domenica 26 giugno 2011

Piccole scatole emozionali n.7

I riflessi del sole pomeridiano d'estate sul mare increspato dal vento, nel molo tra l'Acquario e la Stazione Marittima di Trieste. Un cono gelato stracciatella e nocciola seduto su una bitta, mentre altre persone stanno aspettando e invece tu vuoi prenderti dieci minuti per te e decidi che in fondo poi queste altre persone possono anche aspettare e forse volerti bene lo stesso. Anzi. E poi scoprire che è proprio così.

lunedì 20 giugno 2011

Addii mentali

La storia della E-Street band finisce in questi giorni con la morte di Clarence Clemons, avvenuta il giorno 18 giugno (la stampa ne riporta notizia oggi). Sul sito ufficiale di Bruce Springsteen il cantautore americano fa scrivere queste sue parole:"Clarence lived a wonderful life. He carried within him a love of people that made them love him. He created a wondrous and extended family. He loved the saxophone, loved our fans and gave everything he had every night he stepped on stage. His loss is immeasurable and we are honored and thankful to have known him and had the opportunity to stand beside him for nearly forty years. He was my great friend, my partner, and with Clarence at my side, my band and I were able to tell a story far deeper than those simply contained in our music. His life, his memory, and his love will live on in that story and in our band." Come sempre, quando muore un nostro piccolo o grande idolo (e noi umani, per sopravvivenza credo, siamo bravissimi a crearne di continuo), ci sembra la cosa porti con sè un vuoto profondo. Ma a noi, estimatori distanti, mancherà solo la superficie, mentre per qualcun'altro si tratterà di una prova ben più greve. Springsteen canterà ancora e dai solchi dei suoi dischi Clemons suonerà per sempre, ma nella vita del cantautore qualcosa non sarà veramente più uguale a se stessa. Rispetto questo dolore che sporca appena, di un languore nostalgico, il ricordo della mia giovinezza e dei giorni quando anch'io urlavo: "But till then tramps like us baby we were born to run..."!

lunedì 13 giugno 2011

Quorum!

Olè, il pranzo è servito.
Lo so, sarà infantile...ma sono contento!
(la foto è di Keiko Ichiguchi, e questa scelta non è casuale. Ciao Keiko!)

mercoledì 8 giugno 2011

Restiamo sul "pezzo"

Ho letto da qualche parte (e non riesco veramente a ricordare dove, lo giuro!, forse era un graffito) una frase, che diceva: "Sono già contro la prossima guerra". E' questo grido preventivo, a sembrarmi oggi l'arma migliore. Non mi pare il caso di affrontare sempre le cose quando ormai l'onda ci sommerge e noi stiamo annaspando a fatica. Per questo andrò a votare e voterò Sì, Sì, Sì a questo referendum, sui tre quesiti inerenti il nucleare e l'acqua, sperando che il quorum venga raggiunto. Per il quarto quesito, sul legittimo impedimento, voterò comunque, ma senza dirvi come, poiché ognuno è corretto possa rimettersi al proprio sentire culturale e politico.

Il discorso sul nucleare non è una questione prettamente italiana: in un'Europa senza confini, non possiamo limitarci al votare per dire no alle centrali in Italia. Non possiamo fare una riflessione limitata al "quartiere". Il nostro rifiuto al nucleare in Italia è un atto che deve valere indirettamente a tutela di tutti i paesi europei (e non solo), anche di quei paesi dove magari, al momento dell'adozione di una politica nucleare, un'opportunità referendaria forse non era stata concessa. Inoltre, se oggi a due passi da noi, in Slovenia, ci troviamo una centrale nucleare di vecchia generazione, senza che qualcuno si sia preoccupato di valutarne le conseguenze anche per Trieste, anche per Venezia, ecc., a me non sembra che questo costituisca una scusa per ricambiare il fardello. Nel sentirci fortunati per questa nostra democrazia, che a volte traballa, nel sentirci però anche europei e vicini al nostro prossimo d'oltreconfine (indipendentemente dal confine), vi prego andiamo a votare: siamo già contro la prossima guerra!

Sull'acqua: non so se sia meglio un gestore pubblico o uno privato. Di certo la legge di riferimento è lacunosa e poco chiara (quindi una riflessione comunque lo merita), e so per certo che già un ragionamento economico (di profitto specialmente) attorno a questo bene insostituibile, mi crea un disagio profondo.

domenica 5 giugno 2011

...l'arte s'è desta?

Che Vittorio Sgarbi sia un provocatore di mestiere penso sia chiaro a tutti. Se però riuscisse a dimenticarsene e facesse solo il critico d'arte, io credo potrebbe dare molti contributi al mondo dell'arte contemporanea. Il suo lavoro curatoriale per il Padiglione Italia ("L'arte non è cosa nostra") all'interno della 54. Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia (la Biennale) è uno di questi contributi importanti. Non perché abbia centrato appieno il proprio lavoro, ma perché ha creato un dibattito attorno ad esso: e il confronto dissonante è di certo matrice di crescita. Sgarbi ha proposto un "magazzino d'arte" fatto di opere affiancate e sovrapposte (un "caos" l'ha chiamato Gillo Dorfles, pur apprezzandone l'idea di fondo), mettendo fianco a fianco un numero impensabile di artisti rispetto le scelte curatoriali tipiche per una Biennale. Ha preferito far venire meno il pensiero forte, l'indirizzo diremo, a favore dell'oggetto, che in questo caso è davvero molteplice. Ha chiesto a molti, da lui considerati intellettuali, italiani di proporre un'artista e poi grazie all'allestimento di Benedetta Tagliabue li ha "mostrati". Insomma non ha scelto, non ha fatto il critico. Io diffido di questa "non scelta" e condivido quando Robert Storr dichiara di preferire "la riaffermazione della centralità della critica" (lui, d'altra parte, era direttore alla Biennale nel 2007 e non può oggi che affermare la bontà delle sue scelte di allora). Inoltre è ancora Dorfles a suggerire (cito queste note dall'articolo apparso sul Corriere della Sera a nome di Vincenzo Trione il giorno 04 giugno): "Mi sembra interessante l'idea di proporre un numero tanto elevato di voci: a Venezia non era mai accaduto. Eppure, non si è riusciti a rappresentare un clima. Non si sono suggerite tendenze, stili". In effetti, credo anch'io che questo sia il rischio, quello di non consegnare niente a chi guarda, al pubblico cioé. Non scegliere è in fondo non consegnare nulla alla tutela futura, non mettere sul piedistallo. Non affrontare il problema del ruolo della storia. Oggi, se guardiamo con interesse qualcosa che proviene dal passato, ovvero se diamo un "valore storico" a qualcosa, è perché qualcuno (la critica artistica ad esempio) ha saputo individuarvi un merito all'epoca e quindi successivamente, ovvero quando si è quindi scelto di proteggere quel qualcosa, oppure di "museizzarlo". Come Dorfles, anch'io resto perplesso. Poi Sgarbi non può tralasciare di essere Sgarbi, il provocatore, e quindi alla presentazione ufficiale del Padiglione ha sparato a zero sulle Soprintendenze che hanno concesso alcuni spazi (ad esempio la Basilica palladiana di San Giorgio ad Anish Kapoor, con il tramite del mecenate di turno, ovvero "Vogue Italia" e la sua direttrice Franca Sozzani; o una nicchia del Sansovino a Julian Schnabel al Correr) e soprattutto sul mondo della Moda: "La moda parla di maestri, ma se non hanno una K o una H nel nome, meglio se in fondo, non li espongono nemmeno". Sgarbi ce l'ha con questo mecenatismo fatto di interessi, fatto di profitti, così poco vicino alla cultura e forse più legato al "glamour" pubblicitario che ne consegue. Francesco Bonami spara a zero contro Sgarbi (sono due mondi della critica, i loro, che si muovono paralleli e che non si toccano, alla pari di quelli di Philippe Daverio e dello stesso Bonami, ecc.; ognuno di loro ha un orgoglio ferito e una lingua "ferente" e posizioni da curare, rapporti da sostenere). Lo fa anche Beatrice Trussardi, una delle "mecenati" chiamate in causa, che sottolinea come le fondazioni private siano riuscite a Milano, laddove le istituzioni pubbliche hanno fallito per decenni. E infatti i soldi corrono a Milano attorno al solito glamour, al raffinato che si sposa con il stucchevole, al "vuoto" che sostituisce "i pieni" del passato, dei padri della cultura artistica italiana: "Milano da bere", un tempo, "Milano da allestire", oggi. Attenzione, tutto questo va detto nella consapevolezza che senza i soldi non si fa nulla e i soldi pubblici, che magari ci sono, per la cultura sono sempre un pò più nascosti. Non spaventa il parere di Sgarbi sul ruolo invadente delle Fondazioni, nè il ruolo delle Fondazioni in sè: spiace che si possa e debba fare giusta dietrologia a fronte dei profitti e dei ritorni economici messi in campo, e soprattutto che questi non siano ritorni che avvantaggiano realmente l'ente pubblico, la collettività diremo, sancendo invece un'egemonia del denaro sulle scelte artistiche, svuotando spesso tali scelte di contenuti a favore della forma. Dispiace che l'ente pubblico sia costretto ad affidarsi obbligatoriamente al privato e non possa, per carenza di capacità, volontà o possibilità contrattuale, svolgere indirizzi autonomi. Spiace poi che il privato scelga e ribadisca il ruolo di ulteriori privati, i vari curatori o direttori, che specie in un mondo autoreferenziale qual'è quello dell'arte, approffittano del potere indiretto che hanno per incrementare il proprio orgoglio e la propria ambizione, che è spesso paritetica ad una pochezza etica proprio verso la "cosa pubblica". Si crea una specie di matrioska, tante scatole vuote che proteggono forme vuote, sino a ridursi nel nucleo all'oggetto di per se stesso, trascurando il fine vero, che è la crescita di un popolo, della sua consapevolezza. E così: Sgarbi accusa, Bonami accusa, Trussardi accusa e noi paghiamo. E non solo in termini monetari, bensì formativi.

(nella foto un'opera d'arte concettuale firmata dai miei muratori, idraulici ed elettricisti, dal titolo: Angolo cottura)

venerdì 3 giugno 2011

Cose che non mi piacciono

1° cosa: Venezia, 31 maggio 2011. A Punta della Dogana, nel museo d'arte contemporanea, gli studenti dello IUAV possono incontrare l'architetto giapponese Tadao Ando, uno dei maestri contemporanei, che proprio gli spazi della Dogana ha restaurato alcuni anni orsono. Partecipo a questo incontro, nella speranza che vi sia uno scambio di comunicazioni tra il professionista Ando e gli studenti, che di esperienze formative oggi più che mai hanno bisogno. L'incontro si tradurrà nella semplice dedica da parte dell'architetto giapponese delle monografie pubblicate in Italia sulla sua opera. Nessuno degli studenti (parecchi in realtà) accenna nemmeno l'interesse a fare delle domande all'autore, assiepandosi invece alla cassa per acquistare volumi costosissimi da farsi autografare (che poi io alla loro età tutti sti denari che ora gli studenti tranquillamente ostentano mica li avevo). Anch'io infine compro un volumetto da 10,00 euro e mi faccio fare lo schizzo autografo. Ando è sempre stato un architetto che ho stimato molto, un vero punto di riferimento. Ho sempre adorato la spiritualità che traspare dietro quei suoi muri in cemento lisciato, dietro l'uso della luce naturale che penetra negli spazi e li definisce. Ho sempre adorato quest'uso del muro costruito come atto di separazione netta tra edificato e paesaggio e al contempo come elemento di unione per il rimando del tutto mentale a ciò che nasconde e con il quale cerca un'ideale continuità. Ando fa architettura vera e lo fa con strumenti fisici possenti, ma completamente depotenziati nella loro collocazione nel paesaggio. Mentre alcune ragazze lo fotografano come fosse un cosplayer, dicendo "che carino!!!", l'autore sviluppa le sue dediche quasi fossero il frutto di una catena di montaggio, consegnando a ciascuno abbia dinanzi un volume accompagnandolo con un sonoro "HI!". Molto scenografico, molto samurai, molto teatrale. Provo a rompere il ghiaccio e a dare un senso all'incontro. Chiedo al suo assistente e traduttore (austero, quanto simpatico) se posso fare una domanda al "maestro". Mi risponde in inglese con un secco: "Non penso proprio!". Mi arrendo e mi metto nelle retrovie del gruppo dei fans. Guardo Tadao Ando, che chiede all'assistente del bookshop di scartare tutti i volumi a disposizione nel punto vendita, perché vuole dedicarli tutti, indipendentemente se qualcuno li compri o meno. Penso al ritorno commerciale di quell'operazione, a come autografare quei volumi significhi renderne impossibile la resa al distributore, portare all'esaurimento una tiratura. Ando è lì con la sua spiritualità e la sua cultura a fare il venditore porta a porta. Nel guardarlo ancora, un attimo prima di uscire dalla sala e abbandonare il museo, penso che non voglio diventare così. Non sono un grande progettista e nemmeno sarò mai un'archistar, ma ho rispetto per il significato di una professione. Sento infine una ragazza dire: "Che figo! Fare soldi solo per fare degli scarabocchi!". Ecco, appunto!
2° cosa: Aprono nel centro cittadino della mia città, in pieno centro storico una sala da gioco (slot machine e simili), un piccolo casinò, come viene presentato. Per pubblicizzarne l'inaugurazione, i titolari mandano in strada una quindicina di ragazze in divisa blu attillata, minigonna e calze a rete; tutte ragazze slovene, giovanissime, che solo in parte conoscono l'italiano, che si muovono in gruppo, si fanno apostrofare dai passanti, ridono beate dell'atteggiamento dei ragazzi più giovani e dei vecchi bavosi (ma travestiti da signori borghesi, cordiali, che si danno nell'occasione al baciamano o alla battuta sopraffina). Se volete chiamarmi moralista, bene lo accetto, ma a me che queste ragazze godano di questa loro situazione e che ciò costituisca pure un motivo di lavoro, a pubblicizzare poi quello che niente è se non una pericolosa mania (il gioco), a me, da buon moralista non va giù. E che la gente ne provi consapevole entusiasmo, mi fa terrore.
3° cosa: Al TG1 di oggi (03 giugno) delle 13.30, una giornalista (donna), ha commentato, durante un servizio la possibile fuoriuscita dalla direzione de l'Unità di Concita de Gregorio, conseguentemente a dei presunti cali di vendita che il servizio sottolinea, richiamando anche alcune fonti. Nel farlo ha sottolineato che probabilmente saranno alcuni colleghi (uomini) a succederle, interrogandosi quindi: "Chi si accollerà ora l'onere di rimettere i pantaloni al l'Unità?". Ecco, le "quote rosa" appunto!
4° cosa: Non mi piace che tutte le parole, oggi, appaiano come parole al vento!

P.S. La foto di Ando me l'ha mandata uno studente, si chiama Antonio e, pur non conoscendolo per nulla, lo ringrazio. Inoltre. Oggi non avrei voluto parlare di tutto questo, ma ieri (2 giugno) era anche il trentesimo anniversario dalla morte in un incidente stradale di Rino Gaetano. Mi ricordo la tristezza immensa che provai da ragazzo, nel sentire la notizia, mentre in auto con i miei, tornando da Ravenna, ascoltavamo l'autoradio, all'altezza del ponte lagunare di Chioggia. Adoravo Rino Gaetano e lo ascolto ancora di continuo. Le sue sembravano parole al vento, surreali, inutili, e invece non lo erano per nulla.