domenica 28 luglio 2013

Nostalghia al potere!

Nel gennaio 2012 assieme a Walter Chendi ho pubblicato un volume dal titolo SessantaQauranta. Chi legge queste pagine lo sa forse già. Conteneva dei racconti, miei e di Walter, alternati o disposti a piccoli gruppi; numericamente maggiori i suoi, un pò più voluminosi i miei (non sempre). Ho riletto i miei in questi giorni, non so bene perché. Forse perché ho cominciato a scriverne degli altri e non pensavo che l'avrei più fatto; forse perché temevo di poter ripetere alcuni spunti e quindi avevo l'esigenza di ricordare meglio le cose. Guarda caso, non mi sono dispiaciuti. E' cosa strana, poiché sono sempre insoddisfatto di queste cose mie sedimentatesi in giro e poi perse di vista. Ho potuto, a posteriori e con la "giusta distanza, fare alcune riflessioni di condivisione. Sono racconti iniziati e svolti alla partenza di una crisi economica importante e inevitabilmente nel loro svolgimento e nei contenuti risentono di quel clima. Ma appare ancora più evidente oggi, piuttosto che allora, la mia consapevolezza nel voler scrivere di quanto quella crisi risultasse di matrice culturale, prima ancora che esclusivamente economica. Crisi etica, crisi di idee e di contenuti. Sono stati infatti anni di ristampe letterarie, di recuperi, di sguardi all'indietro; di un nostalgico senso di perdita e quindi di una esasperata esigenza di calarsi nel dolce dondolio (la dolce ambrosia) che sa regalarci a volte il passato. E' un vuoto che crea ulteriori carenze e certamente mi appare oggi questa la causa principe di una ripartenza auspicata, ma difficile da determinare. L'attesa può risultare quindi infinita; l'attesa porta a demandare e rimandare, giorno dopo giorno. Dicevo dei racconti. Mi è capitato di recente tra le mani un libro solo sfogliato finora, Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice. Ho letto altre cose di quell'autore, ma chissà perché, pur avendolo in casa, quel libro non l'avevo mai frequentato veramente. Quel libro oggi mi ha entusiasmato per la sua intensa brevità. Nel rileggere i miei racconti credo che avessi in mente di poter scrivere un libro così, mezzo saggio, mezzo narrazione, mezza rilettura biografica di un proprio percorso intellettuale. Si badi bene, e che sia chiaro, non sto facendo paragoni; Daniele del Giudice è un autore così immenso che ogni paragone letterario delle mie cose con le sue risulterebbe non solo inadeguato, ma oserei dire meritevole del pubblico ludibrio. Non alludo infatti a questo; volevo solo sottolineare uno spirito che ha mosso la scrittura, il senso della ricerca su cui si fonda. Parallelamente è uscito quest'anno, alcuni mesi fa, per Einaudi un testo di Mario Vargas Llosa (Nobel per la letteratura 2010), dal titolo La civiltà dello spettacolo. L'autore, qui nella veste di saggista, si interroga sulla contemporaneità, e pone alla fine una utile domanda sul nuovo significato assunto dalla parola cultura, a fronte di come questo termine sia andato banalizzandosi, sino a divenire pallida imitazione di ciò che i nostri genitori e nonni intendevano con quella parola. Scrive Francesco Magris in un bell'articolo su questo volume: "Vargas Llosa parla (...) della cultura, di come essa negli ultimi anni abbia cambiato radicalmente natura nello spazio vitale della società contemporanea. Da vettore di esperienze intellettuali che richiedono l'attivazione del dialogo fecondo fra autore e fruitore, essa si è tramutata in una pura forma di intrattenimento: chi ne fa uso cerca solo il piacere tanto immediato quanto effimero che lo conduca alla distrazione da un mondo in cui la complessità è fonte di paura e incertezza; non si tratta di una cultura nel senso di straniamento (...) ma di una forma di droga somministrata a dosi massicce e regolari per ammansuire ogni forma di dissenso". Magris centra in pieno il senso della crisi culturale a cui prima intendevo riferirmi. Anche la parola "droga", qui usata, mi sembra opportuna. Nel mio racconto L'inutile banalità, il personaggio principale, Guido, viveva uno stato di impotenza dinanzi alla contemporaneità, alla cultura per come viene ancora oggi intesa. Nel racconto scrissi: "Guido credeva nella cultura come strumento di crescita etica: mai aveva confuso la cultura con l'intrattenimento. Il suo lavoro sintetizzava un pensiero, una visione del mondo e dello stare al mondo che richiedeva convinzione e che pretendeva attenzione. Era un atto critico, politico, partecipativo." Guido nel racconto era un attore e scrittore per il teatro: "Era un mestiere che non doveva cedere alla mercificazione, assecondando i venditori del vuoto, i comunicatori, coloro che pretendono di trasformare ogni contenitore in contenuto, indipendentemente. Sia ben chiaro, ribadiva spesso Guido, non vi è nulla di male in ciò, ma la cosa va dichiarata. Basta essere chiari, essere onesti: una politica culturale non va mai confusa con una politica del tempo libero. Guido diceva, immedesimandosi nello spettatore che avrebbe voluto avere: -Non posso accettare di pagare un biglietto solo perché qualcuno mi faccia dimenticare per alcune ore che dovrò morire!-". In quei racconti, inoltre, la droga appariva spesso tra le righe, la droga vera (l'eroina), di cui alcuni dei personaggi erano assidui falsi-pentiti fruitori. In quei racconti si richiamavano gli anni Ottanta e ad alcune vicende cresciute con essi. Ma la droga era anche una buona rappresentazione dell'oblio culturale a cui con facilità accettiamo anche oggi di prostrarci (di false egemonie culturali e vere strategie commerciali già scrissi in queste pagine nei mesi scorsi). Mi scuso per aver richiamato qui alcune delle mie cose scritte, per averle accostate (si badi non paragonate) ai maestri qui citati, ma mi andava di farlo ed è venuto così senza pretestuosità. Da queste riflessioni, da questi recuperi, dalla voglia di scrivere forse ancora delle cose, mi è sorta l'opportunità di porre qui in elenco alcune citazioni. Spunti, declinazioni per nuovi percorsi, fili ancora non tesi per possibili ricerche. Ve le propongo, perché si possa fare riflessioni nuove intorno alle future ricerche che sarebbe utile avanzare. Non amo il citazionismo, ma prima del collante vengono i frammenti. Quindi. Banksy in una sua opera non murale: "In the future everyone will be anonymous for 15 minutes"; Diane Vreeland, dalla rubrica We dont'you su Harper's Bazaar (dei tempi che furono): "Perché non dipingete le pareti della camera di vostro figlio con delle mappe del mondo, così da evitare che diventi un provinciale?"; ancora Diane Vreeland: "Morirò giovane! A 80-90 anni, ma sarò giovane!"; Paolo Sorrentino ne La grande bellezza (mi pare suonasse così): "Non trascuriamo la nostalgia; è un modo per superare la diffidenza verso il futuro!"; Theodor Adorno: "Le utopie si realizzano sempre, ma diventano banalità"; Sabrina Ferilli (un messaggio su twitter ripreso poi da qualche parte): "Io parto da un presupposto limpido. Chi è a posto con se stesso, non teme un cazzo!". Un bambino al suo papà, in un bar: "Facciamo Rock'n Roll!" Non vi pare un mondo fantastico, fatto di nostalgia al potere, malinconia soffocante ed esasperante imitazione del già visto. Per crescere, senza rinunciare a restare nani.