziata la comprensione del vero e del falso, e il lascito sono le migliaia di miliardi di parole scelte di volta in volta sulla scorta dell'attitudine o della sintonia con l'interlocutore, il rischio di controllo cresce. La rete, dicevo, trattiene, e immobilizza.
Dedico questi pensieri alla memoria di Jacques Derrida, ad un decennio dalla sua scomparsa, e ringrazio Pier Aldo Rovatti per averlo ricordato sulle pagine del quotidiano il Piccolo di sabato 14 giugno. In particolare per aver ricordato la convinzione di Derrida "che non c'è filosofia senza amicizia e che l'amicizia è sempre una pratica di denudamento delle pretese di verità. Perché cadano le maschere degli altri occorre riuscire a fare a meno della propria". La filosofia quindi come "momento di disarmo assoluto" e la buona pratica per la lettura del mondo nell'uso della parola "forse". Un insegnamento complesso, non tanto per la complessità del pensiero, ma per la difficoltà dell'animo umano nell'accettare la condizione del dubbio.