lunedì 29 dicembre 2014

Chroniques italiennes

Con un ponte mentale tra il titolo di una raccolta di racconti di Stendhal, pubblicata postuma alla metà dell'Ottocento (Chroniques italiennes, 1855), e le vicende (vicissitudini?) quotidiane della nostra nazione, mi pare opportuno continuare il racconto di sintesi del 2014 con una raccolta postuma di "passioni" alimentate dalla frequentazione assidua delle forme linguistiche e artistiche più varie. Cosa resta di tali esperienze alla fine dell'anno in chiusura? In realtà molte sedimentazioni, che mi pare di poter riassumere per come segue. Devo ammettere che l'esperienza fatta assieme al gruppo di ETRA mi ha coinvolto molto (www.culturaeticaetra.com) e forse mai come quest'anno ha facilitato l'incontro con persone, ricercatori e professionisti che si occupano di architettura e urbaistica. Tra le persone che mi hanno maggior influenzato con il loro entusiasmo e uno sguardo non ortodosso sul mestiere oggi più oltraggiato del mondo (l'architetto), devo qui citare alcuni dei membri del collettivo AcceSOS, in particolare l'arch. Matteo Fioravanti; poi l'arch. Benno Albrecht, che sta portando avanti una ricerca del tutto personale a Venezia, all'interno del Dipartimento IUAV di Culture del Progetto. Lo stesso Albrecht è anche il curatore di quella che giudico l'allestimento più interessante visto quest'anno, ovvero Africa. Big Change | Big Chance, vista alla Triennale di Milano in questa chiusura d'anno. La mostra ha saputo lanciare sguardi plurimi su di un continente che sarà di certo nel prossimo futuro sede privilegiata di riflessioni importanti all'interno della cultura dello sviluppo urbanistico sostenibile. Un'occasione di riflessione architettonica e urbanistica di gran lunga più interessante delle banalità espresse da Fundamentals di Rem Koolhaas a Venezia per la 14a Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia e soprattutto dalla pochezza (e l'anacronismo) della riflessione sugli innesti promossa per il Padiglione Italia da Cino Zucchi. Devo qui inoltre ricordare un professionista scomparso nel settembre di quest'anno che, con il suo pensiero laico, mi ha indirettamente insegnato molto, Bernardo Secchi, uomo di cultura letteraria estrema e di assoluta dedizione alla ricerca. Vorrei parlarne ancora in un'altra occasione. La mia preferenza in campo artistico va invece per l'ottima mostra milanese al Museo del Novecento Yves Klein - Lucio Fontana. Milano Parigi - 1957-1962, con un allestimento integrato nel percorso espositivo del museo, che ha consentito di gettare uno sguardo in avanti, partendo (in questo caso sì) dalle fondamenta di alcune delle riflessioni culturali forse più importanti del secolo scorso. Altra ricerca e altro campo di interesse è stata la pittura di fine Ottocento e inizio Novecento, stimolata da una mostra a Palazzo Roverella di Rovigo, L'ossessione nordica, curata da Giandomenico Romanelli. Simbolismo, naturalismo, pittura intimista con i quadri di Boecklin, Carl Larsson, Anders Zorn: la figura umana a confronto con la natura e le profondità della propria mente. E' invece americano il film (uscito già all'inizio del 2014) che mi ha maggiormente entusiasmato e che trovo perfetto per raccontare questi nostri tempi, dominati dalla spregiudicatezza economica. Il regista è Martin Scorsese e il film The Wolf of Wall Street con protagonista Leonardo di Caprio. A fare il paio con questo il capolavoro assoluto di Miyazaki Si alza il vento, già ricordato nei post precedenti. Gli ascolti musicali di quest'anno mi hanno riavvicinato con certe sonorità molto amate da ragazzo. Tre titoli mi sono restati addosso: Trixie Withley, Fourth Corner; Sharon Van Etten, Are We There; Sun Kil Moon, Benji. Chi segue la musica folk-rock americana sa che non ho scoperto niente di nuovo. E per peggiorare il senso di déjà-vu, Neil Young a tutto volume. La cosa si amplifica al momento della lettura letteraria. E' stato Delitto e catigo, romanzo-mondo di Dostoevskij a darmi il maggior numero di emozioni. A conferma che rileggere è a volte meglio che leggere e basta. Altro libro molto utile è quello dedicato a Salinger, di David Shields e Shane Salerno. Infine i fumetti. Qui voglio andare oltre le ristampe che abbondano nelle librerie e nelle edicole. Rileggere Ken Parker è stato utile, anche per comprendere meglio i limiti della serie, nell'enfasi ideologica spesso espressa dai suoi autori, o nella convinzione eccessiva attribuita da questi ai propri mezzi. Parimenti appare, dalla riproposta Cosmo, dagli allegati alla Gazzetta dello Sport, dalle edizioni Mondadori e dalle riedizioni in fumetteria, che la BD franco-belga colta nel suo insieme fa il paio con la pubblicazione da edicola e da libreria della Sergio Bonelli Editore. Esprimono due culture diverse nel fare fumetto, ma rappresentano una realtà del tutto editoriale, dove la "massa" del prodotto costituisce spesso il limite primario alla qualità. Non esiste divergenza tra fumetto d'autore e fumetto popolare, non è mai esistita. Il buon fumetto sta nella scrittura curata, nel buon disegno, nella cura editoriale; e nell'esame della quantità del pubblicato (oggi più che mai evidente) le occasioni per godere del medium alle sue massime potenzialità sono realmente poche. Vorrei quindi evidenziare la qualità di una serie su tutte, The Walking Dead di Robert Kirkman e Charlie Adlard, fumetto ben scritto e ben disegnato, intrigante pur nella ripetizione del plot iniziale. Di certo non proprio una scoperta. Nel campo delle storie conclusive segnalerei invece due fumetti su tutto, E la chiamano estate di Jillian e Mariko Tamaki (BAO) e soprattutto il bellissimo Poco raccomandabile di Cloé Cruchaudet (Coconino Press/Fandango). Due scoperte all'interno di culture e segni fumettistici molto definiti e già sondati nel recente passato. Ecco qui la mia sintesi 2014. Si riparte ora, per un nuovo anno, alla ricerca infinita di un'emozione culturale.
P.S. La foto viene dal blog di Manuele Fior, che ringrazio, e mi pareva adatta a rappresentare la direzione presa dalla nostra cultura: due piedi nel futuro e la testa nel passato

giovedì 25 dicembre 2014

Autocritique

Parlare di un anno che sta finendo è pur sempre annunciare una svolta. Si getta il calendario, così come si gira un foglio appena scritto della propria esistenza, in un libro che sappiamo difficilmente avrà (ad avere molta fortuna) oltre le cento facciate. Scrivere a fine anno è scrivere in forma autobiografica. Come proponeva Edgar Morin, intitolando così un testo del 1959 che parlava delle sue esperienze di vita, in forma di Autocritique. Insomma, ci si racconta e ci si mette in gioco. Ho cominciato presto, a Natale, mentre sento che nella stanza accanto si sta preparando una tavola da onorare. Ci sarebbe molto da dire, e non so se, cominciando ora, riuscirei a completare la cosa per il Capodanno. Per contraddizione vorrei essere sintetico. I termini (le parole) che maggiormente mi hanno impressionato durante il 2014 per il loro uso, ma soprattutto per il loro abuso, sono state: "povertà" e "scontro". Alla televisione una ragazza rispondeva nei giorni scorsi che "povero" è solo colui che non ha un posto dove stare, un riparo sulla testa, e qualcosa di cui nutrirsi. Condivido questa lettura, gli altri vivono solo dei problemi. "Andremo allo scontro" è una proposta di vita che mi spaventa, poiché è improduttiva. Mi meraviglio che stia perlopiù nel linguaggio di chi ha delle responsabilità specifiche. La maggior confusione linguistica che mi pare di avere percepito quest'anno è nell'uso improprio della parola "comunità" al posto di" società", e viceversa. Se la differenza non è chiara, non può esserci nè tutela, nè programmazione. La parola più abusata di tutte: "Etica". Rispetto quali parametri? La seconda (ma l'ho già evidenziato nei post precedenti) "Bellezza". Rispetto quale valore artistico? Ne potrà mai esistere uno assoluto? Il tormentone (e siamo solo al 2014!): "Grande Guerra". E' un fatto interiore o esteriore? Può essere "rappresentato"? O meglio sarebbe viverlo intimamente, per una crescita personale e di conseguenza realmente collettiva. Il problema più grande? https://www.youtube.com/watch?v=zLhvfBRXC_4 (invito alla visione). Una sintesi finale? La distanza dello status intellettuale dal lavoro dei nostri padri.
Sta in questo scarto ciò che chiamiamo "crisi", non di certo in un problema di "domanda", di riduzione/contrazione della spesa. Per che cosa poi che non si abbia già! Mi pare che, nell'iniziare questa disamina di autocritique di fine anno, possano risultare queste riflessioni coerenti con lo "spirito del Natale". Auguri!

lunedì 8 dicembre 2014

Le cose che mi passano per la mente

Di certo l'atto più estremo a cui si sottopone l'essere umano è la scrittura. La mente raccoglie in ogni istante centinaia di pensieri e li elabora contemporaneamente, li sovrappone, li mescola. Chi scrive opera una selezione limitante che estrapola una delle migliaia di queste elaborazioni, e le pone sulla pagina. Lo strumento digitale (la scrittura digitalizzata) è per molti la forma più repentina per gestire tale passaggio. Per me è la scrittura manuale (penna su carta). Ogni scelta pone il problema di ciò che è andato perduto a causa della stessa. Ogni parola scritta è quindi al tempo stesso una piccola vittoria ed una enorme sconfitta. Il filtro che ci permette di selezionare ciascuna parola scritta, o detta, è ciò che chiamerei cultura personale o, generalizzando, "cultura". Mai parola fu più abusata di questa, e probabilmente ciascuno nell'utilizzarla si colloca ben lontano dal nucleo sostanziale del significato di quel termine. Cultura, dal participio futuro del verbo latino còlere, quindi coltivare, ma anche avere cura, e infine per ragioni stanziali abitare; al participo passato coltus, che rimanda anche all'onorare, al culto. L'etimologia spiega come sia più importante il percorso che l'atto in sé. Se non vi è la cura, la "coltivazione" e l'"abitazione" prolungata, vi è solo superficialità. Nei giorni scrorsi Renzo Piano, quale senatore dinanzi al capo dello stato, precisava (il testo è quello raccolto da la Repubblica) di non essersi mai sentito, nemmeno da giovane, un semplice architetto (vorrei evidenziarvi, come già l'uso del termine "semplice" la dice lunga su come lo stesso si collochi rispetto i colleghi, quando in realtà nell'essere architetto, specie oggi, vi assicuro che di semplice vi è realmente poco), ma un costruttore di luoghi di cultura, un amante della bellezza. La cultura, continuava Piano, la frequentazione della bellezza (ecco qui il senso dell'"abitare a lungo"), il sapere, ci rendono persone speciali. Qualsiasi lavoro si faccia nella vita, ricordava Piano, ciò che renderà unici sarà la dimensione culturale del singolo. Oggi sono tutti ad evocare la "bellezza", dopo Sorrentino e il suo Oscar hollywoodiano in Italia si mangia pane e bellezza. Ma, come sapete bene, senza procurarsi il pane (purché non si vada a rubarlo) non si mangia. La bellezza va conquistata e non solo evocata. In Italia sembra sempre che la bellezza vada frequentata, ma il costruirla (per restare in tema architettonico) spetta a terzi. Cultura dicevamo. Recuperando alcune riflessioni del 2012 di Massimo Angelini per la rivista online Montesquieu.it dell'Università di Bologna, a cui devo anche gli spunti per la mia sintesi etimologica, dalla "cultura si passa al culto", se cogliamo il senso del tempo, e il "culto preannuncia la cultura", se predilegiamo il fine. E' quindi sempre una situazione di tempo o di finalità. E' ciò che permette alle passioni di prefigurare la cultura. La passione permette la frequentazione e quindi l'abitazione prolungata. Sono le passioni che ci spingono ad approfondire e quindi a spostarci da casa, ad esempio, e raggiungere un teatro, la sala cinematografica, una galleria espositiva, una fiera di settore. Ecco che giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, direi, stancandosi e spendendo, si matura dentro di sé un ambiente utile ad ospitare con consapevolezza il raccolto. Raccolto che viene onorato e curato. Cosa succede invece oggi? La passione viene sostituita dalla mediazione, nel senso della comunicazione mediata. La frequentazione è indotta dalla comunicazione. Ciascuno si sposta rispetto costruzioni mediatiche che definiscono e stabiliscono il culto. Le scelte sono fatte da terzi. A ciascuno basta raggiungere l'oggetto proposto e quindi "coglierlo". Ma da ciò non nasce la cultura, manca la frequentazione e la ricerca pesonale determinata dalla passione. L'evento non è mai di per se stesso un luogo abitato, ma solo un tramite per qualcosa che potrebbe nascere in futuro. Come si diceva è una questione di tempo e di finalità personale. Ecco qua, tutto questo discorso per chiarire che non basta andare all'inaugurazione di una mostra e neanche recarsi alla prima del Teatro alla Scala di Milano per il Fidelio per "abitare" qualcosa. Che spesso una programmazione culturale vale di più di uno, dieci, cento eventi; e spesso programmazione culturale fa rima con uso di poche risorse. Di chi è la colpa? Della comunicazione si diceva, prima di tutto, delle necessità politiche che stanno dietro ogni progetto culturale, dovendosi garantire riscontri immediati, quindi momentanei, quindi scarasamente o poco sentitamente "frequentati", quindi in fondo inutili. La sovrapposizione che tende ormai all'uso indifferenziato dei termini "cultura" e "intrattenimento" è alla base di ogni fallimento culturale. La bellezza resta là fuori, visitata appunto, ma mai abitata realmente. Tutto questo mi è sovvenuto con chiarezza dopo la presentazione del nuovo volume di Loriano Macchaivelli e di Francesco Guccini, La pioggia fa sul serio, Strade blu, Mondadori, durante il festival CormonsLibri alla Sala Italia, domenica 07 dicembre. I due appaiono verso le 19.00, in una sala gremita di gente, molta della quale presente per assistere anche all'incontro precedente con Dino Zoff e Bruno Pizzul. Tantissime persone presenti per Guccini. Tra mille frivolezze dette, tra le difficoltà di stare dentro una sala al limite della sicurezza, tra il desiderio di ciascun amministratore o rappresentante istituzionale territoriale presente di marcare la propria presenza, facendo a parole propria una manifestazione riuscita, l'incontro è apparso alla fine per quello che temevo potesse diventare: una occasione persa per crescere. Eccoci quindi tutti insieme, presenti ad una recita mascherata, ciasuno con il suo ruolo, ad abbracciare miti che furono, a cercare risposte già date anni orsono, a frequentare la nostalgia, a ridurre, come sempre più spesso accade, la cultura in un culto del materiale e dell'effimero. Non mi faccio mancare nulla, avvicino anch'io gli autori, assumo la laica eucarestia dell'autografo. Francesco Guccini è la maschera della noia, invecchiato, gobbo su se stesso, infastidito dalla fila lunghissima dei fan e dalle foto che i più gli chiedono di scattare assieme. Vorrei scattarmela anch'io una foto con Francesco, ma quando è il mio turno gli chiedo: Ma ne hai voglia? Lui risponde con un secco, no! Gli rispondo che allora la foto non la faccio, e lui scoppia in una sonora risata, rompendo il momento di fastidio che stava provando. Mi offre la mano, che stringo, e nel ricordo dell'uomo quello vale più di una foto. Non è stata cultura, quindi, ma solo passione fine a se stessa.
P.S. Per la cronaca, la miglior battuta della serata la fa Guccini: "Non ho la patente, non ho il telefonino... tra poco entrerò tra le specie protette dal WWF!". Bontà sua! 

venerdì 14 novembre 2014

Sintesi

Mi accorgo, mentre inizio a scrivere questo post, che quello precedente era il n.200. Volevo così scrivere delle cose e invece ora mi sembra di volerne raccontare delle altre, proprio partendo da questa piccola consapevolezza numerica. Duecento post sono un libro. Mi sorprende quanta energia sia stata spesa nel gestire questi testi, e quanta sia stata forse dispersa o avrebbe potuto favorire altre situazioni. Ancora una volta mi auto-alimento nella riflessione della sovrapposizione tra vita reale e vita raccontata, e tra "vita" e spazio virtuale. Qui, tra queste pagine, siamo in realtà molto più "piccoli" di quanto ciascuno creda. Siamo in fondo delle realtà puntiformi nel grande mare della connettività. Il nostro pensiero, qui, conta molto meno di quanto vogliamo convincerci possa fare, spendendoci così nel tentativo di raggiungere un pubblico, in realtà mai così disattento come in questa sede. Nella realtà "vera" ti muovi, trasformi energia in azioni, che a volte restano, sottolineano, trasformano; qui il cerchio sembra chiudersi su se stesso, poiché le parole si alleggeriscono, perdono di peso, sono a volte degli specchi. La scelta iniziale di non aprire questo blog ai commenti esterni voleva rappresentare proprio il mettere alla prova il ruolo di questo spazio come luogo "possibile" di relazione. Siete stati pochissimi a scrivermi sulla mail messavi a disposizione per cercare tale confronto. Il "commento" è realmente lo strumento dell'usa e getta, dell'autoalimentazione. Anche una email inizialmente pensavo lo fosse, invece si è rivelato per tutti comunque uno strumento complesso da affrontare, bruciato dalla rapida evoluzione del pensiero veloce, spesso poco riflettuto, spesso buttato lì per contrarietà o per chiacchiera al bar. Ecco, questo luogo virtuale accetta ancora la regola del bar, del pensiero da bar, della parola frivola, che rinuncia al linguaggio, all'etimologia, alla semantica, alla sintattica, per limitarsi al suono, all'affermazione cercata dell'"ecco, ci sono" a tutti i costi. "Continuavo a guardare fuori" impone una auto-regolamentazione, ovvero che quanto si va scrivendo risulti perlomeno "digerito", acquisito,  messo alle spalle della scrittura. Appartenga ad un ieri, se non temporale, perlomeno psicologico. "Continuavo a guardare fuori" è un passato mentale, più che reale. Ho rinunciato spesso a commentare l'attualità, rileggendola il più delle volte sulla scorta di un bagaglio se non culturale (magari!), di certo speculativo. Ho usato spesso i miei cari fumetti come maschera, al pari delle mie esperienze più naif, quali quelle rivolte al ricordo nostalgico o all'incontro con le "star", ricordando l'accezione che ne faceva Edgar Morin. Ne è infine risultato un viaggio, che è stato per me un percorso epistemiologico, nel senso di ricerca della conoscenza quale esperienza scientifica. E' stato in fondo sempre un tentativo di sondare un metodo, definire una chiave di comprensione dell'odierno. Oggi, periodo storico in cui appare ineluttabile che sia la storia a risultare il luogo di approfondimento umanistico preferenziale, dovendosi ricercare delle risposte ad una quotidianità debole proprio attraverso la forza sostanziale della lettura storica, mi sembra un dovere affrontare il presente. "Continuavo" è un lascito del passato che si approfondisce nell'odierno, è un flusso e non una serie di occasioni che lavorano a scompartimenti separati. Non ho ancora voglia, quindi, di abbandonare queste pagine, pur nella consapevolezza della loro inutile specularità. Scrivo per chi? Scrivo per me? Forse. Ma perché non potrebbe essere così!   

mercoledì 5 novembre 2014

Lucca 2014: star e wars!

Archiviata Lucca Comics & Games 2014, appare impossibile non farne un resoconto. E' stata una grande annata specialmente perché il tempo meteorologico è stato splendido e ha concesso di godersi, per una volta, a pieno la città. Perché la vera forza della manifestazione è la città, bellissima, con tutti i suoi angoli continuamente da scoprire e che anno dopo ano riescono sempre più a coinvolgerti con la loro atmosfera senza tempo. Tra i ricordi di quest'anno stanno quindi i "prati" fuori dai bastioni, le murature degli edifici ricche di sedimentazioni, dove gli archi rimangono come vestigia di aperture antiche, lasciando il posto ad altri fori, che sono poi passaggi temporali verso gli interni delle case che vorresti inutilmente scoprire. E poi i giardini segreti, le terrazze, la circumnavigazione infinita sopra le mura alberate... i colori dell'autunno.
Insomma ciò che più resta al visitatore è questo. Che merito ha la manifestazione nella scoperta di tutto ciò? Quest'anno enorme, poiché avere dislocato gli eventi sempre di più anche nelle aree meno conosciute ha permesso di scoprire nuovi scorci, nuovi spazi pubblici e privati. Chi ha saputo vedere tutto ciò non ha potuto che esultare. Poi ci sono i Comics, e di certo anche i Games, i Cosplayer, la Japan Town, il Family Palace. Ogni sito è stata una scoperta. I games per degli incontri interessanti sui giochi di ruolo; i ragazzi e gli adulti mascherati, perché sono ormai il vero simbolo della manifestazione con il loro entusiasmo infinito, e anche, perché no, con il loro edonismo ingigantito dal sentirsi parte di una moltitudine tutta racchiusa nel calderone Lucca.
L'area giapponese dove un allestimento completamento inserito nello spazio pubblico ha permesso di godersi la complessità della portata del fenomeno e scoprire nuove situazioni promozionali, come il caffè servito "alla giapponese". Il settore Junior che, oltre ad una mostra incredibile sui LEGO e una mostra di illustrazioni molto bella sul tema della rivoluzione, ha permesso di confrontarsi direttamente con Guido Scarabottolo e l'assoluta grandezza della sua arte. Infine i Comics. Ci sono stati ospiti degni di nota, e citerei su tutti, ovviamente, Robert Crumb, poi Brian K.Vaughan, Fiona Staples e Masakazu Katsura. Non è stato facile il confronto con il primo e l'ultimo di questo gruppo di autori. Crumb assieme a Gilbert Shelton erano gli ospiti annunciati da mesi a Lucca dai tipi di ComiconEdizioni; e infatti gli organizzatori del Napoli Comicon hanno portato Crumb e Shelton a Poggibonsi il 28 ottobre in collaborazione con l'Accademia del fumetto di Siena  e Fenice Contemporanea, occsione in cui i due maestri dell'undergroud americano hanno parlato, autografato i volumi ecc.. Invece a Lucca no! Almeno Crumb, ovvero l'ospite principale del festival! Misteri degli interessi economici!
Shelton allo stand con tanto di bicchiere di birra in mano (vedi foto) ad autografare mentre tutti speravano in Crumb, mentre il buon Robert se ne stava chissà dove a fare cene di gala e firme per i soliti noti, oppure si concedeva alla solita stampa e infine si offriva, scortatissimo, come un santo, al pubblico durante una imbarazzante conferenza pubblica sabato 01 novembre. Lasciando da parte le polemiche, anche perché o uno si adegua oppure se ne sta a casa, la conferenza imbarazzante lo è stato davvero, non tanto per gli autori (Shelton è un automa, ma Crumb è eccezionale), ma per gli intervistatori, poco precisi e preparati e soprattutto completamente nel pallone dinanzi ai due. Ma Crumb, dicevo, è un mito vero, e dopo aver capito di trovarsi in una ex chiesa (l'auditorium di San Romano è una bellissima chiesa sconsacrata a navata unica), ha cominciato a benedire laicamente il pubblico, ridacchiando tra una battuta e l'altra, facendosi serio in altre occasioni, mentre la sua inseparabile moglie gli suggeriva dal pubblico alcuni nomi dimenticati, alcune risposte, oppure gli lanciava battute che lui riprendeva e rilanciava.
Ho visto tutto questo dalla prima fila, assieme a cinque appassionati dell'arte di Crumb che mi hanno fatto sprofondare per la loro cultura in materia. Credo valga la pena riportarvi alcuni passaggi delle cose dette da Crumb durante l'incontro, perché sono uno spaccato di storia del fumetto e della cultura in generale. Alla domanda sul come fosse nato l'underground, Crumb risponde: "Tutto è cominciato grazie all'LSD! Tu portavi ai giornali hippie qualsiasi cosa, di qualsiasi valore, e loro la stampavano. Era eccitante vedere i fumetti stampati. Gli hippie erano lupi travestiti da pecore, che pensavano di fare soldi con i fumetti psichedelici. L'underground è finito nelle mani di gente incompetente! Stampatori incompetenti! Ma loro dicevano: 'I soldi te li sei presi, no!' Io non immaginavo che uno stampatore coscienzioso fumasse così tanta marijuana!". Interrogato sull'influenza di Harvey Kurtzman, Crumb racconta: "Tragica figura quella di Kurtzman, finito schiacciato dall'impero di Playboy. Provo un odio vicerale per Hugh Hefner. Ma Kurtzman aveva bisogno di denaro. Era il mio eroe e vedere quello che Hefner fece di lui, mi fece pensare: ' Io non finirò mai così!'. Hefner era un editore, fumettista incapace e frustrato che approvava e correggeva i disegni splendidi di Harvey. Voleva far parte del processo creativo di Harvey. Kurtzman un giorno mi disse: 'Guarda cosa fa quest'uomo ai miei disegni!', e si mise a piangere". Crumb dice di prediligere gli albi a fumetti alle strisce, ad esempio i fumetti di Carl Barks, perchè se nelle strisce il disegno era ok, il testo non era molto curato o utile. Spiegelman ha lavorato alacremente per far uscire il fumetto dall'anonimato e rivalutarlo come arte. "Oggi esistono un sacco di fumetti pretenziosi, li leggo e dico 'Che cavolo vuol dire!'". La moglie di Crumb interviene ribattendogli: "Non lamentarti! Facciamo un sacco di soldi con la tua roba!" E Crumb risponde: "I borghesi sono stati molto buoni con me!". "La musica me la sono tenuta come hobby. L'unica cosa che pagava di meno del fumetto era la musica, specie se suonavi strumenti quali il banjo, ecc.. Suonavamo seduti e non come le rockstar atteggiandoci o saltando qua e là. La gente annoiata ci chiedeva: 'Perché state seduti?' Abbiamo svuotato intere platee così!". "La cosa che mi affascinava più di tutto era me stesso. Ecco perché sono diventato il mio personaggio principale. Con la collaborazione di mia moglie!". "Oggi chi vende libri non vuole stampare e vendere formati desueti. Ma sono restrizioni a cui il fumetto è sempre stato legato. Sono le regole della stampa. Adesso vogliono mettere le tavole fumettate nelle scatole elettroniche. io non ho però ancora trovato nessuno che abbia reso efficace questo sistema e quel formato! Ma forse succederà, dico solo che oggi ancora non c'è! Come per tutte le tecnologie c'è sempre un'età dell'oro. Per il fumetto era il periodo delle tavole colorate alla Winsor McCay". Crumb un genio vero! Sono onorato di averlo potuto ascoltare dal vero! Lucca quest'anno è valsa solo per questo!
Altro scortatissimo è stato Masakazu Katsura, con incontri prenotati, dediche ad estrazione e bodyguard giapponesi a fargli da contorno. I fans hanno più volte voluto esprimergli gratitudine per la scrittura di Video Girl Ai, che ha segnato un' epoca con la sua uscita nel 1993 in Italia, aprendo di fatto l'attenzione del pubblico femminile alla lettura del manga. La cosa più interessante Katsura l'ha regalata disegnando una splendida Ai, poi sottolineando il suo totale disinteresse per la lettura dei manga e che la sua scelta di diventare mangaka è stata del tutto legata al fatto che ciò gli garantiva un buon introito economico.
Persona simpatica Katsura, estremamente intelligente, gran conoscitore del come vendersi al proprio pubblico. Mi ricorda un po' GIPI in salsa orientale.
Altro momento topico del festival è stato l'incontro Comics Talk, gestito da Matteo Stefanelli dove allo stesso tavolo si sono seduti ancora Katsura, quindi Brian K.Vaughan, Rutu Modan, Brian Lee O'Malley e Cameron Stewart. E' stata una buona occasione di confronto tra le varie scuole del fumetto internazionale, con gli autori disponibili a raccontarsi, a divertirsi assieme al pubblico. Anch'egli scoprendosi in una ex chiesa, Vaughan si lascia sfuggire: 'Il fumetto è la mia religione!' Alla domanda di cosa scateni la creatività, Vaughan risponde che qualsiasi cosa gli faccia paura diventa il soggetto di cui prova il desiderio di scrivere. i fumetti aggiunge sono una sorta di psicoterapia". Rutu Modan risponde così alla stessa domanda: "Origliare i discorsi degli altri!". Katsura inece amplia l'argomento: "La Hollywood degli anni Ottanta, una conversazione tra amici, qualsiasi cosa, ma dipende dalla voglia che uno ha di realizzare una storia. Se uno si demoralizza durante il processo creativo la creatività stessa si disperde".
Eccovi una carrellata fotografica degli autori che più ho apprezzato in questa edizione: Fiona Staples (che allo showcase del 02 novembre ricorda una frase suggerita dalla moglie a Brian Vaughan, ovvero: 'Non ti preoccupare di quello che gli altri pensano di te. Gli altri non pensano mai a te!").
Mike Deodato Jr, che con Giuseppe Palumbo e Boichi ha partecipato ad un simpatico incontro il 31 ottobre (dal pubblico qualcuno chiede che cosa faccia a loro paura, e benchè incuriositi della domanda i tre rispondono. Palumbo suggerisce la perdita di un affetto, e quindi la morte, Deodato, il resoconto della carta di credito della moglie a fine mese, Boichi, la pigrizia che lo potrebbe cogliere prima del lavoro: tre culture diverse, tre punti di vista del mondo restituiti in una volta sola, ovvero le radici familiari e secolari profonde di ogni europeo, la visione capitalistica insita nella cultura americana e infine  la dignità e l'autocontrollo propri della cultura orientale).
E ancora: Cloè Cruchaudet, Léonie Bischoff, Brian Lee o'Malley.
David Petersen con la sua assistente, Rutu Modan (qui ricordata con un suo disegno), Cameron Stewart (di una bravura e simpatia incredibili). 
A parte ci sono i "fenomeni", quelli che vendono quintali di volumi in tempi di crisi. SIO visto alla Shockdom, allo Studio Evil e da Panini, inseguito da schiere di giovanissimi compratori, Mirka Andolfo con il suo Sacro Profano e naturalmente Zerocalcare. Qualunque sia l'ora del giorno li trovi piegati sui volumi da autografare, assaliti dai fans e da un successo complesso da spiegare a parole senza ricorrere a profonde analisi di stampo sociale e di certo anche generazionale.
Mi resta un dubbio, considerata, appunto, la "crisi": ma dove trova 'sta gente i soldi per comprare tutti 'sti fumetti, specie i giovanissimi. Io da parte mia mi sono fermato a sette volumi e mi pareva di aver già esercitato a sufficienza la pratica del salasso monetario. Misteri!
A me non resta che il cielo da guardare, prima di lasciare Lucca. Per fortuna in buona compagnia!
 

lunedì 20 ottobre 2014

Sulla strada...

Conclusa l'esperienza OsservAZIONI (potete trovare un resoconto al sito www.culturaeticaetra.com/l'atto di vedere), mi è restato impigliato tra le dita e tra i neuroni il desiderio di affrontare ancora, dopo tanti anni, nuovamente il linguaggio della fotografia in prima persona. Ho ritrovato nel mio cassetto la vecchia Nikon F301 analogica, desueta e tristemente abbandonata a se stessa. Eppure tra l'età dei quindici e i venticinque anni è stata una compagna assidua delle mie esperienze. Pensare oggi di gestire nuovamente rullini, acidi e camere oscure, mi spaventa un pò, per la difficoltà di rimettere tutto in moto e per la consapevolezza della comodità dello strumento digitale. Ma l'esperienza di OsservAZIONI ha rimesso tutto in circolo e mi ha anche chiarito, tra le righe, che cosa mi piacerebbe ora affrontare con un obiettivo. Se i laboratori sviluppati con i ragazzi delle scuole avevano come tema la città, oggi mi pare che quest'ultima vada avvicinata attraverso un aspetto che della città è l'essenza vera: i suoi abitanti e in ultimo esame l'umanità sottesa. Poiché le cose accadono tutte concatenandosi, quasi mosse da mani esterne guidate dai nostri più profondi e misteriosi ragionamenti, scorrendo le pagine online del quotidiano la Repubblica, ho letto una nota che ribadiva una mia convinzione profonda, ovvero che i social network sono il nemico primario della socialità. Online veniva presentato il lavoro di un fotografo che seguo da qualche tempo su internet, attraverso il suo blog. Babycakes Romero è fotografo di strada, come si definisce, e tiene nel suo sito un blog di scatti quotidiani dedicati alla sua città, Londra. la Repubblica riprende oggi  un suo lavoro fotografico postato già nel gennaio 2014 (mi pare una perfetta scelta di tempo per il maggior quotidiano nazionale; ma cosa volete erano tutti impegnati in questi giorni a dire banalità e ad incensarsi al festival La Repubblica delle idee a Palermo da non riuscire più a togliersi la veste del già visto e del già detto, della retorica e del pettegolezzo, ormai indossata in realtà da molti anni come divisa), dal titolo Death of conversation. Il tema è quello della difficoltà di ciascuno nel resistere a chinare il capo sul proprio smartphone, rinunciando ad ogni dialogo se non condotto attraverso il filtro di quell'oggetto. Andate a vedere quel lavoro direttamente alla fonte http://babycakesromero.com/blog/ alla data del 23 gennaio.  Ma il blog di Romero è interessante per tutto il suo lavoro in strada. Le foto del progetto MYLDN series sono uno spaccato della Londra più vera attraverso le sue anomalie, umane, urbane, materiche. Perché me ne ero interessato ormai alcuni mesi fa? Perché vi ho letto l'insegnamento e l'ispirazione di quella che resta per me una maestra della fotografia sociale-urbana, ovvero Diane Arbus (nella foto). Diane, nata nel 1923 e scomparsa ancora govane nel 1971 fu la prima fotografa americana ad essere esposta alla Biennale di Venezia (nel 1972), ma soprattutto direzionò in vita tutta la sua ricerca nella rappresentazione dell'umanità "al limite", scoprendola per la sua componente surreale e positivamente infantile. Credo che nel riprendere una fotocamera in mano, oggi, vorrei sapermi avvicinare al lavoro di Romero e della Arbus. Vorrei sondare le difficoltà, le potenzialità della società contemporanea e perchè no della mia e altre città, leggendola attraverso lo specchio rivelatore delle persone che abitano le sue strade. E' un possibile tema di narrazione urbana, che spero possa trovare spazio nei nuovi laboratori che programmerò a breve con l'Associazione ETRA di Monfalcone. E' un percorso ambizioso che nasconde dentro di sé molte cadute, perchè la città e l'uomo nascondono sempre profondità enormi.

domenica 14 settembre 2014

Hayao Miyazaki, mon dieu!

Tra qualche anno, se avrò la fortuna e avrò la pazienza, la forza e lo stimolo per aggiornare ancora questo spazio virtuale, raccoglierò probabilmente le mie parole sull'ultimo film di Hayao Miyazaki (da ieri nelle sale italiane per pochi giorni) tra le righe di un post forse collocato nella cartella "Piccole scatole emozionali". Maledetto Miyazaki! Si alza il vento, questo il titolo italiano del film, che riprende un verso di Paul Valéry e che anticipa la chiusura della sua lirica Cimitero marino: "Le vent se lève...Il faut tempter de vivre!". Il cimitero marino di Valéry si trova a Sète, nella Linguadoca francese. Ci sono salito, a piedi, sul colle che lo ospita, nel primo pomeriggio d'agosto di alcuni anni fa. Non lontano vi è un piccolo museo con varie opere autografe di Valéry stesso. Una visita fatta in solitudine, che mi emozionò molto. La frase del poeta apre idealmente il film del regista giapponese e lo accompagna per tutto il suo svolgimento, non come citazione, ma come contenuto significante. Miyazaki ha introdotto in questo suo ultimo film (ultimo in senso assoluto) tutto se stesso, facendone un'opera inarrivabile e che lo colloca infine, a diritto, tra i maggiori registi di sempre, come Fellini, come Truffaut, come Altman, e Chaplin e Antonioni. In sala a vedere il film molte nonne che accompagnavano i loro nipoti o famiglie con figli. Bambini ammutoliti, che non hanno compreso fino in fondo il valore del film, assolutamente inadatto a loro non tanto per i temi quanto per la complessità culturale che sa trattenere. Molte nonne provate invece alla fine del film dall'impatto emotivo che questo trasmette. Tra le immagini che scorrono sullo schermo una riflessione magistrale sul senso del progetto, sul ruolo del progettista, sulla dignità umana quale valore (poche volte così pienamente espressa); sulla presa di coscienza del significato della vita, della sua pienezza, comunque sia. Maledetto Miyazaki, con questo suo film calato nella Storia e che parla alla nostra storia privata, quella di ciascuno; un film a cui in futuro non saprò non ripensare; e che mi martellerà positivamente dentro, specialmente quando ne avrò forse maggiormente bisogno di ora.
Infine, ricollegandomi al mio post precedente, mi accorgo ora come sia il film, sia la poesia di Valéry, possano essere letti in chiave di un superamento dell'"osservazione/speculazione" a favore dell'"azione/vita", dando forza immateriale al progetto che mi sta in queste settimane assorbendo.
 
(vi lascio questa foto del regista con l'autografo che mi fece nel 2005, accompagnato da un inchino. Il mio fu allora e oggi più ampio del suo)

sabato 23 agosto 2014

New frontiers

Mi sono svegliato stamani con una domanda in testa. Un'istanza che apparentemente, almeno per me, è difficile portare a soluzione. Nasce nel dubbio, come tutte le cose utili, ed è posta con l'assoluto rispetto che porto alla speculazione in quanto tale, quale direttrice importante per la comprensione delle cose del mondo. 
Cosa di buono si sarebbe potuto produrre nel concreto, se gli sforzi e, perché no, le strategie (comunicative, commerciali, "politiche", ecc.) di tutti i critici con il loro continuo rimestare le cose, di tutti gli artisti, concettuali e non, con il loro eterno giustificare il proprio lavoro agli altri e a se stessi, di tutti i filosofi, con le loro aperture e chiusure, insomma di tutti coloro che vivono grazie al pensiero si fossero concentrati materialmente a favore del migliorare la vita nel mondo? O meglio, come è possibile trasformare l'osservazione (e, peché no, le riflessioni) in azione concreta? Da questa istanza nasce un progetto che intendo condurre nei prossimi mesi assieme agli amici dell'Associazione culturale ETRA di Monfalcone e che ha un nome inevitabile, e forse scontato, OsservAZIONI. Stay connected!

mercoledì 13 agosto 2014

Piccole scatole emozionali n. 16

Mi piacciono quei frigoriferi colorati anni '50 della SMEG, che oggi vengono riproposti al mercato adattati alle moderne esigenze, pur riprendendone l'estetica pressoché fedelmente. Mi piacciono quei vestiti femminili rossi o blu a poins bianchi dalla vita stretta, da accompagnare con un nastro tra i capelli e un qualsiasi occhiale dalle forme affusolate e appuntite agli estremi. Oppure i pantaloni blu a vita alta da accompagnare ad una maglietta a righe alla marinaresca. Guiderei volentieri una di quelle macchine americane dai colori pastello, tipo verde acqua o rosa tenue, una Cadillac Eldorado o una Pontiac. Mi piace ascoltare lo swing e il jive, oltre al rock & roll e al rockabilly, soprattutto perché impongono un ascolto attivo che coinvolge il corpo e che spesso si traduce nel ballo. Mi piace quel decennio che a fatica tentava una apertura ad una spensieratezza ricca di malinconie e tragedie, spesso portate a spalle, ereditate dalle guerre appena trascorse e contenenti già i germi delle malattie che saranno. E la risposta a questa esigenza fu perlopiù effimera, radicata in una cultura estetica che ha posto però le basi per la grandezza del design italiano su scala internazionale e che ha determinato una cultura musicale innovativa che perdura ancora. Ecco perché a Senigallia, da ormai 15 anni, si ritrovano molti appassionati e scatenati fans di quella cultura, per calarsi volontariamente in un oblio momentaneo all'odierno e ritrovare una apparente leggerezza dal quotidiano. L'occasione è il Summer Jamboree e nel viverlo credi per un attimo che possa essere realmente così, ancora una volta, prima dei dubbi che seguirono e prima che una cultura si trasformasse inevitabilmente in mercato, con le conseguenze che viviamo. Smatphone permettendo, ovviamente!
Un pò di foto dalle giornate dell'8 e 9 agosto a Senigallia, al calare della sera.

domenica 3 agosto 2014

Leo Ortolani

Vorrei raccontare di un periodo a cui ripenso con una certa nostalgia, un periodo in cui potevi andare alle fiere del fumetto, stare lì in fila parlando con le persone più svariate, poi chiacchierare con gli autori, farti disegnare qualcosa, ecc. ecc.. Un periodo dove chiunque ti disegnava qualsiasi cosa anche se non acquistavi nulla, o magari se spendevi mille lire per un suo albo e non centinaia di euro per edizioni stra-limitate pur di avere uno scarabocchio indietro a rovinare le stesse. Un periodo dove non avevi bisogno dei bigliettini come alla posta per un autografo e di certo non dovevi stare lì a rispettare orari per ricevere un ticket con cui poi partecipare a umilianti sorteggi (durante i quali capisci spesso benissimo a cosa sia disposto l'animo umano pur di raggiungere un proprio fine, anche se benevolo). Ho avuto l'occasione di conoscere Leo Ortolani nel 1997, ad una fiera a Bologna, prima che iniziasse la pubblicazione della collana Rat-Man Collection per la Marvel Italia. Se ne stava al tempo ancora libero dall'assalto dei fans con le sue produzioni spillate disseminate sul tavolo. Lo ritenevo già allora un ottimo disegnatore e lui di disegni in quell'occasione e in quelle a seguire me ne fece molti. Ci rivedemmo ad una fiera a Padova. Lui mi prendeva in giro chiamandomi in fiera ad alta voce con il nome di Aldo, cosa che rimandava ovviamente al suo personaggio di Venerdì 12 (uno sfigato), che allora usciva su L'isola che non c'è, mi pare. Il fare era quello da nerd a nerd, da geologo ad architetto. Poiché gli incontri non erano ovviamente molti, poiché io risposi per gioco più volte al suo appello al nome di Aldo, come se realmente mi chiamassi così, Ortolani finì per credere che Aldo fosse veramente il mio nome. Io stetti al gioco e ho in cassetto diversi disegni dedicati ad Aldo. Prima di tale discesa agli inferi, Ortolani ebbe il tempo però per un ultimo disegno a mio nome: si disegnò come  un Batman che dice a voce altissima: Ciao Robin!, e io vengo ritratto ovviamente da Robin ed esclamo: Non lo sopporto! Passammo poi (come Leo e Aldo) nel 2001 alcune ore insieme di un pomeriggio domenicale settembrino all'Hotel Quark a Milano (durante la Convention autunnale) a guardarci in TV un Gran Premio di F1, seduti su un gigantesco divano e sparando sciocchezze varie. Mi fece in quell'occasione un disegno di Rat-Man anni '20, poichè avevo con me una penna stilografica (chissà perché?). Poi il successo, che rese impossibile ogni avvicinamento, le code a rischio incidente a Lucca, i bigliettini, i sorteggi, ecc. ecc. Non ci si scambiò più nulla e in fondo va bene così. Si stava meglio quando si stava peggio, ecc. ecc.. Lagnanze varie. Tutto questo resoconto nostalgico per dire che ieri ho letto il n. 103 di Rat-Man Collection. Ortolani disegna in maniera superba, lo fa già da anni ormai. Con uno stile che richiama i maestri americani da lui imitati e certi tratteggi nelle ombreggiature che mi ricordano Giorgio Cavazzano. Ma all'interno delle sue storie comiche, divertenti e divertite, ogni tanto passa fra le righe qualche siparietto che fa capire, in toto, la statura dell'autore completo. Vi racconto uno di questi incisi comici e caustici allo stesso tempo, introdotto nella storia per parti che appare appunto sul n.103. Siamo all'interno di una riflessione sul ruolo dei supereroi (tipica di Ortolani), nella società di Rat-Man ed editoriale contemporaneamente. Ortolani con nostalgia rimpiange le "cose semplici e colorate" di un tempo, la semplicità dei supereroi di un tempo. Ortolani attraverso delle didascalie prosegue il suo pensiero, mentre protagonista nelle vignette è una ragazza. Ortolani la accompagna in una scelta che appare diffficile, scrivendo (vado parafrasando) che mentre una volta c'era il bene e il male, poi con il nuovo millennio le cose si sono fatte più complesse. Oltre al bene e il male, c'è così "il bene fatto male" e "il male fatto per il tuo bene", oppure, per seguire qualcosa di più giovane e trasgressivo, il "me ne frego". Naturalmente queste opzioni sono offerte alla ragazza da una commessa, che all'indecisione della ragazza la invita a fare una prova in un camerino. La ragazza entra, chiude la tenda e gli appare un immigrato africano che le chiede, cestello delle elemosine alla mano, di aiutarlo, perché non lavora, i suoi bambini non hanno da mangiare. La ragazza risponde: "Me ne frego!"; ed esce dal camerino riferendo alla commessa: "E' comodissimo! Mi piace!". La venditrice sottolinea: "Lo sente come si adatta? C'è dentro un 20% di ignoranza che lo elasticizza e rende più naturali le decisioni". La ragazza si convince: "Lo prendo". Ecco, tutto questo in 12 vignette, che sono un inciso alla storia principale. Nemmeno due facciate per spiegare una società intera (la nostra) e come va il mondo (oggi). E poi, se parli con la gente per strada, i più considerano che il fumetto sia cosa per bambini! A chiudere, un saluto a Leo Ortolani, autore e fumettista grandissimo.
(lo struzzo non è un disegno di Ortolani, ma di Chris Ayers)

domenica 27 luglio 2014

Storie di vita: rubrica di lamentela quotidiana

Nel post precedente ho affrontato il mondo della fantasia, calandomi all'interno di mondi virtuali immaginati, che ci auguriamo non possano mai essere, per esorcizzarli un pò e comprendere meglio come sarebbe duro vivere umanamente situazioni come quelle descritte nelle storie proposte (spero si capisca l'ironia). Essendomi messo in pace con la coscienza grazie a quell'excursus distopico sulla realtà, posso ora affrontare a cuore leggero le situazioni più complesse che la vita quotidiana mi propone: leggere, ascoltare, vedere. 1) Leggere. Sono un caso disperato, sempre meno disposto a dedicarmi all'attualità letteraria, che pure mi incuriosisce. Mi dedico a cose stampate molti anni fa, leggo i classici, quasi seguendo quell'invito di Italo Calvino del 1981, quando tra le pagine de L'Espresso, scriveva quel suo contributo Italiani, vi esorto ai classici. Come Calvino tento di escludere "il brusio alla finestra, accettando il discorso dei classici che scorre chiaro". Diceva Calvino: "D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura". Devono ben saperlo, in questi mesi di frenetica ricerca di una propria identità editoriale, le disperate case editrici italiane specializzate in arte sequenziale (fumetto). Meglio rileggere, quindi, meglio ristampare. E' certo questo il pensiero che muove il fare etico di questi nostri bravi editori italiani. Altri reinterpretano la cosa come "meglio importare" che stare lì a favorire nuove scritture e ricerche da parte di giovani o meno giovani autori nostrani. Si parla tanto della crisi del calcio, della crisi del calcio giovanile. E la crisi del fumetto giovanile dove la mettiamo? Se basta che salti fuori un Zerocalcare o un Roberto Recchioni per portarli in trono tra mille vestali adoranti! Ma è il soldo più che l'audacia a muovere il mondo, anche e specie quello editoriale. D'altronde non saranno pur lì ad investire, rischiando del loro, per accontentare uno scemo, come sono io? Ebbene, io li capisco. Sinceramente. Ma perlomeno non approvo il senso di vuoto che circonda questo fare, che rischia di azzerare una passione, quella verso il fumetto che mi sento ancora di avere, anche se più sottile, come un battito che giornalmente sfoca. Leggo i classici, rileggo i classici. La grande ondata del fumetto franco-belga, finalmente ovunque, nei cartonati dai costi impegnativi e nei giornaletti da edicola (dove, con la vista che cala con gli anni, tendi a perdere quella che ancora ti rimane). Storie sognate per decenni e che infine arrivano in Italia come una marea, proprio ora che il soldo scarseggia per tutti e ci si trova a dover selezionare. Io ho selezionato i volumoni de L'integrale di Spirou e Fantasio, di André Franquin (RW Edizioni/Nona Arte), che mi porto anche a dormire come una coperta calda, perchè sono il meglio del meglio del meglio. La Disney è andata in Panini, con le sue logiche di copertura a tappeto del mercato editoriale, e che, in un momento ancora incerto sul da farsi, sta portando realtà storiche come Topolino a degli scartamenti impercettibili, trasformandole ogni giorno sempre più a propria immagine e somiglianza, nei temi, negli indirizzi delle storie e di logica editoriale. E alla Disney sono contenti, forse si convincono di essere contenti. Così rileggo, L'opera omnia di Romano Scarpa, in edicola in allegato al Corriere della sera/La Gazzetta dello Sport, che in ben 48 volumi contiene tutta la cultura Disney che è stata (Barks, Gottfredson, Martina, ecc. ecc.) e quella che poi sarà (Cavazzano, i nuovi Disney, Casty). Si spera di avere librerie sufficienti a contenere questa nostalgica ondata di piena. L'edicola è sempre più luogo di acquisto. La nuova edizione di Ken Parker della Mondadori consente, nelle sue molte sfacettature, riletture ampie e articolate di un periodo storico variegato e mediato dalla provenienza politico-culturale dei suoi autori (dal '68 al '77, sino alla crisi di valori degli anni '80, ecc.). Storie bellissime, alternate a storie a volte retoriche (o perlomeno tali nella lettura dell'oggi) e quindi per questo non tutte adeguate ad essere inserite nei classici. Ma in alcuni casi il formato proposto dalla nuova edizione permette di riscoprire un tratto importante e innovativo (di Milazzo soprattutto) o genialmente tradizionale (Trevisan, Cianti, Marraffa) e di comprendere come Giancarlo Berardi scrivesse la sua epopea pensando proprio a Milazzo, a quel suo segno che, forse unico, sapeva tradurre realmente una volontà d'arte precisa. Quelle storie, di impianto bonelliano, rilette oggi, fanno comunque, anche nella loro in alcuni caso debolezza, tabula rasa della produzione attuale della casa milanese. E' classico ciò che persiste come rumore di fondo, scriveva Calvino; quanto dell'odierno consente questa permanenza? Leggo anche cose nuove, che dalla cultura franco belga arrivano in Italia per opera di Bao Publishing, i Peeters, Blain, Vives; ma la casa editrice milanese eccede in un fiume di pubblicazioni che, nel voler determinare e dominare il mercato, sorprendono infine per l'eccessiva  emotività critica che le sostengono. E poi ci sono alcuni rivoli minori che del classico potrebbero avere il sapore e che andranno approfonditi nella rilettura di domani: la scrittura di Matt Kindt (MIND MGMT e vari) e le invenzioni di Fraction e Aja per Occhio di falco della Panini Comics. Rileggo, rileggo, per saturazione, per necessità, per nostalgia, anche. 2) Ascoltare. Potrei rifare discorsi analoghi, trasposti nell'universo dell'audio. Il così detto Indie Rock o Indie Pop, che ormai accomuna tre quarti di ciò che esce di meticcio o pasticciato (più per messa in opera del già sentito, che per ricerca vera del nuovo), ha rotto abbastanza le scatole. Riascolto. Neil Young (Weld), i Crosby, Stills, Nash & Young (è uscito un Live del 1974 in disco triplo che mette i brividi), Led Zeppelin (i dischi di sempre), CCCP (Ortodossia). Ogni tanto mi apro ai nuovi ascolti, spesso là dove in fondo rileggo tra le righe il già sentito che mi piace: Trixie Withley (Fourth Color), Glass Animals (Zaba), Sharon Van Etten (Are We There). Respiri ampi e suoni minimali o complessi dell'oggi a fare il paio con l'energia viscerale del passato. 3) Vedere. Continuo a guardare fuori, a volte riesco miracolosamente anche a vedere; però lo sguardo passa perlopiù veloce, perchè capire, troppo spesso, "nuoce gravemente alla salute".

domenica 20 luglio 2014

Storie a fumetti

I "miei venticinque lettori" commentano a volte queste pagine chiedendomi di parlare ancora di fumetto e lamentandosi perché trascuro tale tema, relegandolo negli abissi di qualche post passato. E io, che non posso astrarmi dal ringraziarli, mi trovo quasi per caso a poterli accontentare. Volevo così parlarvi di tre storie a fumetti (graphic novel?) che in questi giorni mi stanno appassionando. Il periodo vacanziero ne aiuta la lettura. La prima storia a fumetti si intitola "Quanti ancora ne dovranno morire?", sceneggiato dal Consiglio dei ministri dell'Unione Europea e dalla Commissione UE e disegnato dai Ministeri agli Affari Esteri dei vari stati membri della UE stessa. Un fumetto autoprodotto, dalla trama avvincente. In breve. Ventotto paesi che costituiscono un Parlamento europeo se ne fregano per anni che vi sia coerenza tra le reciproche politiche estere e, in assenza di una figura forte a livello europeo, quale un Alto rappresentante per gli affari esteri, capace, indipendentemente dal suo nome, a fronte anche del proprio ruolo di vicepresidente della Commissione UE, di individuare atti significativi e promuovere leggi adeguate in materia, tenendo così a bada l'ingerenza dei singoli paesi in politica estera, preferiscono rimandare la nomina di quello a dopo le vacanze d'agosto (e la consegna dei ruoli a novembre), facendo gli struzzi dinanzi a centinaia di morti espressi dalle crisi internazionali mondiali. Parallelamente un uomo qualsiasi compra al mattino di ogni giorno qualunque il suo giornale o sintonizza la sua televisione sul telegiornale nazionale, e dinanzi all'uccisone di venti o trenta o cento palestinesi, di alcuni israeliani, di alcuni ucraini filonazionalisti, di qualche ucraino filorusso, di molti iracheni, di quasi trecento viaggiatori internazionali sulle rotte aeree europee, di manciate di africani annegati o stremate sulle coste italiane, spagnole o cipriote, si chiede il proprio ruolo nel contesto mondiale, si versa il caffè, gira la pagina o cambia il canale. Il finale del fumetto è aperto. Un secondo fumetto si intitola: "Anni di parole inutili". Ai testi l'intera classe giornalistica e politica nazionale e alle illustrazioni la curiosa morbosità del 95% di un popolo. Casa editrice: tutte, partecipanti con un raggruppamento temporaneo di impresa. Parla di un politico italiano, nonchè ex imprenditore di fama internazionale, che a fronte di accuse proseguite per mesi e un coinvolgimento dell'opinione pubblica intera su delle vicende marginali, rispetto le reali problematiche economiche e di politica estera di un paese, si trova infine assolto in appello di giudizio. E il Paese, invece che approfittare finalmente di questo, per dimenticarsi di uno sfiancamento giornalistico infinito attorno ad  una vicenda che comunque sia potrà avere una sua conclusione giudiziaria, ma che non sposterà di nulla il parere comune sull'operato morale e se vogliamo etico del politico stesso, affronta culturalmente il suo domani, iterando la propria curiosità di comprendere ancora qualcosa di una vicenda che persone intelligenti e interessate al futuro di una nazione vorrebbero sapere sepolta nel più breve tempo possibile nelle maggiori profondità della terra, riprendendosi così una dignità condivisa a livello internazionale (scusate, la frase è impegnativa nella lettura, al pari della vicenda). Storia interessante, sviluppi mediocri, conclusione insignificante. Il terzo fumetto che sto leggendo (a fatica) e che non ho ancora finito, essendo lunghissimo, scritto male e disegnato peggio, si intitola "Senza fine?". E' la vicenda di un operaio del settore metalmeccanico italiano, di un commerciante della piccola distribuzione, di un imprenditore del settore edilizio e di un libero professionista, che per caso si incontrano in un bar alle dieci del mattino e reciprocamente si chiedono come mai non siano al lavoro. La risposta passa da bocca in bocca nelle parole dei quattro protagonisti, che nel narrare storie personali, evidenziano una problematica comune: la totale assenza di una programmazione economica seria, che porta ogni specifico attore a guardarsi prima indietro con nostalgia per una povertà o un benessere che comunque offriva condizioni possibili o speranze palusibili, e poi a guardare avanti con un punto interrogativo e una frase comune, che termina con queste parole "...pezze al culo!". In questo momento sto ancora leggendo, però le pagine per arrivare alla fine non sono ancora molte. Spero che questa recensione abbia soddisfatto sia i miei due follower, che i casuali passanti. Grazie.

domenica 13 luglio 2014

Le mie scarpe

La mia curiosità verso le situazioni più disparate e verso le persone mi porta ad affrontare le esperienze più varie. Alcuni potrebbero pensare a questo comportamento come un malcelato presenzialismo, ma sinceramente il desiderio del mettersi in mostra è molto lontano da me, come processo mentale e indole, anche se non vi nascondo come tale atteggiamento non mi crei nessun problema mentale o timore. E' dunque più un desiderio di conoscere le cose per poterne parlare con consapevolezza, diciamo con 'soggettiva' consapevolezza. Non avevo mai partecipato, risultando completamente estraneo a quel mondo, ad una manifestazione che invece ha sempre prodotto in me grande interesse e simpatia. Si tratta di "Its. International Talent Support", giunto alla sua 13° edizione. Si svolge annualmente a Trieste e rappresenta un'occasione di visibilità per giovani creativi, designer, fashionist, messi in evidenza, tramite una selezione internazionale, alle maggiori case di moda, ai brand e simili. Dare sfogo ai "sogni lucidi" di ciascuno è il senso del contest che Barbara Franchin, direttore di ITS, propone ai giovani e a chi poi sulla moda e sul fashion sviluppa uno dei mercati più attivi e floridi dell'economia italiana e internazionale. Comprendere il senso di quel sogno mi ha stimolato, soprattutto per affrontare meglio le difficoltà spesso prodotte dal risveglio: la vita reale, l'odierno. La serata finale di ITS è qualcosa di assolutamente glamour, e soprattutto esclusivo, devi far parte della cerchia della cerchia della cerchia per accedervi, o lavorare a contatto con qualcuno che in quel mondo già lavora (gli sponsor, i partner, gli organizzatori). Devi essere l'ospite desiderato e invitato. Ho per questo accettato di rispondere alla chiamata del concorso organizzato da ITS e da il quotidiano il Piccolo, dal titolo "Qual'è il tuo sogno lucido?". Dieci biglietti per la sfilata messi in palio ai primi dieci classificati. Valevano le fotografie, i video, le parole, i disegni per descrivere uno stato di sogno cosciente, durante il quale si è in grado di poterlo indirizzare, mettendo alla prova le proprie aspettative. Io ho spedito questo, cioè una foto, che ho intitolato "Un gesto quotidiano".
Insomma, ho vinto, e così la serata del 09 luglio all'Hotel Savoia di Trieste sono stato reclutato per il ritiro del biglietto-premio, con tanto di foto del gruppo vincitore, poi apparsa sul quotidiano triestino (questa qui sotto), quindi la sera del 12 luglio, alla ex Pescheria, oggi Salone degli Incanti, ho potuto partecipare da spettatore ospite alla sfilata.
Sulla sera del 09 luglio va detta una cosa. Mi ha colpito come nella foto sembriamo tutti degli amici in vacanza. In realtà nessuno conosceva l'altro e la cosa più incredibile è che a nessuno interessava minimamente di chi fosse e cosa avesse proposto per l'occasione l'altro. Tantomeno interessava a chi ha distribuito i biglietti alimentare alcuna comunicazione reciproca. Questa cosa, che è propria di molte situazioni similari, mi ha sempre atterrito. La presa di coscienza che a nessuno importi veramente nulla della cosa in sè, ma che tutto risulti finalizzato alla comunicazione a terzi, a destinatari altri che stanno in luoghi virtuali esterni a noi. Le relazioni umane non ne traggono beneficio. Alcuni giorni dopo ecco la sfilata. Come per tutti gli eventi con delle limitazioni all'accesso c'è sempre un punto di vista 'da fuori' e un punto di vista 'da dentro'. Mentre aspetto di entrare valuto il primo. Risulta palpabile il desiderio di poter entrare da parte di chi non sarà della partita. Ma qualcuno di questi ha provato a fare il concorso? La speranza senza azione è sterile. Molte ragazzine sono lì nella speranza di avvicinare Mika (il cantante; ecco qui una sua foto scattata all'interno); molte resteranno deluse, qualcuna no.
Il valore del bigliettino verde che tengo in mano, con la scritta "Lucid Dream Ticket", assume con il passare dei minuti valori emozionali e di status sociale pazzeschi (i biglietti hanno colorazioni diverse per permettere di assistere alla sfilata da zone diverse delle gradinate; il verde è quello per gli ospiti esterni, l'elite dei nessuno nell'ambiente, quelli come me, con solo una quarantina di posti riservati a disposizione; va detto però che erano posti ottimi e si vedeva il tutto magnificamente). Superata la barriera tra il 'dentro' e il 'fuori' ti aspetta il 'paradiso'. La mostra degli oggetti progettati dai giovani designer (gioielli e artwork in genere), l'ambiente stilosissimo, la gente che ti circonda vestita con tutte le attenzioni del caso (la scarpa, il calzino, il bermuda, il tacco, il cappello, il rimmel diventano armi atomiche per una guerra di corpi sfiorati e sguardi). Anche all'interno vi sono separazioni ulteriori, un privè dove lo status si marca ancora, decretato dal prosecco servito agli ospiti illustri. Mika è assediato. Una fan non più giovane piange chiedendogli l'autografo. Poi ci si siede, la musica è ossessiva e piacevole. Poi le luci si spengono, partono video, partono parole scandite, iniziano le sfilate. I modelli camminano veloci.



Poi le premiazioni presentate dall'attrice Anita Kravos e i giovani creativi premiati. Si parla solo l'inglese. Quindi gli applausi finali. Poi tutti (gli altri) a sorseggiare vodka, mentre molti avvicinano i premiati per uno scambio, una foto (lo smartphone e la socialità online si esprime a livelli  mai visti). Esco e piove. Mi bagno, senza ombrello, passeggiando lungo le Rive solitarie e vuote di una Trieste come sempre bellissima. Una splendida serata. Veramente. Un'organizzazione perfetta, impeccabile, di grande spessore internazionale, senza nessuna sbavatura, come non ne ho viste quasi mai in Regione. Un clima allo stesso tempo affettato e affettuoso, distaccato e conviviale. Nessuno dice, "Ciao, come va"?, ma solo "Sei splendido? Anzi lo sei sempre?" Sei stato magnifico!", "Ti adoro!". Un galateo continuo della parola. Sono perplesso, ma sono stato benissimo. Risalendo in auto, mi bagno le scarpe in una pozzanghera. Le riconosco quelle scarpe, sono le stesse di sempre, sono le mie.

domenica 15 giugno 2014

Forse

Si fa sempre più fatica a capire il motivo recondito che ci porta a riversare i nostri pensieri tra queste pagine virtuali. Potremmo sintetizzare con voglia di comunicare; tradurre un proprio sentire individuale all'interno di un luogo comune: la rete. Ma anche questa speranza in fondo risulta frustrata dalla parcellizzazione del mare che ci ospita. Certo vi sono "isole" più dense, dove molti scelgono di soggiornare anche a lungo, trovando indirettamente nella luce riflessa di qualcuno quel senso di comunità che potrebbe essere anche scoperto altrove, nel mondo reale ad esempio. Vi sono però anche altrettante isole reali, proprie del mondo reale cioè, dove molti rincorrono la stessa luce altrui, confidando che la vicinanza permetta ad una parte dello scintillio di rimanere impigliato alle proprie vesti. Purtroppo sono sempre meno le stelle che brillano di luce propria. Il talento non ha un percorso osmotico, ma impone fatiche che più o meno involontariamente scansiamo. La fatica non piace, perché tautologicamente affatica, appunto. Si diceva, quindi, di questo grande universo di individualità (i siti, i blog, le pagine social, ecc.) dove ciascuno, come passerotti appena nati attendiamo che ci venga recato il verme in becco (il "mi piace", la "visita"). Perlopiù si muore di fame, perché come dicevo alcune isole sono più dense, e qualcuno, oltre al talento del dire, possiede o sviluppa il genio. A quei pochi geni, devoti regaliamo i nostri pensieri, le nostre passioni; e nel farlo dimentichiamo di crescere, scordiamo che sappiamo anche imparare, che siamo meno deboli di quanto crediamo. Questa situazione potrebbe descrivere molti frequentatori della galassia denominata "rete", che non si chiama così in quanto correla, ma perché invischia e trattiene. Altro caso è poi quello opposto, ovvero la situazione di coloro che, senza autocritica, generano cloni. Se da un lato la "rete" limita, dall'altro spazientisce. I pesci una volta presi si agitano inconsapevoli della fine certa. L'agitazione è spesso entusiasmo, ovvero inconsapevole bramosia d'imitazione. Chi imita rischia di cadere nella duplicazione, non tanto del risultato, che in fondo non sarebbe un male (la copia non è uno scarto, ma uno strumento di crescita), ma della confezione. Per tale entusiasmo si desiderano vite altrui, si duplicano le situazioni e gli strumenti. Chi ama leggere, pubblica. Chi ama disegnare, pubblica. Chi ama navigare, apre nuovi porti a beneficio della rete. Ma questo fare è acritico, privo di consapevolezza critica. La crescita esponenziale delle "scatole" porta con sé l'impotenza di coloro che hanno le qualità per osservare e scegliere. Troppo materiale in gioco impone un lancio di moneta e, se sarà testa o sarà croce, sapremo casualmente l'involontario percorso culturale che ci verrà consigliato. Infine, un universo a disposizione impone a qualcuno di cercare l'attenzione attraverso scelte monomaniacali. Le scelte si concentrano sulla punta delle dita, anche laddove la luna è bene in evidenza, e in un eccesso di zelo, scambiato per talento, si impoveriscono nell'incapacità di darsi e di risultare socialmente utili.
E' un mondo strano questo che ci viene offerto, non buono, subdolo, che antepone tra i propri desideri quello dell'azzeramento delle coscienze, mentre al contempo propone una presa di coscienza. Allorché viene depotenziata la comprensione del vero e del falso, e il lascito sono le migliaia di miliardi di parole scelte di volta in volta sulla scorta dell'attitudine o della sintonia con l'interlocutore, il rischio di controllo cresce. La rete, dicevo, trattiene, e immobilizza.
Dedico questi pensieri alla memoria di Jacques Derrida, ad un decennio dalla sua scomparsa, e ringrazio Pier Aldo Rovatti per averlo ricordato sulle pagine del quotidiano il Piccolo di sabato 14 giugno. In particolare per aver ricordato la convinzione di Derrida "che non c'è filosofia senza amicizia e che l'amicizia è sempre una pratica di denudamento delle pretese di verità. Perché cadano le maschere degli altri occorre riuscire a fare a meno della propria". La filosofia quindi come "momento di disarmo assoluto" e la buona pratica per la lettura del mondo nell'uso della parola "forse". Un insegnamento complesso, non tanto per la complessità del pensiero, ma per la difficoltà dell'animo umano nell'accettare la condizione del dubbio. 

sabato 31 maggio 2014

...per averlo avuto e conservato nella memoria così a lungo...

Frequento spesso i tavoli di qualche mercatino dell'usato, specialmente quelli che espongono cassette di libri e dischi a pochissimo prezzo. Non molti giorni fa, proprio da uno dei contenitori di volumi acquistabili ad un euro, ho sfilato un piccolo libretto, che avevo già avuto modo di leggere, in realtà, ormai molti anni indietro. Il libro era, ed è, Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice. Uno sguardo al colophon mi ha permesso però di scorgere che si trattava della prima edizione economica Einaudi del 1983. Ancora più interessante come il frontespizio interno riportasse il nome, abbastanza illegibile, della prima lettrice del volume e l'anno dell'acquisto, il 1983 appunto, oltre che una dedica del 1995 fatta dall'autore alla allora proprietaria. La dedica recita: "Con gratitudine, per averlo avuto e conservato nella memoria così a lungo". Dopo quasi ulteriori vent'anni, oggi, sono così io a conservare questo volume, sperando che una parte della gratitudine di Del Giudice mi venga in fondo trasferita. Non nascondo che la cosa mi abbia fatto riflettere parecchio, ancora una volta sul significato del possesso e sul ruolo degli oggetti, delle "cose" in genere. Piccola divagazione. Il testo di Del Giudice, opera prima all'epoca della sua uscita, è una riflessione sul rapporto letteratura, scrittura e vita. Un giovane protagonista (e un giovane Del Giudice, in questo fantastico saggio-romanzo), svolge una ricerca testimoniale su di una figura ormai scomparsa da più di quindici anni. La figura, mai citata, ma evidente dalle sue frequentazioni, è quella di Bobi Bazlen, "scrittore senza scritti", che non volle mai tradurre, a parte poche cose peraltro incomplete, la propria profonda ed esigente cultura letteraria nella pagina stampata. Personaggio storico sfuggevole, dedito a non lasciare tracce concrete di se stesso, alla rinuncia della scrittura, invece che alla scrittura stessa. Del Giudice ne parla attraverso i ricordi di personaggi storici quasi mai svelati (anche se non è difficile riconosce Anita Pittoni, Giorgio Voghera, Franca Malabotta e altri), anch'essi impossibilitati ad offrire testimonianze certe senza incrementare il dubbio. L'"inchiesta" sull'uomo Bazlen si svolge tra Trieste e Londra e lascia spazio alla consapevolezza dell'importanza delle scrittura  come strumento per estendere delle "relazioni di vita", più che per rappresentare dei contenuti e delle forme. Al di là di ciò, mi ha sorpreso, nel riprendere la mia copia del libro, come avessi sottolineato in matita, al tempo della prima lettura (alla fine degli anni Novanta), due frasi: "Bisogna tenere i libri distinti dai dolori."; "Ho pensato a come quel capitano (il capitano di lungo corso di Bazlen, probabilmente!) faceva ordine nella sua cabina, buttando fuori gli oggetti. Ho pensato: 'Non è facile con gli oggetti, la loro presenza è indelebile. Però è facile disfarsene, sono terribili e indifesi'." Ancora gli oggetti. Era strana questa coincidenza. Ma lo sarebbe diventata ulteriormente allorché tra le pagine del volume comprato al mercatino, scopro un ritaglio di giornale, ormai ingiallito, tagliato e piegato per poter sparire nella sagoma del libro. L'articolo ricorda uno speciale televisivo della rubrica "Tuttilibri", in onda sulla "RETE 1", dal titolo "Bobi Bazlen", con interventi di Stelio Mattioni, Luciano Foà, Giorgio Zampa, Italo Calvino, Lucia Drudi Demby, Elena Croce, Natalia Ginzburg, Massimo Cacciari, Roberto Calasso, molti dei quali correlabili alla casa editrice Adelphi, essendo Bazlen cofondatore della stessa. Vorrei far notare il carnet degli invitati alla discussione, che aiuta a riflettere su alcune distanze culturali tra il fare televisione ieri e oggi, ma preferisco lasciare perdere. Interessante è invece sottolineare come nell'articolo venisse riportato un aneddoto su Bazlen raccontato da Natalia Ginzburg: "(Bazlen) la criticò, passeggiando a Roma sul Lungotevere, per l'impermeabile vecchiotto che indossava, invitandola a disfarsene. 'Guarda come faccio io' - disse Bazlen. E gettò la propria giacca nel Tevere. 'Io l'ho vista galleggiare via quella giacca - dice la Ginzburg - lui era là... in maniche di camicia'." Ancora un'occasione di riflessione sul possesso, sugli oggetti. Che sintesi trarre da tutto ciò. Forse nessuna. Oppure lasciare spazio ad una presa di consapevolezza più matura del ruolo delle cose nella nostra vita, presenze "indelebili", indipendentemente dal loro possesso, "terribili e indifese". Basta un gesto per privarsene, come può essere mettere dei libri, affettivamente cari, in uno scatolone e gettarli nella spazzatura, come una giacca nel Tevere, oppure portarli da un mercante dell'usato e perdere quindi il controllo sul loro percorso futuro. Ma la certezza è di come la nostra volontà, più o meno propensa al feticismo o al collezionismo, non potrà mai controllare l'intero ciclo di vita di quegli oggetti (dei nostri oggetti). Ad un certo punto le "cose" si staccano da noi, e non è un distacco sempre gradito, sottendendo con questo che la loro vita risulta molto spesso più lunga della nostra, e che tutto quello che per noi ha importanza per i più non conta nulla, trovando così spazio nei contenitori delle vendite ad un euro degli "antiquari" delle nostre città. La domanda finale che pongo è quindi questa: Che società è quella che ha deciso consciamente di dedicarsi alle "cose"? Che dimensione storica potrà mai avere? La risposta trova in parte luogo nei difficili anni che stiamo vivendo, per il resto potrà esprimersi soltanto attraverso le nostre intelligenze.