venerdì 30 dicembre 2016

Piccole scatole emozionali n.21

Dei diversi incontri capitatimi da allora, questo resta forse il più intenso. A Cesena. Il pubblico seduto non si trattiene e salta in piedi. Alcuni delle seconde file si lamentano ad alta voce. Lei finisce la canzone e, rivolta a chi grida alle prime file di sedersi, chiede: "Non capisco, qual'è il problema? Che loro si sono alzati e voi non riuscite a vedere? E' un finto problema! Alzatevi anche voi". E comincia Pissing in a River. Dopo alcuni secondi le seconde file sono travolte da qualche centinaio di persone, danzanti. A fine concerto Lenny Kaye firma alcuni LP a dei fans, ma lei non c'è. Delle ragazze urlano in coro: "Patti...Patti...". Lei, severa, esce da dietro una tenda, si avvicina al gruppetto e le ammutolisce: "Smettetela, non sono i Beatles. Amate voi stesse e non l'idea di chi non conoscete!". Oggi, 30 dicembre 2016, Patricia Lee Smith copie 70 anni. Ne aveva 54 quando dedicò questo flyer. Mi ricordo che lei scriveva e io la guardavo da vicino e scorgevo, oltre ad una strana impalpabile paura nel suo sguardo, anche la stessa sorprendente bellezza che ora riconosco in questa foto di Robert Mapplethorpe.

domenica 18 dicembre 2016

Ecco il percorso!

Sono due mesi che non scrivo su queste pagine. A fronte dei cambiamenti sociali, politici, culturali, che ho potuto personalmente riscontrare durante i percorsi collettivi e individuali intrapresi, posso dire di riuscire ad esprimere ora soltanto una certa perplessità. Arrivo alla fine di una altro traguardo annuale con la abituale volontà di fare un resoconto del vissuto e non riesco a liberare la mente dalle mille imposizioni che il "continuare a guardare fuori" mi ha proposto e mi propone. Mi chiedo: ma in che casino ci stiamo mettendo tutti quanti? E' una domanda che affronta con consapevolezza vari campi di analisi. Intanto mi sconvolge che a fronte di una mole comunicativa pressoché tendente all'infinito ora non riesca a mettere a fuoco scientemente nulla. Il "fuori" travolge e non svolge. Si pone il dubbio se queste pagine abbiano ancora un senso rispetto il titolo che si sono poste, specialmente rispetto l'utilità del "continuare", e che il fine del "guardare" debba restare il "fuori". Ma uno non sceglie veramente fino in fondo il proprio percorso e la direzione posta inizialmente oggi forse si "impone" più che "proporsi". Accetto quindi di trovare durante la scalata (vera) intrapresa negli ultimi mesi alcuni "appigli" solidi e usare questi per assicurare la mia "fune vita". Capirete che è anche un bisogno sostanziale e non più solo una scelta.
Prima di enumerare queste tappe salvifiche vorrei però fare alcune riflessioni interrogative, che meritano, ma non avranno (va da sé) certa risposta. Ci stanno rimbecillendo con tutti gli strumenti che hanno a disposizione, o meglio trovano continui strumenti per determinare la cosa? Ci costringono a seguire scambi sociali virtuali senza alcun obiettivo ultimo (tantomeno di crescita critica) per affossarci fisicamente e intellettivamente e stemperare nell'onda narcisista ogni velleità reattiva? Ad esempio ci impongono percorsi elettorali infiniti per evitare di dar tempo a chiunque di fermarsi poi a verificare se agli obiettivi posti seguano non solo soluzioni alternative, bensì efficaci? L'efficacia non fa rima con efficienza, almeno mi pare. Il fare e disfare è alla base del fare bene? Oppure intercetta soltanto consensi diversificati, nell'alternanza ormai tutta psicologica di sentirsi rappresentati più da vicino rispetto interessi di certo personali e non collettivi? E' democratica la parola a tutti, o è parte essa stessa della limitazione alla rappresentatività vera? Ma la parola è veramente più importante della riflessione? Ma la riflessione è utile senza il riscontro operativo? E poi, il riscontro operativo finale è utile senza una riflessione non ideologica, o meglio senza una riflessione operata nel dubbio? Infine, la riflessione serve a smobilitare le certezze o la produciamo come ormai si produce un qualsiasi inutile adempimento burocratico? Giorni fa un collega mi ha posto dinanzi ad una riflessione su cosa fosse anni fa l'essere architetto e cosa lo sia diventato oggi, e lo ha fatto partendo dal solo dato normativo, ovvero da come ci vede da fuori chi indirizza costitutivamente il nostro lavoro. Un tempo (mi ha sottoposto il collega) un architetto (in quanto libero professionista) era qualificato attraverso l'art. 33 della Costituzione, attraverso i contenuti del Regio Decreto del 1925 e quindi dell'art. 2229 del Codice Civile, che determinano l'ambito entro cui agire e le competenze di riferimento: a questo poi andava consolidandosi il sapere culturale, umanistico e tecnico (esperenziale e intellettuale). Oggi dopo anni di normativa italiana e europea lo stesso architetto si qualifica attraverso: un'identità digitale (la PEC, la Firma digitale e puttanate così), dei requisiti economici di dotazione (quanto guadagno, quanti pc possiedo, quanti palazzi ho progettato...), una polizza assicurativa, un disciplinare che mi rapporta con il committente, e naturalmente una formazione obbligatoria (che se non fosse obbligatoria col cavolo che poi a qualcuno interesserebbe da una parte fartela e dall'altra parte riceverla). Ecco cosa siamo oggi, noi architetti (nostro malgrado)! Ma gli altri, ciascuno nel proprio campo di attività, se lo sono mai chiesto? E a caduta, cosa sia un cittadino, cosa sia un elettore, cosa sia uno studente, cosa sia un immigrato, cosa sia un individuo! La globalizzazione (omologazione di pensiero, indifferenza...chiamatela come vi pare, quella roba lì!) non ha vinto in quanto è venuta imponendosi come necessaria, ma perché ciascuno di noi ha rinunciato a guardarsi da fuori e cercare di capire quanto permane realmente della propria ragione di essere e quindi della propria individualità di pensiero. Le vicende mediatiche che ci stanno ottembrando la mente (tramite l'assuefazione al giudizio, il pregiudizio e la limitazione al giudizio) infine hanno portato ad una totale dequalificazione della propensione etica di ciascuno, nel favorire percorsi normativi dettati da fuori (dall'alto, ma anche dal basso), dove alla base di tutto vi è comunque la mancanza di un'idea di res publica, di cosa comune: la cosa è di qualcuno che sta lassù, che mi limita (il principe, il ricco, il politico) e che io, che invece sto quaggiù, povero me, mi sento in diritto (anzi in dovere) di fregare. Ma in questo viatico inutile alla fine la mimesi non è altro da me, e così mi trovo incline a percorsi masochistici, che possono forse spiegare, nella frustrazione generale, il perché si compiano certe scelte culturali. Ok, basta, ecco il meglio del mio anno e in genere dell'anno in corso di chiusura, ovviamente per me (che più soggettivo di così si muore)!
Ero a Bologna, a fine novembre (giusto per partire dalla fine) al BilBOlbul, il festival internazionale del fumetto per incontrare Chris Ware. Ascoltare il suo pensiero e poi scambiare alcune battute con lui è stato interessante e anche opportuno (sono qui sotto con Ware, ringrazio Andrea Brusoni del Centro Fumetto Andrea Pazienza per lo scatto). Le tavole alla sua mostra erano fantastiche: per la ricerca compositiva principalmente; la stampa amplifica la cosa su altre direzioni, grazie al colore, ma le tavole "nude" sono realmente molto interessanti da studiare.
A Bologna ho acquistato il volume sui fumetti più utile dell'anno. E' il nuovo numero del semestrale Hamelin (n.42), che mi ha attratto grazie ad una frase ripresa da un'intervista a Ware, presente nel testo ("Ogni casa o edificio in cui scegliamo di vivere riflette o contraddice la nostra infanzia e ciò che vogliamo divenire"). Il volumetto intitolato Che cosa sono le nuvole? Sguardi sul fumetto contemporaneo, raccoglie vari saggi e interviste sui temi caldi del fumetto, e quindi fa il punto sui dieci anni del festival bolognese. Nel leggerlo mi sono reso conto di come proprio all'interno di quel festival abbia avuto occasione di partecipare ad alcuni incontri con gli autori invitati che hanno non poco determinato alcune mie opinioni sul medium a me caro, uno su tutti quello del marzo 2008 con Paul Hornschemeier, Kevin Huizenga e Anders Nilsen (ma ricordo anche le inaugurazioni delle mostre di Charles Burns e di Thomas Ott nel 2009 e quindi quella delle mostre di Emmanuel Guibert e Didier Lefèure nel 2010 e di Brecht Evens nel 2011). Quelle e moltre altre occasioni bolognesi hanno di certo condizionato quest'anno le scelte dei migliori fumetti del 2016. Il miglior fumetto dell'anno è (per me, ovvio, ma con una distanza abissale su qualsiasi altra cosa apparsa sul mercato italiano) Patience di Daniel Clowes e non è un caso che i curatori di Hamelin discutano all'interno del volumetto se e come continuare il festival, sulla necessità di cambiare, ma anche dell'opportunità di una mostra italiana su Clowes. Dall'uscita di Ghost World in Italia l'autore americano è un faro acceso tra le mie letture e quest'anno ha spaccato tutto. Al secondo posto di certo Morire in piedi di Adrian Tomine, minimalismo a fumetti di carveriana memoria. E per finire, e qui il cerchio si chiude rispetto quanto detto all'inizio, La vita con Mr. Dangerous di Paul Hornschemeier. Una menzione ad Editoriale Aurea per aver finalmente pubblicato dignitosamente (in due volumi) La porta per il cielo di Maiko e Sicomoro. Questo il meglio. Per il resto, tanta fuffa ristampata e coverizzata, trita e ritrita, da ricordare forse per passare il proprio tempo, compiacendosi nell'estetica di qualcosa, a volte del contenuto, a volte della confezione.
David Bowie muore ai primi di gennaio e l'anno è una continua rincorsa del suo lavoro, che culmina per me a fine ottobre quando posso finalmente visitare la mostra bolognese David Bowie Is, al MAMbo. Una mostra capolavoro, totalizzante, che fa emergere netta la grandezza dell'autore (non serve che lo dica, ma quando vedi certe cose esposte e soprattutto certi percorsi espositivi che ti permettono di riflettere su qualcosa, il senso delle parole cambia). 
Bowie prima di morire fa uscire Blackstar e di certo molti avranno scelto questo come disco dell'anno (il disco lo merita, anche se la mostra ci dice chiaramente quali siano i momenti di grandezza nel percorso dell'autore), ma per me il vero momento catartico è stata l'uscita di The Hope Six Demolition Project di Pj Harvey. L'averla incontrata a Milano, ad aprile, durante il suo readeng poetico di anticipazione del disco, ha di certo determinato uno dei momenti solenni dell'anno, a tale punto che ho rinunciato ad andare ai suoi concerti italiani di ottobre per non rovinarmi il ricordo della cosa (qui sotto la Harvey abbandona il palco alla fine del reading, foto orribile, ma farne altre è stato impossibile). Lo scoprire, poi, che il nuovo disco era una piccola bomba di ricerca musicale va ora a confermare l'inevitabilità di una scelta.
Proseguiamo con la musica. Il concerto topico dell'anno è stato anche uno di quei concerti feticcio da cui non mi potrò facilmente liberare. A luglio (13 luglio) sono sotto il palco (terza fila in piedi) a Piazzolla sul Brenta per ascoltare Neil Young. Lo desideravo da molto e infine ottengo una serata incredibile dove lui accetta di fare da guida ad un gruppo di ragazzi giovani (Promise of the Real) che lo guardano sul palco come scorgessero Dio. Daniele, che era con me, racconta qui il concerto con tanto di scaletta, ma al di là di quanto ciascuno possa dirne il dittico Alabama e Words è stato un dei momenti più intensi della mia carriera di frequentatore di concerti rock: http://www.spettakolo.it/2016/07/14/eterno-neil-young-carezze-pugni-piazzola-sul-brenta/ (la foto qui sotto è invece mia).
A Villa Manin di Passariano, ancora a luglio (20 luglio) ecco  finalmente un concerto di Suzanne Vega. Lei per me è stata, negli anni 80, la rivelazione di un intero mondo musicale (ognuno usa una porta personale per entrare e per me lei fu al tempo un portone amplissimo) e scoprire la sua bravura in diretta è stato un gran momento personale (qui sotto una foto a fine concerto fatta da uno sconosciuto che poi me l'ha mandata; in mano ho un cofanetto di registrazioni che mi tengo ora come una cara reliquia autografata).
Il miglior film dell'anno è in realtà stato presentato a settembre a Venezia per la Biennale cinema. E' un vero capolavoro di estetica cinematografica e di certo un momento di grande coinvolgimento psicologico. Animali notturni di Tom Ford esce a novembre in Italia, ma supera in valore tutto quanto si è visto prima. La protagonista è Amy Adams, alquanto poco disposta a Venezia a farsi avvicinare. Passa in ogni dove come una meteora, ma a lei va il mio premio per l'attrice dell'anno (qui sotto una mia foto a Venezia; lei scende dalla motonave assieme all'Occhio di Falco degli Avengers filmici, al secolo Jeremy Renner).
Ma Venezia è stata da sempre terra di incontri importanti. Ed ecco che è proprio qui, nella mia "città mentale", che riesco, sempre a settembre, ad incontrare uno dei miei miti più grandi: Wim Wenders. Al suo Il cielo sopra Berlino del 1987 devo molta della mia passione per il cinema d'autore; ad un suo libro The act of seeing, devo il titolo e il senso del lavoro fatto con l'Associazione culturale ETRA di Monfalcone negli ultimi cinque anni. E quindi, scusate, ma un autografo, un selfie e qualche scambio simpatico proprio ci stanno.
Oltre all'autografo Wenders regala anche due ali angeliche all'ormai scomparso Peter Falk.
Altro momento "solenne" va ricercato tra le esperienze regalate dall'appuntamento annuale con Lucca Comics & Games. Ecco due foto per raccontare una passione mai venuta meno e quest'anno rinnovatasi. La prima è lo storyboard disegnato  da Giorgio Cavazzano durante un workshop a Lucca per pochi intimi; la cosa più interessante da sottolineare è che il soggetto è di Alessia: Paperino riceve una lettera da Equitalia... e poi va da sè! La seconda foto coglie la conclusione della lectio magistralis di Cavazzano e il momento del calco delle mani per la walk of fame lucchese. Giorgio resta sempre una tappa costante per la mia ricerca fumettistica.


E a proposito di Lucca, ecco alcune immagini scelte. Dall'edonismo cosplayer, fino alla forza e il coraggio di sbattere il pugno davanti alle questioni che la vita ci propone (a Lucca Harley Quinn impazza, ma lei è la più irriverente e in parte di tutte!).
in posa all'ombra della Citadel
Scotty Young: il vero vincitore di Lucca
Il fascino del macabro
Frank Cho mostra il regalo appena ricevuto da Manara
Leo Ortolani e Giacomo Bevilacqua: il fumetto italiano che tira!
Il kit di soppravivenza per attacchi Zombie di Zerocalcare
Ti faccio una foto? Aspetta faccio la bolla!
Il miglior festival del fumetto italiano? No, non è Lucca C&G, ma il Treviso Comic Book Festival, per idee, risultati, visione e coerenza culturale. A settembre a Treviso mi regalo un altro incontro must: con Dave Mckean (grazie ad Alberto Corradi per la sua gentilezza e per la sua competenza; la foto è sua).
 
Il viaggio dell'anno, il luogo simbolo: Norcia, Cstelluccio, Spoleto ecc. Qui sotto una mia foto della Basilica di San Benedetto, che non c'è quasi più. L'esserci stato "prima" del terremoto determina una consapevolezza maggiore rispetto l'entità della perdita. 
E infine. Si è lavorato molto quest'anno, sul piano culturale intendo. Si è cercato di far passare dei concetti, di garantire maggior consapevolezza sul significato di vivere un luogo e di accettarlo per quello che è, del non volerlo trasformare nell'idea che ci facciamo di esso e del non strumentalizzarlo per ragioni altre da esso.
L'Associazione culturale ETRA, di cui promuovo l'attività, ha fatto molto, nelle scuole, con le persone. Ringrazio chi ha creduto in noi e ha collaborato con noi, nella consapevolezza che in queste settimane un grosso colpo di spugna ha fatto tabula rasa del lavoro svolto. E per questo vorrei finire questo lungo post con l'immagine di un incontro pubblico, di conclusione della prima parte di un progetto denominato Per la seconda generazione, ideato da Katia e Laura ed ospitato da ETRA, dedicato ai giovani stranieri residenti a Monfalcone. Comunque sia, loro, i nuovi residenti, saranno il futuro, perché non si può opporre barriere fittizie ad un processo sociale in atto. L'acqua non si limita con i muri, dinanzi all'acqua bisogna provare a nuotare.



sabato 15 ottobre 2016

Tequila o melassa?

Ci sono state volte in cui mi è parso che il mondo si restringesse e che la vita permettesse occasioni realmente straordinarie. 
E' successo ad esempio incontrando qualche personaggio del mondo della cultura, della musica o dello spettacolo che da sempre avevo stimato e di cui avevo seguito con passione il percorso artistico. Ad esempio a me è parso che questo si realizzasse nel scattarmi una foto assieme a Dario Fo, scambiando poi alcune parole con lui, mentre tirava fuori una moneta dalla tasca e la dava al senegalese che voleva venderci dei libri; oppure quando a pochi metri dal palco ho seguito un concerto di Bob Dylan. In quest'ultima occasione la cosa pareva poi sinceramente irreale, tanto era la statura artistica e l'importanza culturale di colui che stavo guardando direttamente negli occhi a fessura e di cui sentivo in diretta la voce graffiante.
Questi ultimi giorni sono stati dedicati anche a quei ricordi, mentre si andavano preparando i funerali milanesi dell'attore scomparso e mentre l'Accademia di Svezia premiava la carriera artistica del cantautore americano con il premio Nobel per la letteratura. Il ricordo personale di Fo (di cui parlai anni fa tra queste pagine) genera sensazioni contrastanti. Il confronto con l'uomo Fo produceva stati d'animo molteplici, di incanto, ma anche pungenti, che determinavano cioè fastidi profondi. Lo stesso credo si possa dire dell'idea fattami a pelle dell'uomo Dylan, mentre conduce la propria vita senza regalare mai nulla di proprio, o perlomeno niente di più di ciò che dovrebbe. Resta la grandezza di lasciti culturali elevatissimi ed indiscutibili. Se oggi, ai funerali dell'attore milanese, Jacopo (Giovanni Karen) Fo, figlio di Dario ha usato parole non leggere rispetto il mondo borghese e perbenista italiano in genere con cui il padre (e la madre) ebbero a scontrarsi in molte occasioni, attraverso storie di censura e di oscuramenti più o meno diretti, il mondo della cultura letteraria mondiale si sta interrogando se Dylan sia realmente meritevole di un Nobel per la letteratura, in quanto cantautore appunto. Poi che quest'ultimo problema se lo siano posto Murakami Haruki, Philip Roth e altri che da anni sono in lizza per lo stesso riconoscimento, a fronte di percorsi di scrittura importantissimi, mi pare anche legittimo, ma la cosa che come sempre fa specie è che in Italia si vada riportando il parere sulla cosa di tale Alessandro Barrico. Barrico, purché si parli di sé e indirettamente dei propri spettacoli (e qui cado nella sua trappola comunicativa), sembra aver detto, rifiutando la benevolenza verso la scelta dell'Accademia: "...è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marìas perché c'è una bella musicalità nella sua narrativa"; poi, non negandosi alcuna opinione, come ad un bambino non si nega una caramella: "...allora anche gli architetti possono essere considerati poeti". Mi viene da dire, nel leggere questo: "Barrico, chi?" Credo che sia legittimo chiedersi questo, specie rispetto uno di quei scrittori che, convinto che la "scuola" (Holden) sia oggi (da anni in realtà) una novella accademia settecentesca, ha perlopiù rovinato due generazioni di presunti scrittori italiani, costringendo parimenti al nulla due generazioni di lettori. Basta un'opinione per far tabula rasa di decenni di scrittura dylaniana, immaginifica e illuminata, accompagnata anche dalla musica o meglio dalla musicalità? Basterebbe ricordare i fischi ricevuti da Dylan alla sua apparizione "elettrica" nel maggio del 1966 per capire cosa Dylan fosse all'epoca e cosa sia poi diventato per la società americana. Esiste qualcuno oggi di vivente che in quel contesto abbia contato realmente così tanto? Certo si premia oggi con il Nobel la qualità dei contenuti e una cultura anglofila, ma che cosa significa mai? Barrico ha compreso al tempo, dice lui, il premio a Fo (la drammaturgia), ma non ora quello a Dylan. Lo stesso Barrico non sa ovviamente poi cosa provi un architetto quando entra nella cappella di Notre Dame du Haut a Ronchamp, progettata da Le Corbusier; se lo sapesse lascerebbe stare i santi e si limiterebbe ai fanti. Analizziamo infine cosa significhi essere degli scrittori oggi. Dylan vive la sua età adulta (ha 75 anni, credo) con un tour mondiale infinito, facendo quello che sa fare sui palchi più disparati e non negando quello che è; altri scrittori passano il proprio tempo ai festival letterari o nei teatri a leggere porzioni di quello che scrivono, a commentare quadri, narcisi ed applauditi, come si applaude ad un concerto: che sia questo il modo contemporaneo di essere scrittori e letterati oggi? Su di un palco, ad appagare le folle inconsapevoli, e non nel silenzio della propria stanza a svolgere una consapevole ricerca sul linguaggio? Dove sta la differenza tra Dylan e colui che meriterebbe il titolo di scrittore nell'età contemporanea? Forse che Dylan era scrittore contemporaneo già negli anni Sessanta, cioè con la capacità comunicativa di chi non aveva facebook a disposizione per presentare il proprio pensiero poetico e civile? Barrico nel parlare di Gabriel Garcìa Màrquez dice con l'enfasi dolciastra che ci è nota: "...i venti secondi in cui ho letto per la prima volta le ultime righe di L'amore ai tempi del colera avevo qualcosa come trent'anni e credo di aver smesso lì, in quel preciso istante, e per sempre, di avere dubbi sulla vita." Non si scrive a caso, la traccia di inchiosto nero è il sangue del proprio pensiero (scriveva più o meno Cristian Donà, che credo Dylan lo conosca bene!) e poiché le parole sono storicamente pietre, questa raggiunta assenza di dubbi (di cui un artista si bea, alla faccia della complessità filosofica postmoderna in cui è maturato) fa ben capire le deboli sicurezze che possono uscire da una bocca. Anche io, in effetti, quando lessi Barrico non ebbi più dubbi. E per sempre, alla melassa impoverita della sua scrittura, preferii e preferisco rinunciare. Per dirla alla Dario Fo, è un vero Mistero Buffo che ci sia un pubblico interessato a quell'articolo. Ma la gente va rispettata, e ancora di più le persone e le loro opinioni, mentre Dylan continua a far rotolare le proprie pietre, ormai pilastro di una storia che poi è la Storia dell'umanità.

lunedì 12 settembre 2016

Pit stop

La storia di questo blog è iniziata pressoché 7 anni fa (il 14 settembre 2009). Durante questo lungo periodo è cambiato un pò tutto a livello di social e comunicazione web. Sono stati anche sette anni difficili sul piano economico internazionale e queste pagine hanno cercato più volte di registrare gli umori che si andavano diffondendo tra le persone. Il primo post parlava di viaggi e di irrequietezza. Per rendere più completa la celebrazione di questo non breve percorso di riflessioni ho scelto di riprendere quel tema elaborandone ulteriori possibili declinazioni. Ho approfittato in realtà dello stimolo proveniente da alcuni scritti del filosofo francese Pierre Zaoui, tra cui quello apparso su La Lettura n.250 del 11 settembre 2016, che approfondisce il tema della fuga. Zaoui si interroga sul ruolo che la fuga può avere nella nostra società; società che Adriano Favole sullo stesso numero de La Lettura definisce ormai non più liquida, ma viscosa. Chi segue queste pagine ha già più volte incontrato questa definizione, "società viscosa", suggeritami durante un incontro di alcuni anni fa da Gianni Vattimo. Niente di nuovo insomma, ma il tema della viscosità relazionale mi pare importante. La condizione di turbamento emotivo che subisce una persona in un contesto, chiamiamolo relazionale, viscoso, porta quest'ultimo a stati di frustrazione (depressione?), ma in alcuni casi anche ad uno scatto in avanti che si traduce nella fuga, sia essa un viaggio temporaneo, oppure un vero mollare tutto e partire. Favole parla di condizione contemporanea di ampia connessione, ma priva di relazioni concrete, che determina la tensione necessaria allo strappo. Zaoui produce una riflessione ancora più interessante, introducendo il tema a lui caro della discrezione. Disceto è colui che distingue, sceglie e separa (discernere). Prima di tutto determina una separazione per scelta critica, tra sè e qualcosa o qualcuno. Lo fa per costrizione, perchè non potrebbe farne a meno, perchè intende ritrovare un percorso di "silenzio" nella società viscosa suddetta. Quel silenzio può anche tradursi in un viaggio, ma di certo può leggersi anche come un momento di fuga. Non la fuga di chi ha ottenuto il proprio e quindi per opportunità si ritira, ma quella di chi si distoglie, per rideterminare le forze, concentrarsi nella comprensione del proprio ruolo rispetto l'esterno (l'esteriorità, o meglio superficialità, anche e soprattutto comunicativa). La condizione dell'atto "discreto" non è però un raggiungimento definitivo (qui è realmente interessante l'opinione espressa da Zaoui), poiché si determinano successivamente situazioni plurime per alzare la propria voce, far sentire la propria opinione e riprendere solo dopo nuovamente il silenzio. Non è fuga, ma autoprotezione, tutela del proprio pensiero, aggiungerei. Nel 2009 citavo Chatwin, la sua riconosciuta irrequietezza (Anatomia dell'irrequietezza) e scopro che dopo sette anni di scritti quella stessa condizione mi stimola ancora. Però lo scrivere quale forma di autoconoscenza ("parlo per comprendere ciò che penso") ha aiutato a migliorare la consapevolezza di uno status. Sarà che il passare degli anni impone anche situazioni più "comode", ma prediligo di certo oggi la "discrezione" all'"irequietezza" quale manifestazione di fuga. Mai saprei (oggi di certo più di ieri) mollare tutto e "andare" In Patagonia, ma so (dopo questo pluriennale viatico intellettuale) riconoscere alla fuga un valore più alto, fatto di consapevolezza e non di abbandono. Continuo a sperare nella possibilità di conoscere oltre l'abbandono! Ah nao ser eu toda a gente e toda a parte ("ah, se potessi essere tutte le persone di tutti i posti"), riprende il muro cinematograficamente scritto da Wim Wenders in Lisbon Story (citando forse o probabilmente Pessoa): e potessimo farlo in silenzio e cogliendo il meglio da ciascuno (persona e posto) senza dover immergerci nella viscosità, a cui invece continuamente risultiamo costretti. Ma non si vive fuori dal proprio tempo, anche se nessuno ci obbliga a presentarci dinanzi al "peggio" a braccia distese e volto rassicurante. Scrivere aiuta ad armarci e a maturare, nella speranza che il mondo reale non si trasformi completamente in un inutile videogioco comunicativo e vi possa essere ancora spazio per i "risultati del silenzio".

mercoledì 24 agosto 2016

Piccole scatole emozionali n.20

Poche settimane fa scatto una foto dal finestrino, dopo aver accostato l'auto. Sto percorrendo la Strada Provinciale 477. L'immagine coglie un borgo da lontano e la bellissima piana che lo circonda. Poco prima eri là, tra quelle case addossate al pendio, facenti forza l'una sull'altra per resistere all'impertinente gravità e proseguire il proprio percorso nella Storia: ma anche da qui vieni colpito dalla bellezza del luogo. E' questo uno dei tuoi posti del cuore, almeno da quando ci sei stato anni fa la prima volta. Ogni tanto ci torni perchè lo spazio aperto ed esteso della piana ti offre rimandi mentali che richiamano la Patagonia di Chatwin, o perlomeno l'idea che ti sei fatto di quella leggendo il suo testo. Qui provi un senso di libertà che travalica il significato stesso della parola. Dopo aver scattato quella foto avresti ripreso la strada, passato il confine geografico tra Umbria e Marche, cambiato valle, e avresti scorto da lontano piccoli paesi tra il velo delle nubi. Oggi questi paesi, quello di prima, ovvero Castelluccio di Norcia, e quello che intravvedevi sono stati feriti dalla Natura, che combatte questa lotta impari contro l'Uomo e vince, per quanto uno faccia, vince. Oggi i campanili di Castelluccio sono solo il ricordo di quelli che ho visto, Arquata del Tronto un'immagine di se stessa. La piana ridiviene piana, la valle si reinventa valle, rifiuta le case, le strade, la nostra invadenza. E' un triste ragionamento, che supera la stessa imbarazzante domanda di noi tutti dinanzi alla distruzione e alla morte di molte persone: perché? Come sempre la parola è nel vento.

martedì 19 luglio 2016

Piccole scatole emozionali n. 19

Sei sulla spiaggia, la mattina di esattamente quindici anni fa, come domani, e mentre la gente attorno ride, parla ad alta voce, si tira una palla che ti sfiora anche un piede, e mentre il mare di luglio trova la forza per rigettare di continuo una piccola onda sino a riva, te ne stai con un quotidiano in mano a leggere che a Genova migliaia di giovani stanno preparandosi per la manifestazione del pomeriggio in occasione della riunione del G8 che la città sta ospitando, con non poche polemiche. E non sai ancora che tra qualche ora saresti stato davanti un televisore con gli occhi sbarrati a cercare notizie su gente che picchiava e che era picchiata, per strada, fino ad arrivare a tarda notte alla consapevolezza della morte di un ragazzo, Carlo Giuliani, dicono, morto sparato. E non sai per nulla di quanto sarebbe successo nei giorni a seguire, quando avresti appreso che nella notte del 21 luglio di esattamente quindici anni fa, come dopodomani, lo Stato italiano aveva per un momento vacillato nel suo essere garante dei diritti fondamentali di ogni essere umano e che ci sarebbe voluto un disastro internazionale avvenuto il giorno undicesimo del settembre a venire per mettere a tacere una voce che scuoteva gli animi di una popolazione tutta, mentre si desideravano sapere delle cose che era meglio non sapere, e che si riconosceranno ufficialmente solo molti anni dopo. E tu sei lì che leggi spensierato mentre ascolti musichette estive sullo sfondo e non ti rendi conto che la tua consapevolezza del "limite" accettabile sarebbe venuta a trovarti a breve.  

domenica 22 maggio 2016

Pensando ad oggi, per Giacomo con affetto

Ulteriore piaga del mondo contemporaneo è, oltre al diletto compiaciuto verso il gioco mediatico del funerale continuo per mere ragioni economiche (vedi post precedenti), anche la riflessione insistita su ciò che è passato, sia come atto nostalgico, sia come mera speculazione che permetta di allontanare le responsabilità verso l'odierno (che fa il paio con la constatazione del vuoto o dell'omologazione di idee che spesso ci circonda). Ecco che quindi ricordare è di certo lo sport preferito del contemporaneo medio. Com'eravamo bravi! E come eravamo capaci! Ecco che domani, 23 maggio 2016 cade l'anniversario (60 anni) di uno dei maggiori artisti dell'arte sequenziale italiana: Andrea Pazienza. Nato nel 1956, morì nel 1987 a causa di una ricaduta tra le braccia infide della droga (male di oggi al pari che di ieri, anche se vogliamo nascondercelo quotidianamente dietro una celata negazione dell'evidenza). Andrea Pazienza è sempre nei pensieri di chi ama il fumetto contemporaneo, il suo compleanno che non c'è è solo l'occasione per ripassare una lezione portata a memoria, forse per favorire una riscoperta o una scoperta per i distratti o i più giovani (anche se dubito questa operazione possa funzionare, per ragioni di distanza generazionale). Non è un caso che oggi Zerocalcare spopoli nel mondo dei comics e non solo, la sua cultura linguistica è pienamente generazionale come lo era quella di Pazienza negli anni '80. "Scolpire il proprio tempo" è una affermazione di Andrej Tarkovskij che vale per ogni operazione culturale che intenda incidere il proprio presente. Pazienza lo seppe fare e entrò nella storia della cultura nazionale. Vi è un gran scrivere su Andrea in questi giorni, escono in edicola nuove raccolte delle sue opere. Se passate sul sito Fumettologica alcuni autori e critici stanno dedicando dei bellissimi contributi all'autore scomparso nell'occasione della ricorrenza, http://www.fumettologica.it/tag/andrea-pazienza/. Lo scrittore Daniele Brolli sta pubblicando alcuni divertenti contributi in ricordo di Andrea (resoconti di esperienze passate assieme negli anni '80). Alcuni di essi erano già stati pubblicati nel catalogo che curammo nel 2005 in memoria di Pazienza a corredo di una mostra importante allestita dall'Associazione culturale ARTeFUMETTO nella città di Monfalcone.
La copertina del catalogo e il disegno originale da cui è tratta
Il catalogo si intitolava: Segni e memorie per una Rockstar, titolo che ancora oggi mi piace molto. Sono passati 11 anni da allora e quel testo mi pare ancora oggi interessante per i molti omaggi grafici e testuali fatti dagli autori del fumetto italiano a Pazienza. Se avete occasione andate a cercarlo, molti cataloghi ci sono stati sottratti, ma dovrebbero essercene ancora in giro. Non vorrei però perdere ulteriore tempo a pensare al passato, contraddicendomi rispetto gli intenti iniziali. Ho voluto introdurre qui l'Associazione ARTeFUMETTO di Monfalcone perché dal 2005 ha pubblicato anche dei piccoli albi di una collana dal titolo Anjce che erano scritti e disegnati da tre autori locali (di Gorizia e Trieste), tra cui uno era Giacomo Pueroni, ottimo disegnatore per la Bonelli sulle testate di Nathan Never e Jonathan Steele. Giacomo oggi non sta bene e un'iniziativa dello stesso editore Bonelli cerca di aiutarlo in questo momento difficile. Oggi voglio menzionare Pazienza, ricordarlo, ma il mio pensiero principale va a Giacomo, e la partita con l'odierno la sta giocando lui. Vi invito ad andare sul sito della Sergio Bonelli Editore per aderire all'iniziativa. Una menzione va allo sceneggiatore Federico Memola per la vicinanza vera che sta dimostrando a Giacomo in questa occasione. http://www.sergiobonelli.it/gallery/news/40737/Due-eroi-per-Giacomo-.html
Noi ci stiamo attivando. Caro Giacomo, ci sarà ancora il tempo per il cioccolato!
Horo è un personaggio della serie Anjce


giovedì 19 maggio 2016

Strage

A volte si fanno delle constatazioni stupide. Una di queste potrebbe essere: "Ma quest'anno muoiono tutti i cantanti? Anzi a pensarci bene muoiono tutti?" E infatti se pensiamo al 2016 se ne sono andati una sfilza di nomi importanti nel mondo della musica. Ma non solo. Potremmo estendere la cosa ad un numero considerevole di personaggi famosi, ultimo dei quali Marco Pannella, scomparso oggi. Che la considerazione sia stupida è evidente. E' come se uno avesse appena saputo di un lutto dove in un incidente automobilistico sono scomparsi vari membri della sua famiglia; dovrebbe allora constatare: "Di certo quest'anno è un anno dove muoiono tutti i famigliari!" Infatti è proprio questo in fondo l'ago della bilancia, quanti sono i scomparsi che contano qualcosa per me, per la mia memoria ed esperienza di vita. Ciascuno potrebbe fare un piccolo carnet delle scomparse eccellenze rispetto il proprio trascorso. Ad esempio io David Bowie lo conterei, e infatti ne parlai in qualche post di gennaio 2016. E' un gioco scemo, che però permette di fare il punto sulle cose, su ciò che ciascuno di noi è stato un tempo e su ciò che siamo poi diventati, sino ad arrivare a quello che siamo in questo preciso momento. Da questa disamina direi che questo anno è stato alquanto sfortunato. A ben vedere direi anche che questa settimana è stata di certo fastidiosa. Il 13 marzo 2016, ad esempio è scomparso Hilary Putman, filosofo e matematico che da contemporaneo ha sviluppato un excursus condotto (semplificando) all'interno dell'approccio filosofico realista. Giustamente, per farne capire l'importanza, Maurizio Ferraris, durante un suo intervento televisivo, ha ricordato (parafraso) come spesso si andasse dicendo di come la filosofia fosse ormai morta, ma il fatto stesso che Putman sia scomparso nel 2016 dimostrava che non era vero (almeno sino ad oggi). Vi invito alla lettura di Putman (ad es. Realismo dal volto umano, oppure Etica senza ontologia). Alcuni giorni fa (il 17 maggio) è scomparso anche Piero Zanotto. Era giornalista, critico e storico del fumetto e del cinema. Aveva sempre sollevato il tema della cultura del fumetto, ovvero che il fumetto fosse cultura. Curai, sotto la sua egida e con lui poi ad ascoltarci in prima fila, alcuni mesi fa un incontro a Venezia sul fumetto di Matteo Alemanno. Me ne resterà un piacevole ricordo, e anche una certa amarezza dovuta alla perdita. Oggi è morto come detto anche Marco Pannella. Persona antipatica direi, specie per uno come me che ama i toni poco gridati e non esasperati, anche e soprattutto nell'espressione delle proprie idee. Ma Pannella è stato un rappresentante importante per la politica italiana e di certo anche uomo assolutamente contemporaneo, nel suo amare alla follia la coerenza di un pensiero nell'incoerenza delle posizioni esteriori. Contemporaneo è chi non ha paura dell'esistere "oggi", qui e ora, e ancor di più chi sa affrontare le questioni nell'oscurità del dubbio, ponendosi domande e dandosi anche delle risposte (spesso ambigue) che si ergono poi a fatti. Ricordo che alcuni mesi fa a Gorizia aveva partecipato all'inaugurazione di una mostra celebrativa sui 60 anni del Partito Radicale. L'associazione radicale che la curava si chiama "Trasparenza è partecipazione". Ricordo che la cronaca (il Piccolo del 13 luglio 2015) riportava (sarà poi vero!) come Pannella nell'intervento inaugurale si fosse soffermato su quel nome: "Che nome è? Ve lo dico da dieci anni: le cose trasparenti non si vedono". Che l'abbia detto o no non importa, vale il fatto che di certo l'uomo Pannella non è mai stato trasparente nella cultura civile italiana. Ingombrante invece, e emarginato in parte per questo, ha espresso sempre il suo peso specifico. Ebbene sì, lo dissi qualche tempo fa, siamo destinati ad un funerale continuo (alcuni più sentiti, altri meno, dipende dal nostro coinvolgimento emotivo e non dalla statura di chi muore!), testimoni di un'epoca che al peso della carta ha preferito la leggerezza dell'effimero mondo digitale, che ha permesso alla parola di farsi volatile, ma non alla mente di dimenticare i nostri incontri.

lunedì 25 aprile 2016

Consapevole

E' il 25 aprile. Un'altra giornata con il pensiero ad una amata Liberazione. Un ricordo dentro alla Storia e dentro al proprio cuore. Quante Liberazioni ci sono state dopo l'inizio della prima, nel 1943, quante ne ha abbracciate questo Stato Italiano che continuamente ha vissuto le proprie vicende sul filo di un rasoio affilato. Quante dovrà viverne ancora. Chi può oggi alzare la mano e sentirsi libero? E rispetto che cosa? Libertà da che cosa? Me lo chiedo sempre. Nel 1943 era più semplice rispondere, perché il sentimento era charo e collettivo. Oggi questa ricerca è privata, psicologica ed individuale. Un bisogno d'aria, che spesso ti prende al petto, perché si percepisce che le cose stanno andando eppure si inciampa. Cosa ci immobilizza oggi, e ieri, e l'altro ieri? Adottare una politica individuale di liberazione. A me capita di farlo attraverso il progetto di esperienze quotidiane. Nell'immaginare queste come delle vie che si potrebbero aprire mi pare di leggervi uno spiraglio di libertà. Trovo sempre mura alte a confondermi le idee. Ma le mura non chiudono, non limitano mai veramente, anzi amplificano la percezione dell'al di là, ne rendono mitico il contenuto, ci permettono di intravvederlo per un momento nella speranza assoluta per quello che forse non è o non sarà mai. La mia storia non parla di ricordi partigiani. Ho avuto molti parenti (antichi e giganti) morti nelle guerre che chiamiamo mondiali, ma mai partigiani. Non ho storie personali da raccontare rispetto questo giorno che festeggio oggi. Eppure mai, in nessun momento della mia vita mi è capitato di mettere in discussione l'importanza di questo giorno. Che mi ricorda non chi ero, ma chi sono, una persona che in ogni momento, con le proprie idee accetta dentro di sè che la cosa più importante è sperimentare la propria esperienza di Libertà.

sabato 23 aprile 2016

Il fantasma di PJ Harvey

Leggo alcune settimane fa sul web che PJ Harvey sarebbe venuta in Italia per due reading (a Genova il 15 aprile e a Milano il 16 aprile) come anteprima del 22° Festival Internazionale di Poesia di Genova (dal 10 al 19 giugno, andateci perché gli organizzatori sono fighissimi!). Ingressi gratuiti, ma posti limitatissimi, prenotazioni online alla segreteria del festival. Sono in ritardo rispetto la comunicazione e quindi ho poche speranze, ma mando comunque una mail per Milano. Resto abbastanza stupito giorni dopo nel scoprire di poter essere tra i 200 accettati per la serata. Che potevo fare, vado! Ecco che così alle ore 20.30 del 16 aprile sono alla Casa della Cultura di Milano, in via Borgogna, seduto all'interno di una sala stipata , ma che pare un lungo soggiorno, in quinta fila, corridoio centrale, con a 4 metri di distanza PJ Harvey che inizia a leggere le sue poesie. Ovviamente, considerato (come chi legge queste pagine sa) che PJ rappresenta per me una delle tre passioni principali assolute (musicale in questo caso!) che mi accompagnano nella mia continua ricerca culturale, capirete che non ho vissuto la cosa con molto senso del reale, chiedendomi ogni tanto (anche ora che scrivo) se sta cosa sia poi veramente accaduta. PJ legge per un'ora le sue poesie tratte dal volume The Hollow of the Hand, che raccoglie oltre ai testi della musicista anche le belle foto di Seamus Murphy, già collaboratore della Harvey ai tempi di Let England Shake. Il libro ripercorre poeticamente il viaggio dei due tra Kosovo, Afghanistan e Washington DC, alla ricerca di realtà umane non facili, con l'ultima meta - come dirà la Harvey durante l'incontro - importante per capire dove vengono decise quotidianamente le sorti delle prime due. Difficile dimenticare che quei testi che PJ legge sono anche parte di quanto è stato inserito tra le canzoni dell'ultimo album della cantante The Hope Six Demolition Project che è uscito a livello internazionale proprio il 15 aprile. A fine serata qualcuno chiederà alla Harvey come possa essere che con un nuovo disco uscito il giorno prima lei sia a Milano a leggere le poesie di un libro mai uscito in edizione italiana e pubblicato nel 2015. La risposta è stata "Sto cercando di scappare!" La stessa Harvey a fine lettura si è resa disponibile per autografare il volume, ma si è potuto anche parlare, scambiare opinioni e guardare l'artista diritto negli occhi, "alla distanza di un bacio" come diceva Miela Reina in una delle sue opere grafiche. Ho potuto alcuni giorni dopo acquistare il nuovo disco, appena uscito nei negozi. Un disco di "retorica" politica ha detto qualche critico, ma ben sappiamo che anche la parola Libertà è fatta di retorica assoluta, dipende sempre dalle argomentazioni che sai dare personalmente a quel termine; vi invito quindi ad ascoltarlo questo nuovo lavoro musicale dell'artista inglese, perché è un lavoro talmente contemporaneo e al tempo stesso senza tempo che ascoltarlo mi ha veramente lasciato senza respiro, e vi anticipo già che non è un capolavoro e che non è il migliore della sua produzione, ma hai voglia a stare dietro a questa piccola donna inglese. Unica regola della serata milanese era quella di non scattare delle foto (qualcuna la trovate qui, visto che i giornalisti fanno sempre eccezione a se stessi http://xl.repubblica.it/articoli/pj-harvey-legge-the-hollow-of-the-hand/35614/), ecco così che me ne resta una del palco vuoto prima del reading, a dimostrare come dicevo già prima che la cosa, almeno per me, non è mai successa veramente. Peccato però! Maledetti sogni a occhi aperti!

domenica 3 aprile 2016

Piccole scatole emozionali n.18

Cedo alla nostalgia, avendo saputo che ieri, sabato 2 aprile, è scomparso Gallieno Ferri. Era un disegnatore incredibile che ha fatto con il suo tratto la storia di Zagor, una delle testate principali dell'attuale Sergio Bonelli Editore. All'incontro artistico e umano tra Sergio Bonelli e Gallieno Ferri si deve nel 1961 la nascita del personaggio, forse a quel tempo tra i più complessi del mondo del fumetto seriale italiano, già postmoderno allora, per i citazionismi e le trame che prendevano spunto dal cinema e la letteratura di genere. Sergio Bonelli si faceva allora chiamare Guido Nolitta e scriverà le storie di Zagor sino al 1980. Gallieno Ferri disegnerà tutte le copertine della testata (cosa di per sè già incredibile) e molte delle storie, specie all'inizio, del percorso editoriale. A me questa scomparsa suscita alcune emozioni. Zagor (assieme a Topolino) è di certo stato il primo fumetto ad avermi completamente conquistato, acquistandolo per anni, dal 1975, dal numero 122 ("Addio, fratello rosso!") e sino al suo numero 300 (il 351 della Collana Zenith). Le vicende che mi portarono a desiderare ed infine ad avere tutti i numeri precedenti a quel primo acquisto sono perlopiù legate alla nascita di una passione vera per il fumetto, che mai mi abbandonerà in seguito e che costituiscono i tasselli di quella scatola emozionale che in breve chiamerei: infanzia e adolescenza! I disegni di Gallieno Ferri sono stati per me una delle chiavi d'accesso verso un mondo intero. Oggi nel constatare una morte, mi tolgo il cappello e ringrazio. Lo ricordo con questo schizzo che mi fece al volo passandomi al fianco, mentre lui scendeva una scala e io la risalivo. Non si fermò nel vedermi porgergli il foglio, lo abbozzò mentre percorreva i cinque gradini che seguirono la sua discesa. Sono passati circa 25 anni da allora!

sabato 26 marzo 2016

Separo e connetto

Nel suo contributo ad uno dei cataloghi più interessanti di inzio anni Ottanta, Francesca Alinovi, curatrice incaricata dall'allora Amministrazione Comunale di Bologna (assieme ad altri quattro giovani critici) di una rassegna-mostra per la Galleria comunale d'arte moderna che avrebbe dovuto chiamarsi "Liberamente" e che poi con grande genio fu intitolata "Registrazione di frequenze" (anzi se rileggiamo il catalogo "Regstrzn freqnz"), scrive: "Le sue storie non sono mai a sequenza, ma piuttosto a coesistenza libera nel tempo e nello spazio, e la successione lineare del tempo di lettura è più una costrizione di carattere tipografico dovuta al medium usato che una scelta espressiva dell'artista". L'Alinovi parlava delle storie di Andrea Pazienza, in esposizione (le tavole) per l'occasione della rassegna con quelle di Corona, Carpinteri, Jori e Mattioli al fianco dei lavori artistici di Aldo Spoldi, Luigi Ontani e altri; e se poi guardiamo all'insieme della rassegna (alle scelte fatte dagli altri curatori), alle opere di molti autori importantissimi per l'arte "maxima" italiana precedente e degli anni a venire. L'Alinovi parlava allora di fine del tempo dell' "aut aut" e inizio di quello dell'"e...e". L'inizio del citazionismo, della contaminazione come strada a venire. Era il 20 marzo 1982. Francesca Alinovi, insegnante al DAMS, al tempo aveva 34 anni. Viene uccisa a 35 anni nel giugno 1983 per mano (questo il risultato giudiziario, messo poi più volte in discussione) del suo amante del tempo, già suo studente e artista tra l'altro della copertina del catalogo della rassegna bolognese del 1982 (una copertina che riporta i curatori e non le opere). Il nome non ci interessa. L'omicidio si rivelò di certo uno dei più morbosamente discussi dell'epoca e ancor oggi costituisce un piccolo giallo italiano, continuamente ripreso e indagato dai media.
Vorrei però concentrarmi su quanto scritto dall'allora vivente Alinovi, trovando di interesse la sua riflessione sul tempo e sullo spazio, importante anche per un esame dello stato delle arti oggi. Pochi giorni fa è uscita su la Lettura (n. 225), allegato della domenica de Il Corriere della Sera un'intervista a Christine Marcel (capo curatore per l'arte contemporanea e la creazione artistica del Centre Pompidou di Parigi) incaricata quale direttrice/curatrice per la Biennale d'Arte di Venezia del 2017. Il senso dell'incarico sta nel desiderio dell'istituzione Biennale di valorizzare il ruolo degli artisti "nella ricostruzione del mondo in cui viviamo" (come ha annunciato Paolo Baratta suo presidente). La Marcel (riporta Stefano Bucci per la Lettura) nel riprendere le parole di Baratta sottolinea "Vorrei che si stabilisse un dialogo costruttivo con i visitatori, che uscissero con qualche dubbio e con molte certezze. Il compito di un curatore è rendere comprensibili i significati nascosti dell'arte, anche utilizzando l'allestimento". Mi piacerebbe sapere la lettura che darebbe Francesca Alinovi di questi pensieri, che nell'invito alla serenità e al superamento di fratture "esterne ed interne", materiali e psicologiche, a me ricordano molto una dimostrazione di resa difronte alla più grande delle conquiste degli ultimi decenni del '900: il tentativo di non comprendere, ammettendo la complessità. "Coesistenza libera nel tempo e nello spazio" a superamento di una "successione lineare nel tempo di lettura", scriveva la critica bolognese nel 1982. Oggi forse l'arte stessa si è svuotata di significati interni, a favore di complessità solo superficiali, la contaminazione non è nella ricerca, ma nella coesistenza di forme, non co-abitate ma solo giustapposte. La Marcel, scive Bucci nel suo articolo per la Lettura, ama la danza, il Qi gong, il Tai Chi e la chitarra. Inevitabile la libertà di espressione, la sovrapposizione, poichè ormai il pubblico non condivide più il proprio silenzio, ha bisogno di essere "investito" dalle molteplici espressioni della cultura, soffocato e scosso nei sensi per evitare di dar spazio al pensiero. Mille sensazioni a frammentare l'unità del sentire. Di certo oggi siamo figli culturali di quel tempo dell'"e...e" di cui parlava l'Alinovi. Figli stanchi però e come suggerisce la Marcel vogliosi di molte certezze, per ridurre il dubbio.... L'arte contemporanea ricerca continuamente le proprie radici, ciò da cui è partita e che sta sotto, si alimenta di flussi che dalle profondità di ieri si estendono ai nuovi boccioli di oggi e quindi ai fiori di domani (nel semplificare il tutto con l'immagine di un albero fiorito). Ma poi tutto finisce così, nel fiore bello, che si specchia nel fiore vicino, nei complimenti reciproci che i due infine si faranno. E così si svolge ogni cosa, una dopo l'altra, rotolando perchè il terreno è in pendenza a scendere. E' singolare come la maggior parte di coloro che ho interrogato per curiosità durante le chiacchierate al bar o i piccoli eventi che vado organizzando per l'Associazione culturale ETRA di Monfalcone diano una interpretazione del "tempo" come di qualcosa di orizzontale, che si sviluppa cioè in direzione orizzontale. E' il senso del percorso che si traspone dall'esperienza quotidiana alla sua rappresentazione mentale. Le cose succedono correlandosi a dei momenti che scorrono uno dopo l'altro, uno avanti all'altro, a determinare una linearità per i più idealmente rappresentata come retta. Il tempo per me è sempre stato invece qualcosa di verticale. Una sedimentazione di successioni stratigrafiche. Un momento sopra l'altro, con le radici del primo ancora aggrappate a quello precedente. Non è un discorso retorico sull'importanza di ciò che c'era per lo sviluppo di ciò che sarà, ma più un discorso sul contesto, sullo spazio appunto. Sul fatto che il tempo forse non esiste senza lo spazio, che alimenta il primo nella sua esigenza sequenziale. E' forse un discorso sul tempo, dal latino tempus (atmosfera), ma anche tem-no, "divido" e quindi "sezione", "periodo", e quindi "temporaneo", che non può slegarsi dal contesto, dal latino contextus, "intrecciare", "connettere". Il tempo, insomma, separa, mentre il contesto, connette. L'arte come la società contemporanea non può uscire dalla retorica dell'auto-compiacimento, dell'auto-osservazione, se non ragiona sul contesto e dimentica il tempo. E' nell'odierno la strada da compiersi e non nel passato, nel calarsi nello spazio che quando sarà abitato potrà ergersi a "luogo". Rispetto la colonna verticale del tempo, in ogni istante dominiamo la valle, la cogliamo nel suo insieme (siamo il risultato di essa). Ma siamo noi più vicini al cielo e quindi coraggio, tocchiamolo, non teniamo le mani in tasca.

sabato 20 febbraio 2016

Decodificazione di una fenomenologia

Mi sveglio e scopro che ieri sera è scomparso Umberto Eco. E' di certo una mancanza importante questa del semiologo, alessandrino d'origine, che pone di certo, accostando alla sua morte anche quella di Ettore Scola, la necessità di una riflessione sulla cultura dell'oggi. I padri culturali delle ultime generazioni scompaiono e resta ben poco. Assumo improvvisamente consapevolezza che, presa la cosa così, filtrata cioè nell'ottica dell'omaggio continuo verso ciò che siamo stati, rischiamo nel breve di trovarci catapultati dai media in una sorta di fumerale continuo, disperdendo ogni possibilità di scarto (in avanti) nella contemplazione di "ciò che di bello siamo stati". Il professor Eco di certo non avrebbe gradito quell'adagiarsi nostalgico che si va prospettando per il futuro, e non so se gradirà molto questa serata che l'appena nominata direttrice di RAI 3, Daria Bignardi, gli farà dedicare a breve all'interno di quel tempio sacro dell'inutile piagnisteo nostalgico che è la trasmissione "Che tempo che fa" di Fabio Fazio.
Eco conosceva i media, approfondendo in tempi non sospetti il loro ruolo nella cultura massificata, e non si è mai astenuto dall'affrontarne i temi a partire da quel suo Diario minimo e soprattutto da quei suoi Apocalittici e integrati, incastrando in questo modo la propria esperienza intellettuale con quella del Gruppo 63. Li conosceva i media e sapeva usarli per la loro potenzialità, in alcuni casi servendosene per la propria carriera. Ma a posteriori, a quanti è servita poi realmente quella sua proposta iniziale di confronto continuo e incessante all'interno di un'Opera aperta ('62), giacchè, alla fine dell'esperienza postmoderna, ci troviamo sora pesso disorientati nell'assenza di certezze, a partire proprio dal fatto che i media hanno saputo trasformare ogni notizia in chiacchiericcio, allargandone la portata, ma non venendo mai a capo di un discorso? E quindi chiacchiere, ora, ai margini di Eco e di certo sulla morte di Eco. I media sanno bene come ogni fumerale significhi audience e copie vendute, è da sempre così, pescando di continuo nello stagno dell'"eravamo", indipendentemente da ciò che poi in fondo eravamo veramente. I politici sanno bene l'importanza del chiacchiericcio sul "tutto e sul contrario di tutto". E' imbarazzante far parte di tutto ciò, appartenere a questa era culturale dove la depressione di un intellettuale passa attraverso la sua consapevole impossibilità di poter rinunciare ad accettare quella per com'è. Perchè, rigirando il ritornello del Vasco Rossi dei tempi che furono più dell'"orgoglio ne ha uccisi il petrolio", ovvero il "soldo". E sono suicidi (della propria coerenza culturale), travestiti da omicidi, per mano, anzi per bocca, del chiacchiericcio che i media ci pongono a rilievo. Guardiamoci attorno: ma importa veramente a qualcuno di qualcosa di questi tempi e di ciò che vi succede? Ha realmente più senso una qualche cosa rispetto un'altra? Tutto è sabbai che si cala nelle dita delle nostre mani, si ammucchia a terra, vicino ai nostri piedi, permettendoci di calpestarla, procedendo così attoniti indifferenti il nostro cammino. I valori, così come il pensiero (analitico e critico per primi) stanno al di sotto delle suole delle nostre scarpe; a volte da seduti (nei momenti di contemplazione) ne ritroviamo qualche brandello appiccicato là sotto, ma sono momenti, esitazioni nel flusso del niente. Possiamo così permettere, con un certo voyeurismo distratto, che oggi si parli di unioni civili come si parla del tempo (che fa): io a favore, io contro, oggi sì, domani no, dimenticando che dietro a due parole ("unioni" e "civili"), ci sono persone, che respirano, che hanno bisogno d'aria fresca per respirare; oppure che si gestisca mediaticamente una vicenda come quella della morte di Giulio Regeni in Egitto come stanno facendo notiziari e giornali, nella cronaca continua (di una camera ardente, di un funerale), impietosa verso la sensibilità umana, tra la gestione dei dettagli di una vertebra rotta in più o in meno; che si fotografi un bambino morto sulla sabbia, in riva al mare, asserendo che foto così servono per sensibilizzare la gente, le nazioni, i parlamenti, verso certe tematiche, e non ammettendo che sono cazzate, che se uno è etico dinanzi al proprio lavoro di cronaca quella foto avrebbe dovuto non farla, per rispettare una vita umana e quella di coloro che ne hanno pianto la morte, ammettendo così che tanto se ci fossero parlamenti seri qualcosa di buono si sarebbe dovuto proporre comunque. Un mestiere ha un etica superiore ad ogni etica professionale. 
Ecco, professor Eco, arrivederci tra le parole, tra i segni linguistici e tra i suoi cari codici di comunicazione; non potrà più offrirci interpretazioni, lasciandoci così soli, sommersi tra mille, milioni, miliardi di parole dette a caso, inconsapevoli o forse rincoglioniti consapevoli che oggi non si muore (almeno dentro) solo di armi da fuoco, ma forse ancor di più di vocabolari.

mercoledì 27 gennaio 2016

...et voilà le jeux sont fait...

Alla fine di un percorso travagliato, con tanto di accuse di sessismo, prese di distanza dal festival da parte di autori importanti, e chi più ne ha più ne metta, si è arrivati alla proclamazione del vincitore del Grand Prix de la ville d’Angoulême (di certo uno dei più preziosi nel campo del fumetto internazionale, sorta di premio alla carriera e non ad un'opera specifica), che nell'occasione è andato al belga Hermann (Huppen). E io dico, ci voleva tanto a sceglierlo stò autore? Tra l'altro io pensavo lo avesse già ricevuto! Mi pareva impossibile non fosse così! Ha disegnato e quindi scritto storie incredibili, con uno stile che dell'imperfezione fa la sua forza più pungente e con una disillusione nei confronti del genere umano a dir poco illuminante. Un burbero, mi venne detto in più occasioni. Io ci passai insieme un certo lasso di tempo a margine di una Lucca Comics di un paio di anni fa. E mi divertii veramente tanto. Mi rallegro per questo meritato premio e consiglio a tutti di rileggere la prima serie de Le Torri di Bois-Maury. Un capolavoro imperdibile.

lunedì 11 gennaio 2016

I said that time may change me, but i can't trace time

Cosa si può dire su David Bowie che non verrà detto da qualcun'altro nei prossimi giorni e d'ora in poi? Probabilmente nulla. Ma resta il fatto che non potevo astenermi dal sottolineare la sua grandezza, tutta concentrata in quella sana incoerenza che i saggi chiamano ricerca. Ho provato a pensare, nello sconcerto (vero, e qui mi scopro ormai sufficientemente 'vecchio' per vivere certe situazioni con un senso di perdita pressoché imbarazzante) che è seguito alla notizia della sua morte, quali artisti avrei dovuto elencare per descrivere la cultura musicale (e non solo) degli ultimi 70 anni. Mi sono venuti in mente quattro nomi, e David Bowie era tra questi. Che altro dire ancora? Ah sì, le mie preferite sono da sempre, rubandosi il podio periodicamente: Rock'N Roll Suicide, Ashes To Ashes, The Man Who Sold the World, Let's Dance, e quella che contiene i versi del titolo di questo post.
PS. avrei potuto intitolare questo testo anche, citando Andrea Pazienza, "...mi chiesi se il cuore fosse davvero un muscolo involontario..."