venerdì 23 marzo 2012

Blutch

Mi trovo a parlare ancora di un fumettista su queste pagine e in questo caso di uno dei fumettisti viventi che più amo. La sua opera è difficilmente collocabile, straniante, intellettuale, condizionata da riflessioni originali, ma al contempo da una spontaneità viscerale tradotta nell'assoluta libertà del tratto e del disegno. Un disegno materico, non sottile, poco ligne claire. Sto parlando di Blutch, nome d'arte di Christian Hincker, francese, classe 1967, Gran Prix de la Ville d'Angouléme nel 2009. Mademoiselle Sunnymoon, Mitchum, Vitesse Moderne, sono i suoi lavori che ritengo più significativi. Ho avuto l'occasione di incontrarlo, di fargli delle domande, e poi ascoltarlo negli incontri pubblici dedicatigli, durante l'ultima edizione del BILBOLBUL, il Festival del fumetto di Bologna. Vi riporto qui di seguito alcune parti del suo intervento durante l'incontro del 04 marzo.

"Blutch è un soprannome datomi da ragazzo e che ancora mi porto dietro, è un nickname, che possiamo tradurre con tracotante, cattivo umore, ombroso. Ho iniziato vincendo un concorso con una parodia su TINTIN, iniziando quindi a pubblicare nel 1988 su Fluide glacial. E' difficile per me storicizzare la mia storia. Mi sembra sempre di avere vent'anni. E per ogni storia è sempre una ricerca, quindi... Mi credo un disegnatore satirico, quasi umoristico, ma in realtà non mi sono mai sentito veramente a mio agio su Fluide glacial. Aspiravo ad (A SUIVRE) oppure a Metal Hurlant. Posso definirmi un disegnatore del paradosso, non per calcolo però, ma per temperamento: lavoro nella tradizione, ma al contempo ne resto abbondantemente fuori. Di certo a me non interessa l'autobiografia; trasporre la vita, romanzarla la impoverisce. Raccontare la propria vita obbliga a costruire, mettere delle cose in sequenza, e già questo è una menzogna. Nel momento in cui ricreo la vita, ricr
eo un fantasma. Perché non mi chiedete mai se è vero, se è vero ciò che dico di me? La vita di per sè è più problematica, più contradditoria. Ruolo, interpretazione di un parte, sono argomenti centrali nella mia opera. Mitchum (una delle sue opere più famose, edita da Cornélius) parte dal disegno e non dal racconto. E' un diario emotivo, non convenzionale. E' approccio fisico, antintellettuale. In Mitchum c'è una sorta di gioco infantile; nel vedere le immagini oggi, dopo alcuni anni, mi rendo conto della mia distanza da esse, della loro dipendenza dallo stato d'animo che le ha create. E' un album di famiglia, fatto degli stati d'animo che hanno portato al disegno. Ecco la mia autobiografia. Quella è la mia vita privata. E alla gente perchè interessa? E' solo il flusso di coscienza della mano. Però se dico mano e penso allo sguardo, allora posso essere d'accordo. Per fare Mitchum l'approccio è fondamentalmente plastico e pittorico. Rappresento dei luoghi, degli oggetti, che fuori di me diventano dei motivi stilistici: una specie di valigia piena di oggetti. Nel libro sul cinema Pour en finir avec le cinéma (uscito nel 2011 e ora pubblicato in Italia da Coconino Press-Fandango), il mio è un racconto, un discorso e non propriamente una storia del cinema o del cinema. La mia è una storia, ma non un melodramma. Il volume è una riflessione illustrata, riflessione sulle immagini. Ogni immagine mi porta a quella successiva: violenza, deregolamentazione, descrizione della folla, labirinto paranoico, gorgo letterario. E' un modo per rappresentare se stesso, con un'autobiografia all'incontrario. Costruire una storia di finzione partendo da se stessi. Mettere dentro tutto, senza mai apparire. E' la credibilità della menzogna. Il fumetto però non è cinema, non è nemmeno teatro: è l'arte del dialogo. Letteratura illetteraria. Il filtro per garantirlo è il corpo dell'attore. Non uso mai nei miei fumetti "il corpo", nemmeno la parola "corpo". E' un tipo di definizione da arte contemporanea. Io uso "la carne" e la metto in vetrina. La carne che soffre, che invecchia e che crolla. Ne faccio un simbolo. La decadenza non è certo elemento nuovo: tutti sopra un tapis roulant che ci trascina in avanti; tutte le azioni umane nascono per dimenticare che moriremo. Fortunatamente. Il cinema è un accessorio nel mio libro; il centro della questione è un'inquietudine profonda. Corpo è parola elegante, carne no, invece: è la vita rappresentata nella sua faccia più viva. Tra i tanti ruoli che amo rappresentare c'è quello dell'artista. L'artista è il più contemporaneo degli attori. Il suo fisico parla, il suo viso parla. Rappresenta il movimento e quindi rappresenta un'idea. L'artista è patetico, miserabile e va rappresentato come un uomo insicuro e arrogante. Il protagonista del cinema non è distante da Blotch (uno dei suoi personaggi più intriganti, artista tracotante, insolente, invidioso e arrivista). I corpi giocano ruoli dicevo, mentono, fanno gli attori. Come possiamo non mentire; se fin da piccoli ci viene chiesto di dare la miglior immagine di noi (per apparire intelligenti, migliori)?. Quando faccio un'intervista, come ora, mi viene chiesto di dare un'immagine coerente di me. Noi siamo quindi tenuti a mentire, e quindi poi garantiti quando lo facciamo. Quando lavoro, nel mio studio, ho la fortuna di non dover nulla alla società, posso fare tutto, sono libero! Fumetto è forma di scrittura. Ha uno sviluppo orizzontale. Quando faccio delle illustrazioni lavoro in verticale. Le mie illustrazioni (si riferisce a lavori come La Beauté) sono molto anedottiche, e disegnare con il colore non è poi rilassante. E' per me un modo diverso di raccontare. La costruzione di un fumetto classico impone una gabbia con delle vignette. ci sono vignette di transizione, inutili a volte, e che devo fare comunque. Fare libri di illustrazione è per me saltare quelle vignette inutili, è passare con il rosso, andare diritto sino al traguardo. Ai ragazzi più giovani posso dire: l'importante è esprimersi, esprimersi personalmente per essere universali. Mi diceva un mio maestro: Tu sei il cane che azzanna e non devi mai lasciare la carne!. Ora mi sembra di essere come mio padre: devo alzarmi presto e andare a lavorare. E non provo mai nostalgia. Non dico "passavo" le giornate davanti la televisione, ma "passo"... qualunque sia la cosa, lo faccio ora! E poi è importante non mentire a se stessi. Se qualcosa non va lo si sente, lo si percepisce. Puoi dimenticarti di tutto, dell'editore, del tempo, di qualsiasi cosa, ma non di te stesso. Perché tu sei sempre con te stesso!"

Ancora dal BILBOLBUL. Ho visitato la bella mostra del tedesco ATAK, e vi ho trovato un'opera molto interessante, che non conoscevo. Si intitola 32 Stufen zum Erfolg, del 1988 (32 passi verso il successo). E' una specie di gioco di carte (tipo il Mercante in fiera), dove ad ogni carta corrisponde un numero e quindi un motto. Mi ha colpito molto la frase che accompagna il Jolly dell'ideale mazzo, che dice: "Una storia ha un inizio, un nucleo centrale e una fine, ma non necessariamente in quest'ordine". E' la più interessante affermazione di presa di coscienza della possibilità di una visione di sviluppo non progressista che mi sia stata proposta ultimamente.

Infine dal profondo dei lasciti di un secolo (il Novecento), e dalle sue storie più dure e difficili da affrontare, ecco le belle mani della tedesca Isabel Kreitz.
Non capirò mai bene perché il destino abbia deciso di farmi appassionare al fumetto, come forma espressiva in genere; so che poi quando incontro certi autori mi piace ascoltarli e mi pare di fare con loro una strada di ricerca, che alcuni chiamano "passatempo", altri con sciocco imbarazzo "cultura".

sabato 10 marzo 2012

Stella

Ieri è scomparso quello che indubbiamente poteva, fino a ieri, essere considerato il più influente fumettista vivente. Ieri a 73 anni è morto Moebius. Era quello il suo pseudonimo, il suo nome vero era Jean Giraud: ad ispirarlo per l'epiteto il nastro di Möbius, scoperto dall'omonimo matematico. Un nome che richiamava ad un simbolo matematico rappresentante l'infinito, a quella superficie semplice e ad una faccia sola, esattamente come lo sono le singole vignette disegnate da un fumettista. Moebius ha creato un mondo. Della sua morte mi ha avvisato alcune ore fa Mauro, che nel dirmelo ha aggiunto: "Mi pare sia finita un'epoca". E' vero, mi viene da pensare, ora. E' strano il destino di noi viventi, è strana la nostalgica commozione che ci prende quando se ne va una persona anche così poco a noi vicina. Ne ragionavo con una amica mentre di passaggio a Bologna scorgevo attonito quell'immensa fila che si stava formando davanti alla camera ardente di Lucio Dalla in Piazza Grande, sabato 3 marzo, verso le ore 9.15. Era adorabile in quel frangente sentire i commenti delle persone, i loro ricordi privati, dispiegati attraverso le parole usate nel commemorare un uomo conosciuto anche direttamente, a volte in parte, in alcuni casi per nulla. Era la gente che parlava di se stessa; come mai, in quel contesto, ho capito come la nostra partecipazione, il nostro saluto non fossero rivolti a chi se ne va, ma alla perdita di quella parte di noi che, attraverso la scomparsa di un ricordo personale, di una passione, di un piccolo mito privato, ha smesso improvvisamente di esistere. E' una presa di coscienza improvvisa e dolorosa e ad essa ci vogliamo quindi inchinare. Così, Moebius; i cui disegni potevano tutto e che tutti hanno influenzato e spiazzato. Moebius, che nella sua ritrosia a rilasciare dei disegni, l'ultima volta che ebbi modo di incontrarlo mi omaggiò di una stella. La sua.