lunedì 31 dicembre 2018

Fine anno che trovi e nuovo anno che lasci


Che l'ultimo giorno dell'anno sia un momento di riflessione nostalgica, di dura volontà di superamento e anche, certo, di rinnovata speranza è innegabile. C'è tra le righe anche un pò di timore, per come potrebbe evolvere tutto quello che abbiamo attorno nel prossimo anno che sarà. Rescriminazioni, scarsa disponibilità alla tolleranza, e quello che Loredana Lipperini, nel suo saggio per l'ottimo catalogo che accompagna la mostra dedicata dal Maxxi di Roma a Zerocalcare, definisce "il populismo del rancore quotidiano" (frase dello stesso Zerocalcare). Quell'"intrecciarsi schizofrenico fra l'emergere di una cultura integrata su scala planetaria, che chiederebbe un governo sovranazionale, mondiale dei processi - sempre la Lipperini - e lo scatenarsi anche sanguinoso dei particolarismi, dei localismi, dei tribalismi, con l'immancabile e triste codazzo delle xenofobie e delle infamie antisemite. In questo quadro si comprende che è la stessa nozione di 'futuro', una nozione chiave della modernità, sulla quale si basava in larghissima misura la fantascienza, a dissolversi". Ecco che giustamente Lipperini cita lo stesso Zerocalcare, da una sua storia, nel commentare lo slogan punk del 'No Future': "...Mi sono fidato quando ci hanno detto che ci avevano rubato il futuro. E invece il futuro è arrivato". Ecco, il futuro arriva sempre, ma che poi sia un bene non è detto, almeno sino all'ultimo. Guardo quindi un po' ai mesi passati e cito a caso, dal mucchio delle cose possibili, quelle che mi sono parse interessanti e meritevoli, sempre ovviamente con l'occhio rivolto alle mie passioni. Nel farlo va subito fatta una premessa: le "cose" sono sempre di più e spesso la qualità è molto alta sul piano tecnico e professionale, ma proprio per tale motivo sono questi ultimi gli aspetti che appaiono meno interessanti da affrontare. Meglio guardare ai temi dietro la superficie, ai contenuti che appaiono coerenti con una visione, che i tempi ci costringono a voler pretendere essere etici.
In queste pagine ho già ricordato con lode il Jonas Fink finale della trilogia di Vittorio Gardino, e anche il Romanzo esplicito di Fumettibrutti. Vorrei ora citare il lavoro di quella che considero la migliore illustratrice della nuova generazione, proveniente dalle pagine del collettivo Delebile e ormai fissa presenza sulle migliori testate mondiali, ovvero Bianca Bagnarelli. Con un  tratto molto colto, ripreso forse da Cris Ware (Building Stories), forse dal senso profondo del lavoro di Raymond Carver o Alice Munro. In questo fine anno il suo lavoro si può scorgere a commento delle pagine del volumetto Crooner di Kazuo Ishiguro, edito da Einaudi. Fondamentale, e per me miglior Graphic Novel dell'anno, arriva in questa fine 2018 anche Ariston di Sara Colaone e Luca de Santis, edito da Oblomov. "La Storia, un affare di donne", sottolinea Francesco Satta nella postfazione al volume, riprendendo anche una frase di Tina Anselmi: "Una donna che riesce, riesce per tutte le altre". Un splendido viaggio, quello degli autori, nell'importanza della 'scelta' e del "femminile", come auspicabile guida del destino del mondo. Ancora, dalla splendida cura editoriale di Bao Publishing, un bel volume di Elisa Macellari, Papaja Salad. Un'illustratrice si dedica al fumetto e regala un viaggio all'interno di culture e storie che conosciamo poco. Imperfetto, e per questo interessante. Dopo tre donne, un autore maschio, la cui esibita, discutibile e discussa misoginia (insistita e a volte una specie di firma autoriale), ci accompagna direttamente nella Storia del fumetto internazionale: Robert Crumb. Comicon Edizioni pubblica in un unico volume i tre numeri di Art & Beauty Magazine, dove i disegni troppo perfetti (tratti a volte da fotografie ricopiate, spesso rivisitate per deformare i corpi nella "tipica donna alla Crumb"), tracciati con l'evoluzione della tecnica scribble scribble, propria dell'autore, dimostrano la grandezza del padre dell'underground americano. Un volume magnifico, da restarci secchi nell'immaginare l'autore al tavolo da lavoro a tracciare maniacalmente i suoi segni. Vorrei citare ancora un autore, uno scrittore questa volta, che si è imbarcato in una vicenda editoriale complessa e enorme, quella di raccontare in tre romanzi la documentata vicenda storica e umana di Benito Mussolini. L'autore è Antonio Scurati e il volume M. Il figlio del secolo. Il libro non merita di essere letto, ma va obbligatoriamente letto, perché deve restare sempre chiaro nella testa di ciascuno, quale è il percorso culturale e il substrato sociale che produce certi "fenomeni" storici. A volte la democrazia, quando è minata dalla malafede o alimentata dall'ignoranza, produce il suo opposto. E vi è sempre qualcuno disposto ad approfittarne. Vorrei infine menzionare alcune canzoni, che mi accorgo coltivano bene il senso di questo post. Consiglierei l'ascolto attento di Post Concerto dei Coma_Cose. Li adoro quando recitano, quasi come in una sequenza fotografica fatta di concetti espressi a parole: "E i bicchieri abbandonati/ Sanno come ci si sente/ Ad essere come diamanti/ Invisibili alla gente". Oppure: "Ho ancora voglia di combattere/ Garibaldi aveva solo mille followers". E infine la grande Francesca Michelin, con la sua importante Bolivia "È l’umanità che fa la differenza/ Portami in Bolivia per cambiare testa/ Portami in Bolivia per cambiare tutto/ Spegnerò il telefono/ Sarò libera e indipendente/...Non ho bisogno di niente". E ancora: "Ma se vuoi puoi salvarmi dall’umidità della pioggia più insistente / Che entra nelle ossa della gente/ Che si lamenta sempre/ Che mangia male e crede a ciò che legge". Esatto. Uscite da questo blog, uscite da tutti i post ecc., parlate con le persone che avete vicino e con quelli che non conoscete. Capite le cose, capite la gente e non credete a ciò che leggete. Buon anno di indipendenza mediatica e culturale!
   

martedì 25 dicembre 2018

Molto, molto cordialmente

Mentre mi rigiro nei pensieri appannati del giorno di festa, mi arriva la notizia che è scomparsa, ieri 24 dicembre, Grazia Nidasio.
La cosa mi procura un fastidio enorme, perché ho stimato l'autrice, la disegnatrice, la persona. Con quest'ultima ci siamo anche scambiati alcune lettere nella prima metà degli anni 2000, perché con l'Associazione ARTeFUMETTO, che allora presiedevo, vi era la volontà di fare delle cose con l'autrice.
Quelle lettere (con gli indirizzi tagliati e incollati) parlavano il linguaggio dei suoi libri, quello di "ragazze" consapevoli e autorevoli. Non riuscimmo, poi, a portare a termine il progetto, perché altre cose si accavallarono, allora, Giardino, Cavazzano, poi Pazienza e poi Gipi. Mi restano ora, quelle lettere, dove l'autrice mi sottolineava che, comunque, mai avrebbe presenziato ai nostri eventi a lei dedicati, poiché, come scriveva "...ho pensato che, invecchiando, ciascuno si guadagni un certo diritto al ritorno della naturale timidezza". 
Resto qui, nel giorno di Natale 2018, a contemplare quelle parole, che potrebbero essere di monito per molti e forse di indirizzo.
La saluto, la signora Nidasio, come faceva lei "...molto, molto, cordialmente."


domenica 23 dicembre 2018

Ragioni che non vorrei avere

Alcuni anni fa pubblicai assieme all'amico Walter Chendi un volume di racconti. Si chiamava "SessantaQuaranta". Il libro conteneva dei testi di Walter e miei, mescolati con il solo criterio di parlare un linguaggio comune, quello della memoria, non autobiografica, ma collettiva. I miei racconti furono definiti allora "il lato oscuro del volume", ovvero la quota parte più propensa a scavare nel "buio" dell'animo umano. Uno dei temi principali affrontati tra le righe era quello della dipendenza, psicologica in alcuni casi e reale in altri, con riferimento esplicito all'uso della droga. Il libro usciva nel gennaio 2012 e, durante le presentazioni pubbliche, mi fu molto spesso sottolineato che stavo affrontando un aspetto della società forse superato dagli eventi, ormai sotto controllo e di certo non affrontabile per come andavo proponendolo. Mi ricordo ancora oggi che qualcuno storse il naso di fronte all'argomento "sgradevole", mentre io asserivo che la crisi economica che stavamo affrontando in quel momento (non superata nemmeno oggi, ma di certo la situazione non è quella tragica di quei giorni) rappresentava un terreno fertile per ridefinire un ruolo centrale all'argomento dipendenza.
Oggi, circa sette anni dopo, la cronaca e le statistiche rilvelano che la questione droga rappresenta uno dei problemi centrali della nostra società, in particolare tra le giovani generazioni. Lo dicono i sindaci nei loro discorsi di fine anno, gli esperti, la società civile. Nel confronto a scuola, dove a volte collaboro per dei laboratori, emerge molto chiaramente una certa preoccupazione tra i ragazzi che vedono nei loro coetanei farsi largo, incontrollata, la dipendenza dagli stupefacenti e dall'alcool (si badi bene, ragazzi preoccupati per altri ragazzi di fronte alla questione droga e alcool e non della questione "stranieri" e "migranti", sempre presente, invece, in prima pagina sui quotidiani). 
Vorrei qui, però, riprendere le parole di Riccardo Gatti, direttore del dipartimento Dipendenze dell'ASL di Milano, che in un articolo pubblicato di recente su Rolling Stone italiano ricorda: "Oggi le auto vanno a 200 all'ora e i telefonini hanno giga illimitati, lo stesso vale per la droga. Oltretutto gli acquirenti sono gli stessi, visto che ormai il consumo è uscito dal ristretto ambito della devianza"; e aggiunge: "Siamo di fronte a un vuoto culturale simile a quello del passaggio dalla società contadina a quella industriale. Allora Pasolini preconizzava il trionfo dell'eroina, e così fu. Sta capitando di nuovo, ma siccome oggi il mondo è variegato ci sono più sostanze a prometterci di colmare l'abisso".
Insomma ecco qui, la droga come cartina di tornasole di una condizione di malessere, dell'incapacità di esaminare e trovare la quadra in una società complessa e non semplice rappresentazione di un fenomeno a sè. Era così nel 2012, anche se non si voleva ammetterlo, ed è così tanto più oggi. Ce lo dice quello che abbiamo attorno da più di un mese oramai, mentre scateniamo le nostre povertà più recondite sul Natale.
(nella foto: un albero di Natale in stazione a Milano, acompagnato da un cartello pubblicitario dove Pasolini si rivolta nella tomba, sovrastato dall'evoluzione dei tempi)

domenica 11 novembre 2018

Lucca Comics ecc. e il fumetto

Partiamo dalla fine. Il miglior fumetto visto in giro è di Josephine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti. Il suo Romanzo esplicito si racconta riprendendo un linguaggio narrativo che ricorda per ispirazione il Poema a fumetti di Dino Buzzati, con dei contenuti che starebbero bene tra le parole di Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (Postoristoro!!!). E le parole che l'autrice usa, per  come le compone, appare non solo originale, ma anche inusuale, capace di offrire un effetto spesso straniante. Un piccolo fumetto (molto piccolo nella forma, ma non nella sostanza), con potenzialità enormi, tra l'altro sostenuto dalla forza comunicativa, del tutto voyeuristica, derivante dai temi espliciti che hanno reso conosciuta l'autrice, nonché dal suo non rinunciare a mettersi continuamente in gioco in prima persona. 
Fumettibrutti con Silvia Ziche sul palco a Lucca per Feltrinelli
Arrivo a Lucca dopo aver letto questo fumetto e lascio Lucca senza averne trovato uno migliore. Punto, fine della premessa.
Lucca 2018 è stata la dimostrazione del peso commerciale assunto dal prodotto fumetto dopo alcuni anni di attenzione mediatica attorno ad esso. Fumetto (fumetto?!?) dovunque e ovunque. A ciascuno il suo. Chi non ne capisce, oggi, forse si sente un pò escluso, come trovarsi in un bar alla domenica pomeriggio e non conoscere il significato del termine "calcio". Alcuni, presi da quest'ansia di sapere, si redimono, dopo aver sputtanato per anni il fumetto "come cose per bambini/ragazzi" e si danno una nuova veste intellettuale attorno ad esso. Alcuni non mollano e rimarcano la loro distanza, perché se lo fanno tutti allora forse è un bene distinguersi. E quindi è tutto un far chiacchiere di arte minore e maggiore o disquisire della difficoltà personale di correlare immagini e parole (ma pensa un pò!!). 
Sono stato a Lucca per sentirmi raccontare i fumetti, per acquistarli e per discuterne con altri appassionati o esperti. Che poi mi trovi di continuo a presenziare a spettacoli, proiezioni, incontri, dove il fumetto viene inserito in contesti "crossmediali" (cavolo, sta' parola piace a tutti, sembra come quando da bambini potevamo finalmente dire m...a senza vergogna!), questo è una altro paio di maniche. 
Kobane Calling di Zerocalcare ripreso a teatro
Lo Stato Sociale a Lucca per Feltrinelli Comics
"Carota" fa il verso a Recchioni sul palco de Il Giglio
Matsumoto disegna se stesso alla fine dello showcase musicale
Tutta sta' cosa che il fumetto si porta sulle spalle mi pare un pò svilire la capacità del medium di sapersi esprimere benissimo con voce propria, con un linguaggio preciso e autonomo, di sintesi precisa e declinazioni infinite. Forse a guardarsi indietro è sempre stato così, tutto parte dal connubio tra immagini e parole, dal racconto, dalle storie e poi il contesto si fa parassita, per trovare strade ritenute "maggiori", ma che in fondo, invece, sono solo la brutta copia dell'originale. Infine anche la ricerca della dedica disegnata (me la fai sul libro, me la fai sul foglio...!!), dell'autografo come prassi abituale e insistita, legata all'acquisto dei volumi, mi pare qualcosa di strumentale e ormai del tutto estranea all'interesse verso la cosa in sé, che poi sarebbe possedere un libro per leggerlo, con il fine di immergersi dentro una storia raccontata e quindi poter evadere dalla realtà, oppure caderci dentro fino in fondo (vedi Fumettibrutti). 
In fila per dei biglietti a mattina presto
Muoversi dentro i padiglioni di Lucca, tra gli stand, frequentare gli incontri è per i suddetti motivi entusiasmante, ma allo stesso tempo in parte frustrante. Soltanto quando vedo tra la folla (immensa) alcuni gruppi di ragazzi comprare un fumetto e sedersi sul cordolo di un marciapiede o sui gradini di una chiesa lucchese e quindi leggerlo con voracità assoluta, condividerlo, discuterlo, scambiarselo, allora mi ricordo come era realmente per me (per noi) anni fa: una passione vera, un fuoco che ti brucia dentro, senza tante parole, senza tanti discorsi. Un fuoco. Esattamente quello. Oggi forse, per i più, non pare più così e, sinceramente, se del fumetto se ne parli alla televisione o in prima pagina sui quotidiani nazionali, a me non importa più di tanto, da lettore intendo. A volte, frequentare Lucca è come partecipare ad una convention partitica..."quelli che votano il fumetto!!"..., esaltati nel sentirne parlare bene, aggressivi percependo che ne stanno parlando male. E' un'ideologia. A Lucca è come essere dentro un vortice di voci inistite degli editori, degli operatori, dei critici (pochi), dei nerd, un vortice che annienta continuamente la cosa in sè, quella per cui siamo stati tutti lì, l'oggetto finale, il prodotto finito, non quello commerciale, ma il contenitore dei contenuti: il giornaletto, oggi diventato libro. In questa baraonda di sensazioni, tra le file (lunghissime) per andare di qui o di là, alla fine veder disegnare dal vivo Leiji Matsumoto, incontrare insieme Neal Adams, Walter Simonson e Arthur Adams, oppure stare lì a fare un giro in mostra con Neal Adams come cicerone delle sue tavole, appare come un'esperienza "normale", mentre in altri momenti sarebbe stata un'occasione "unica". 
Josè Munoz, Neal Adams e Matsumoto sul palco de Il Giglio
Neal Adams e Water Simonson a fine incontro
Movan e Cebulski chiacchierano di fumetto
Neal Adams ci racconta le sue tavole
Tutti a Lucca, quindi, con la sensazione che nessuno si stia godendo realmente il momento, pensando a qualcosa che è successo subito prima o potrebbe venire subito dopo. Il presente è lasciato allo scatto di una foto, che archivia l'istante e lo rende di fatto indifferente, amplificato a volte (spesso) tra le pagine evanescenti dei social. Tutta l'esperienza lucchese  mi pare venga ormai vissuta dai più come un grande gioco, anch'esso in fondo virtuale, dimentichi di come alla fine si sia andati lì per scoprire le mani, quelle che lavorano su di un foglio bianco e come sempre fanno da tramite ai pensieri. A quelle rendo qui di seguito omaggio.
Le mani di Barbara Baldi e il suo phon (genius!)
Le mani di Giorgio Cavazzano
Le mani di Charles Forman
Le mani di Faith Erin Hicks
Il braccio tatuato di Skottie Young
Le mani di Fumettibrutti
Le mani di Junji Ito
Le mani di Liz Climo
Le mani di Trevor Hairsine
Le mani di Mikio Ikemoto
Le mani di Jm Ken Nimura
Le mani di Walter Simonson
Le mani di Paolo Eleuteri Serpieri
Le mani di Leiji Matsumoto
Le mani di Arthur Adams
Le mani di Ronan Toulhoat

Le mani di Thomas Campi
Mentre fuori si continua  a parlare, parlare, parlare..., se ne restano là da sole, ora, queste mani, di nuovo lontane dai riflettori, operose e a volte venate, nella solitudine di una stanza, da un simpatica "tristezza".

venerdì 17 agosto 2018

Spingo e tiro

Ancora Genova. Ancora Genova come punto di svolta mentale. Come nel 2001 (il G8 e quello che ne conseguì), nel 2014 (la presa di coscienza sul rischio idrogeologico) e ora il crollo del ponte Morandi. Tutte le spiegazioni di queste ore appaiono interessanti. Molti assumoro il ruolo di strutturisti della parola. Molti cercano spiegazioni tecniche e politiche. Che i ponti possano crollare personalmente non mi meraviglia, il cemento armato nasce per garantire resistenze meccaniche importanti, ma la resistenza non è resilienza. Questa è la premessa. Potremmo, recuperando alcuni aspetti della cultura tecnica che aiuta a prefigurare i progetti architettonici e alcuni fondamenti della cultura del restauro praticata da me per molti anni, provare a porre in questa sede un'istanza. Posta una sezione in calcestruzzo armato resistente, come viene raggunta la condizione di rottura (la condizione ultima, di collasso), valutandone per tensioni normali la sicurezza nei confini degli Stati Limite di Esercizio? Prima di tutto dobbiamo porre dei limiti al campo di analisi, tralasciando per la sezione il contributo del calcestruzzo soggetto a trazione (quota comunque esistente in realtà); quindi valutare, a premessa, una perfetta aderenza tra le barre di acciaio e il cls che le avvolge; infine ipotizzare nell'analisi la conservazione delle sezioni piane. Premesso ciò, la rottura avviene per raggiungimento delle deformazioni limite del cls compresso o della dilatazione massima dell'acciaio teso (semplificando). Operando in campo elastico/plastico andranno richiamate le deformazioni e non le sole tensioni. Individuata una specifica configurazione di rottura in termini di deformazione, la rottura può venire espressa nei termini di una coppia di valori (di sollecitazioni) di sforzo normale e di momento flettente, che agiscono contemporaneamente nella sezione. Ad ogni configurazione si lega dunque un valore di rotazione della sezione considerata, con determinazione del cosidetto asse neutro di equilibrio (della profondità/posizione di questo rispetto la sezione in c.a. verificata) e definizione della configurazione di rottura. Ogni altra configurazione deformata per la sezione porterebbe al superamento della massima deformazione ammissibile nel calcestruzzo o nell'acciaio. Questo è ovviamente solo l'inizio. In breve la cosa funziona così: assumo un carico, determino le sollecitazioni provocate e massime ammissibili, se supero questa ultimo valore le reazioni espresse dalla sezione resistente non sono più sufficienti e quindi: CRACKK!!! Tutto reso molto terra terra, perché poi vi è un mondo di analisi, di ricerca esperienziale, probabilistica, di conoscenze che non posso e non provo nemmeno a richiamare in questo contesto. Vista la premessa, parlarne al bar o al TG mi pare alquanto fuorviante. Per dirla con parole povere: il ponte resiste fino a quando può. Se si vuole incrementare le sue possibilità in tal senso, si dovrà inevitabilmente intervenire su di esso. Un ponte si deforma, operando nel campo dei valori limite e quindi delle resistenze meccaniche progettate o residue. Un ponte resiste per contrapposizione. Resistere è un termine che deriva dal latino, da RE, addietro, e SISTERE, fermarsi: io sono fermo (sulle mie posizioni) e mi contrappongo, contrasto, fronteggio, mantengo una "passività apparente, ma attiva". Resiliente non ha una risultante etimologica altrettanto lineare. Possiamo farla derivare dal latino RESILIENS, per il quale l'espressione che meglio ci aiuta a comprenderne il senso è la forma gergale "mi rimbalza" (qualcosa, una parola, o una azione). Insomma una "attività apparentemente passiva". Quando un ponte crolla ci si rende conto che il resistere non sempre basta, o perlomeno non basta resistere contando solo sulle proprie reazioni e capacità intrinseche. A volte non sono sufficienti nemmeno le idee. Per cui vale di certo il discorso della manutenzione, ma vale anche di più quello dell'aggiunta intelligente, del puntello o del tirante integrato (in fondo è sempre un discorso di appoggiare e di tirare; di sopperire a delle mancanze, non avendo paura di inserire una stampella, di perdere parte della composizione formale o "ideale" originaria). "Resistere" è inevitabilmente anche capacità di mutare, di modificare le proprie strategie e anche il proprio modo di affrontare chi si pone dinanzi. Forse stare fermi e non arretrare non è più sufficiente. Giorni fa ho ascoltato con interesse, a margine di un evento pubblico, l'intervento di un politico (di "sinistra") sottolineare che in un tempo in cui si è ormai abusato del termine "resilienza", sarebbe infine opportuno riparlare di "resistenza", poiché bisognerebbe ritornare ad un comportamento attivo, se si intende superare certe argomentazioni ("le narrazioni") e azioni ("le politiche"), ormai imperanti in questi mesi. Un ponte crolla anche laddove resiste. Forse la contrapposizione senza arretramenti (di pensiero) non è più sufficiente a determinare reazioni adeguate. Il concetto di resilienza (e qui ha ragione il politico, secondo me) è abusato nel senso. Un termine (uno slogan) NON è (non lo è più) sufficiente di per sè a generare un comportamento politico adeguato. Non è più tempo di scritte sulle magliette e forse nemmeno di striscioni o di bandiere. La modulazione del pensiero aiuta, così come è importante sapere arretrare e accettare di modificare la propria integrità (non etica o morale, ovviamente, ma ideologica) con un nuovo "appoggio" o un nuovo "tirante". Non è trasformismo, ma strategia (culturale e politica). La questione semmai è come e cosa raccontare a chi ascolta per giustificare un proprio comportamentop apparentemente ambiguo, laddove quest'ultimo venisse letto come tale. Di nuovo il problema delle "narrazioni". Resistere per narrazione non sempre funziona (coerenza, malgrado tutto). Resistere per sola reazione non sempre è adeguato (l'ideologia). Contano i fatti, più o meno comunicati che siano (il mito della comunicazione sembra ormai essere anch'esso un sottile palo del semaforo dietro cui è inutile nascondersi). Un ponte non va solo mantenuto (come si tutela l'anziano nelle case di riposo), bensì restaurato (sostenuto). Allora, forse, potrà risultare "durevole", oltre la propria vita utile stimata. Durevole con dignità. Per seguire questo percorso bisogna saper fare però delle rinuncie. La prima all'orgoglio: posso ammettere di avere fatto degli errori, posso accettare di non essere adeguato e quindi di fidarmi di altri, aprirmi alle idee altrui, alle azioni di terzi, di farmi da parte. La seconda al "portafoglio": rinunciare agli interessi diretti, in solido (il soldo) e di posizione. Purtroppo temo sia questa la situazione: i ponti non sono strutture intelligenti, nel senso che non si sostengono di idee, ma di calcoli e materiali. Le persone dovrebbero quindi avere qualche possibilità in più, anche se poi, nello scoprire che sotto certi ponti ci sono le case (dei palazzi condominiali su cui il ponte sembra appoggiarsi), anche questa ultima affermazione, riguardante l'intelligenza intendo, potrebbe lasciare il tempo che trova.
Lorenzo Lotto, Deposizione (particolare), Jesi Pinacoteca
 

domenica 5 agosto 2018

Non necessariamente coerenti...grazie!

In questi mesi, forse come mai prima d'ora, vi è la sensazione di dover porre alla base di ogni riflessione una condizione di appartenenza, sia essa nazionale, identitaria o culturale in genere. Anche generazionale, direi. Ogni discorso ha sempre una premessa non detta (o non scritta), bensì sottesa, che parte da un tacito accordo di condizione tra ascoltatore (lettore) e argomentatore. Ciò non è un bene. Ogni affermazione o pensiero appaiono come svalutati nella loro proposta di ricerca, a favore di un esame di contesto. Tra i contesti possibili: l'appartenenza politica (gli ideali o l'ideologia), la geografia (da dove vengo) e naturalmente la narrazione storica proposta. Oggi è realmente tutto fondato su un confronto (scontro) tra narrazioni molteplici, perlopiù strumentali e funzionali a dei sottopensieri forti. Nell'epoca delle potenzialità infinite di espressione "democratica" (internet) vi è la sensazione di un condizionamento espressivo senza pari; e l'aspetto più inquietante è che esso appare soltanto in minima parte imposto, perlopiù autodeterminato invece, indossato cioè volontariamente a seguito di una sensazione di disagio nel non senrtirsi pienamente accettati culturalmente o adeguati ad una narrazione piuttosto che ad un'altra. Il desiderio più forte (un'esigenza, ormai), quindi, è di incoerenza al contesto e di libertà dal "se stessi", approfittando delle occasioni di sovrapposizione e apertura che ci vengono a volte proposte. Mescolare l'alto con il basso (a ripensarci per me è stato forse sempre così), il chiaro con lo scuro, le passioni di ieri con quelle di oggi, il leggero con il grave (scorgendo il grave dentro il leggero e viceversa) In questa prassi aiuta saper vivere le cose per quello che sono, senza cercare di giustificare ogni scelta o ogni pensiero. Questo lungo preambolo è anch'esso una giustificazione, probabilmente doverosa per far capire a chi legge le motivazioni che mi spingono a parlare di ciò che segue, ma al tempo stesso dimostrazione in solido di quanto vado stigmatizzando. Il messaggio insomma è: godiamoci l'entusiasmo per come arriva, mandando a quel paese la narrazione globale che lo sostiene. Se sapessi affrontare un pensiero verso le cose del mondo con tale "libertà", forse potrei anche superare il pregiudizio con cui guardo ad ogni cosa non mi appartenga: forse potrei anche capirne di più o meglio. Ecco perché nelle mie ricerche personali colgo il meglio, il meglio per me, non in assoluto, e non mi preoccupo di determinare ogni scelta con una razionalità di percorso (non è individualismo, ma rispetto e fiducia del percorso stesso che mi ha portato sin qui). Così non mi meraviglio se la notte del 27 luglio mi trovo a guardare con interesse e fotografare l'eclissi di luna (la più lunga del secolo, pensa un pò!), ma nel scorgerla, mi scopro a pensare solo all'immagine della luna disegnata da Naoki Urosawa in conclusione al suo manga capolavoro Billy Bat (20 volumi pubblicati in Italia dal 2011 ad oggi). 
la luna di Urosawa
Un fumetto per prendere coscienza di come anche i messaggi più retorici trovano un senso dinanzi alle tristi vicende del quotidiano e della Storia. Alla fine il messaggio di Urosawa (e del coproduttore della storia disegnata, Takashi Nagasaki) sembra essere quello della capacità di un "semplice" fumetto stampato (che sia su supporto cartaceo in questo caso non è fattore indifferente) di divenire strumento d'unione tra culture diverse, allorché veicolo di passioni condivise. Senza spoiler sotanziali, tra le tante cose di cui i volumi parlano, un soldato del 2063 perde ogni ragione di esistenza nella brutalità della distruzione totale che la guerra impone, ma trova conforto in quell'unica foto stampata su carta che conserva con cura; "anche se si memorizzano le foto (le mille e mille foto) in un hard disk", staccata la corrente non le puoi più vedere. Nel 2012 con Walter Chendi (autore anch'egli di fumetti) pubblicammo un volume di racconti (SessantaQuaranta, edito da ARTeFUMETTO) con delle premesse simili, e oggi pare che quanto scritto in quel contesto abbia ancora più senso. In sostanza si scriveva: un'immagine scelta criticamente, fissata su carta (la vecchia foto), sa rendere d'istante un piccolo mondo personale che le centinaia di foto digitali archiviate e mai più guardate non riescono a tradurre. La sovrapposizione delle cose (di immagini e di notizie) ci portano a distogliere il pensiero dall'obiettivo primario: non rinunciare mai alla propria umanità. E' questa in fondo anche la storia de "La valigia" di Sergej Dovlatov, che, per essere riempita dei ricordi di una vita, appare sempre troppo grande (anche se all'inizio non lo sapevamo), poiché sono realmente pochi gli oggetti che ci rappresentano e non sappiamo lasciarci indietro. E così, mentre finisco a malincuore Billy Bat, grazie a Dovlatov, ripenso al volume finale della trilogia di Jonas Fink di Vittorio Giardino. L'autore è stato nostro ospite nei mesi scorsi a Ronchi dei Legionari e a Trieste. Nel suo lungo romanzo a fumetti ci ha condotto tra le pieghe della storia contemporanea (la Cecoslovacchia prima e dopo la Primavera di Praga). 
Vittorio Giardino a Ronchi dei Legionari
La storia narrata alla fine parla semplicemente di un uomo, che prima di diventare adulto è stato bambino e quindi ragazzo. Un uomo però posto dinanzi a scelte difficili, quale, ad esempio, pensare alla propria libertà e sopravvivenza oppure combattere per degli ideali. Il mondo del fumetto non è ovviamente la realtà, ma a volte la narrazione è più vera della realtà stessa o perlomeno è più illuminante. Così alla fine la storia di Jonas sembra divenire un'occasione di riflessione su tutte le scuse che un uomo può costruirsi per garantirsi delle fughe dalla realtà. "Uno che scappa", Jonas Fink, ma non ho trovato molti personaggi così umanamente delineati nel fumetto di oggi, tanto che il fumetto di Giardino diventa quasi un saggio per un esame di autocoscienza. E la domanda è: cosa avrei fatto io al suo posto? Quante contraddizioni mi trovo continuamente ad affrontare? Quali sono infine sopportabili? Nel pormi la questione il pensiero va a Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP, ex CSI, ex PGR, oggi "allevatore di cavalli" e cantautore a tratti. Una figura controversa la sua e naturalmente scomoda, perché, come dice lui, "pronta a ragionare con la testa propria". Il tema della coerenza sembra porsi come centrale nel ricordare le sue prese di posizione che ai più sono sembrate contradditorie, specie quando il suo avvicinamento al cattolicesimo ha aperto a gesti e riflessioni discussi ed estremi. "Sempre fedeli alla linea, perché la linea non c'è", ricordiamo. La coerenza nell'incoerenza. La ricerca del prodotto nel continuo rifiuto del prodotto (è stato questo il percorso dei CCCP in fondo). Le sue molte affermazioni recenti: "Mi colpiscono quelli che mettono i cari all'ospizio per dedicarsi al Terzo Mondo".  Ferretti era ad Azzano Decimo (PN), sul palco della Festa della Musica, il 29 luglio. Abbiamo cantato e ballato molto, riascoltando canzoni bellissime, che solo con la sua voce recitante sembrano assumere senso. Da "Morire" ad "Emilia Paranoica", ma anche "Madre" (che dice molto di come l'uomo Ferretti avesse già manifestato artisticamente più volte, in tempi lontani, alcune delle "provocazioni" che saranno poi sottolineate da molti), sino al "salto" collettivo su "Spara Jurij". I CSI (Zamboni, e compagni) sono in tour in Italia con la loro musica splendida, ma senza Ferretti la vicenda CCCP e CSI non esiste, se non nella forma. Manca quella sostanza che l'incoerenza artistica dell'assente solo sa dare. Ho voluto scattare delle foto inquadrando il volto e gli occhi di Ferretti, per rileggere quel "logo" che siglava la copertina di Ko de Mondo, disco pubblicato nel 1994.
Giovanni Lindo Ferretti ad Azzano Decimo
Francesca Michielin a Lignano
E sono nati più o meno in quegli anni, mentre i CSI scrivevano la propria Storia e una parte della Storia della musica italiana, molti degli spettatori, tra i più anziani, presenti tra il pubblico del concerto di Francesca Michielin a Lignano Sabbiadoro (3 agosto). Ho chiesto ad alcuni di coloro che erano ad ascoltare con me Ferretti ad Azzano Decimo di accompagnarmi a Lignano. I loro sguardi imbarazzati (e soprattutto quel loro affermare una distanza "ideologica" da quel mondo musicale che proponevo) hanno alimentato il discorso fatto sin qui sulla coerenza e sulle giustificazioni al proprio pensiero (...la linea non c'è...). Considero Francesca Michielin (nata nel 1995, a proposito), una delle cantanti e autrici più interessanti della scena musicale italiana attuale (chi l'ascolta con attenzione coglie un linguaggio che è inevitabilmente proprio del suo tempo e una apertura musicale molto vasta). Dalle canzoni degli inizi scritte per lei da Elisa Toffoli, sino alla maturazione di una capacità propria, che si traduce durante il concerto in un atteggiamento sul palco di grande consapevolezza e talento (le immagini da me riprese a Lignano colgono sempre una concentrazione e una "distanza" di grande interesse fotografico). Quando il concerto finisce, una parte del pubblico (molti giovanissimi, ovviamente) si avvicina al palco. Lei esce con chitarra e tamburello e regala alcuni pezzi in versione acustica, cantati tra la gente. E' di certo complesso rinunciare alle retoriche con cui affrontiamo strade per noi sicure, rimestando all'infinito parole e linguaggi consueti. Provare a ruotare il foglio che abbiamo dinanzi, guardare la faccia che sta dietro, è un impegno sovrumano oltre che un gesto semplice. In un contesto di narrazioni facili, fatte di "bianco o nero" (alla lettera, direi), ripensare a se stessi dentro una molteplicità di percorsi possibili aiuta a darsi strumenti per affrontare senza pre-giudizi l'attualità. E' un atteggiamento formativo, tutto fatto di esperienze e quindi difficile (o impossibile) da insegnare o restituire a terzi, ma è pur sempre un dovere sociale non più rimandabile.

sabato 14 luglio 2018

Contenitori

Di certo la virtù principale degli italiani (specie quelli che di mestiere fanno i politici...che è poi qualcosa di diverso dal dire che sono politici di mestiere) non sembra essere sicuramente la riservatezza. Ho memoria di anni addietro con persone, soprattutto politici di mestiere o uomini di cultura, che facevano della discrezione un'arma importante del proprio percorso. Tutto questo sembra essersi perduto. Hai qualcosa che ti passa per la testa? Diciamo una strategia politica oppure un'idea importante o anche solo un'idea...bene, prima cosa la si dice a tutto il mondo, poi si ragiona su come "metterla in bella" e quindi portarla (forse) a sostanza. I mezzi aiutano, questi mezzi qui, su cui state leggendo, intendo. E poi i social, ci mancherebbe. Oggi ogni riserbo è sciolto, oggi si comunica. Si comunica chi si è e cosa si fa. Sempre e comunque. Infatti, pare ci si sia resi conto, anche e soprattutto in quel mondo lì, quello della politica intendo, che se fai anche la cosa più straordinaria del mondo, producendo risultati enormi e dall'impatto enorme, ma ti dimentichi di comunicarlo adeguatamente, ogni minuto del santo giorno che ti si pone davanti, il risultato è che poi la gente con il cavolo che ti vota! Al che si pone la questione se poi uno (il politico intendo) faccia le cose per senso civico, per dovere istituzionale o solo per essere votato, ma questo pare già essere un discorso che si colloca su una scala di pensiero più alta. Oggi il percorso è diritto: esisto, comunico che esisto, costruisco le condizioni perchè il fatto che io esista diventi fattore del quale tutti gli altri (i fruitori finali) sentano il bisogno di saperne di più, vengo votato (oppure il mio libro viene comprato, se vogliamo stare nel settore culturale ad esempio). Niente di nuovo, certo, saranno 40 anni che le cose funzionano così (se me lo chiedessero a freddo, quando rifletto su questa cosa penso a Malcolm Mclaren e Vivienne Westwood e al fenomeno punk), ma mi pare che oggi questa cosa si sia portata ad un livello più alto. Si è passato dal ruolo delle televisioni (tra la fine della Prima e l'inizio della cosiddetta Seconda Repubblica e poi a venire) al ruolo di Internet, però lo scalino ulteriore sembra stare non tanto nella gestione del consenso, ma nella gestione della percezione. Vi è una differenza? Secondo me sì e sta principalmente nel rapporto tra contenitore e contenuto. Un rapporto sempre meno diretto, più "evasivo", nel senso che spesso tra contenitore e contenuto non vi è mai una corrispondenza perfetta, perlomeno nel momento in cui la relazione si dovrebbe porre. Per farmi capire è come mettere un libro molto utile e di grande spessore letterario, alto soli 20 cm, in una libreria con lo scaffale alto 50 cm. E' uno spreco, certo, però il libro sembra starci molto comodo e alla fine questa comodità permette anche di sostituirlo quel libro, di trasformarlo in una dispensa più gonfia o più alta, che poi magari può anche avere contenuti più dozzinali o di scarso rilievo, però, insomma ci sta, e alla fine la libreria sembra anche meglio utilizzata. Sembra. Ecco, insomma, la comunicazione permette ciò, permette di passare un pò di polvere sulle cose e farcele sempre vedere in tremila posizioni diverse, tanto che alla fine non so bene nemmeno cosa mi venga mostrato. Però la parte importante del discorso non è tanto quella in cui qualcuno, consapevolmente, opera in questo modo e con questi fini, ma il fatto che alla fine il risultato c'è, ovvero, riprendendo il discorso iniziale, il voto arriva. E allora, c'è da chiedersi, anzi mi chiedo: ma non sarà mica colpa di noi "fruitori" (elettori) se questo meccanismo può esistere e alimentarsi a dismisura? O meglio: non saremo mica noi utenti finali, cioè cittadini votanti, a essere in "errore" (mi scuso, mi esce così, il termine "errore", perché non ne trovo un altro, vorrei dire "colpa", ma la vita è già così complessa che essere vittime più o meno inconsapevoli di una strategia non mi riesce di chiamarla "colpa")? Si badi bene non è comunque un errore di valutazione, nel senso che ciascuno può votare chi crede e promuovere il percorso che crede (benché etico, direi, e comunque nel rispetto dei diritti civili altrui, aggiungerei), ma una mancanza di impegno, di volontà a formare una propria opinione consapevole, di non definirsi soddisfatti del pensiero di chi ci affianca, anche quando è nostro amico o familiare. Insomma, di voler mettersi in gioco sempre, il che appare già, anche solo a scriverlo, una gran fatica, ma resta un viatico inevitabile se volessimo essere certi, sicuri, che il contenitore risulti realmente adeguato al contenuto (e viceversa), ovvero che l'aria che ci circonda non sia semplicemente "aria fritta". E quindi, direte? E quindi sono cavoli di tutti, ma già a prendere coscienza che non è semplice (e di certo non è semplicistico, da risolvere con una chiacchiera da bar, cioè) a me pare un risultato utile.
(foto: particolare da un fumetto di Jordi Bernet, copyright degli aventi diritto)

domenica 3 giugno 2018

Inciampando sulle radici

Se passassimo il nostro tempo a riflettere su quanto gli altri vogliono proporci come importante, finiremmo per perdere la capacità di ragionare sul fuori e sul dentro noi. Andrebbe persa quella capacità di meditazione sul sè, che mi pare invece possa servire ad affrontare con dignità la mediocrità dell'offerta del contesto. Non è una presa di consapevolezza in assenza di modestia, ma un bisogno di porre una distanza con le dinamiche ripetitive che la "questione socio-politica" attuale ci propone. Nei giorni in cui la suddetta questione andava prendendo una piega definitiva, tra richiami contrastanti di difesa e di interpretazione della Costituzione italiana, con salite sugli scudi e attacchi incerti all'operato del Presidente della Repubblica e infine con la nascita di un nuovo governo (tutto da verificare a posteriori nel suo operato e dal cui giudizio è opportuno sottrarsi, benché certe affermazioni, certi comportamenti mediatici mi lascino perplesso, in materia di diritti civili più che nelle scelte programmatiche, direi), io ho fatto un piccolo percorso di ricerca delle mie radici, più per confermarle che per scoprirne di nuove.
Così il 25 maggio ero a Ravenna, con Alessia e Gioia, a sondare la base culturale che ha portato alla costituzione dell'Associazione culturale ETRA, che tra qualche giorno inaugurerà il settimo anno di attività. In questo caso le radici da sodare erano in realtà ancora più profonde, perchè richiamavano proprio alla mia formazione di architetto-conservatore, grazie agli insegnamenti di Nullo (e in forma mediata alla collaborazione con Adriano), nonché al percorso professionale ormai pluriventennale. 
A Ravenna ho incontrato il pensiero e il lavoro di José Ignacio Linazasoro, che con le sue parole ha in realtà confermato una mia attitudine al ripensamento della materia della Storia: quella dell'architettura e quella fisica. Liliana Grassi, Sverre Fehn, Leon Battista Alberti e ovviamente altri. Il non metodo, la cultura della storia, l'intimo intreccio con i materiali della fabbrica quale superamento di una risposta esclusivamente tecnica. Niente di nuovo nel pensiero di Linazasoro, niente di originale, ma una riflessione spesso citazionista di confronto continuo tra cultura umanista e dato fisico.

Il 26 maggio ero a Bologna di passaggio e quindi poi a Roma (sembra un viatico scritto). Le radici qui stanno nelle rovine e nelle fabbriche antiche. Il dato materiale e compositivo del Teatro di Marcello, il suo essere "rovina", nel senso di qualcosa di non finito, continuato e da continuare nella contemporaneità delle epoche successive (castello fortificato, poi palazzo). Il travertino del Teatro di Marcello riutilizzato nella costruzione di Palazzo Venezia (edificio civile, residenza papale, sede istituzionale mussoliniana, oggi polo museale), dove alla sedimentazione dei materiali si sostituisce quella funzionale, evocativa di esperienze e lasciti. La luce che invade la volta del Pantheon, che ispirò inevitabilmente anche il vestibolo a lacunari di Palazzo Venezia (uno dei primi esempi di utilizzo del calcestruzzo seppure all'antica). All'Accademia Nazionale di San Luca (coincidenza quasi disturbante) incontro una piccola mostra dedicata all'esperienza triestina del Centro Arte Viva. La mostra, intitolata al lavoro di Gigetta Tamaro, raccoglie anche opere di Luciano Semerani, Enzo Cogno, Carlo de Incontrera, Aldo Rossi, Guido Cannella. E naturalmente di Miela Reina. Qui la radice si fa più forte, specialmente quando tra le opere incontro un suo quadro del 1968, "Prefigurazione di un avvenimento", che ho avuto per qualche settimana in casa, quando, con gli amici di ARTeFUMETTO, facemmo nel 2004 a Monfalcone una mostra collettiva, dedicata indirettamente anche a Miela. Le radici di un'esperienza. 
Accademia San Luca Roma 2018
Galleria d'Arte Contemporanea Monfalcone 2004
Poi girando per Roma, in via del Gesù, alla CArt Gallery, riscopro il lavoro di Will Eisner. Le sue tavole di Spirit sono appese alle pareti, assieme ad alcune opere inedite, favolose. Lo stimolo è forte e mi fa capire che non potrò in questo viaggio dimenticare di omaggiare il fumetto.
Il 27 maggio ero a Testaccio, all'ex Mattatoio. Qui si svolgeva una manifestazione importante sul fumetto, la quarta edizione di "ARF!". Molti autori, molte amicizie fatte durante il corso degli anni e qui ritrovate per un abbraccio o un saluto. Ritrovo Gipi (a Monfalcone nel 2003 e nel 2007 per ARTeFUMETTO, qui impegnato a liberarsi dell'onnipresente Bruno Luverà, pieno di libri e disegni omaggio offerti dagli editori, per "favorire" un passaggio su "Billy", la rubrica domenicale su RAI1), Barbucci (comprai a fine anni '90 una delle prime copie in edizione non ancora definitiva di Sky Doll, poi fu il diluvio, ma ci riconosciamo ancora), Zerocalcare (e gli amici di BAO Publishing) ,Zezelj (da Moreno, a Topolò, in molte occasioni con le sue performance). Incontro Bernet (finalmente un incontro sereno, senza collezionisti, senza code o simili, ma solo chiacchiere e qualche sketch omaggio), Valerio Schiti (disegnatore marvelliano lanciatissimo, che regala ad Ale un magnifico Rocket Raccoon). 
Durante un incontro, in diretta streaming (l'età non è stata molto buona con lui) Vincenzo Mollica racconta la sua esperienza in RAI: "Mi sono battuto tutta la vita per far assumere una dignità a questo medium, quello della letteratura disegnata...". E infatti è così, Vincenzo ha sicuramente aperto una strada, peraltro ancora tutta da ampliare, ma senza di lui ci sarebbe stato il nulla. Nel sentire la sua voce mi rendo conto che è ora di affrontare il vero motivo per cui sono passato ad ARF!. Volevo ancora una volta perdermi nei segni di Paz. Da qualche giorno si è inaugurata la mostra "Andrea Pazienza. Trent'anni senza". Andrea muore il 16 giugno 1988. Il suo lavoro dopo trent'anni fa ancora impressione. In mostra ci sono soprattutto tavole di fumetto, non le locandine o i quadri giovanili o altro, ma proprio i fumetti. Capisci tutto il suo lavoro guardando quelle tavole. Le sue riflessioni prima del segno, il ritocco. Col cavolo che buttava le cose lì di getto e basta! Sono lavori intramontabili. 
La voce di Mollica nel video che accompagna l'allestimento (garbato), racconta un percorso umano interessante, aneddoti conosciuti, ma anche aspetti utili per capire. Scelgo di scattare qualche foto, di non comprare nessun gadget, poster, volume o altro. Scelgo di ripensare a quanto questo lavoro faccia parte delle mie radici, per averlo approfondito tra il 2003 e il 2005 nell'occasione della mostra allestita a Monfalcone per ARTeFUMETTO, per riconoscere un percorso umano generazionale, che tra le righe è anche il mio.
Il 27 maggio, come detto, ero a Roma e scopro che è l'ultimo giorno per visitare la mostra "The Pink Floyd Exhibition. Their mortal remains". Evento epocale per chi ama la musica e non visitarlo sembrava un vero delitto. La mostra valeva realmente la pena per farsi un'idea su di un percorso umano e generazionale (dopo gli Ottanta e i Settanta di Pazienza, ecco i Sessanta: come frequentare all'incontrario tutta un'esistenza), oltre che musicale. Lettere, locandine, strumenti, allestimenti dai concerti (i maiali e le pecore gonfiabili, le invenzioni di The Wall), e naturalmente la musica, le parole, e i progetti. 
Ebbene sì, la mostra è soprattutto l'omaggio ad un pensiero prefigurativo, ad una visione progettuale (Roger Waters e Nick Mason iniziano studiando architettura), condotta con razionalità e capacità organizzativa. Ogni schizzo per i palchi, per le scene, per le copertine dei dischi, sviluppati con i progettisti loro collaboratori (architetti, ingegneri, designer) parlano il linguaggio della consapevolezza. Lo stesso MACRO di Roma, che ospita l'allestimento è un tempio dell'architettura contemporanea, progettato da Odile Deq. E' la sua un'architettura dell'effimero, della forma e delle geometrie, dove materia e funzione sembrano andare per binari diversi (non sai mai dove vai e perché ci vai). Non è la "bellezza utile" che Malacarne aveva ricordato parlando di Linazasoro solo due giorni prima. Vedere il MACRO dopo aver visitato il lavoro di Linazasoro ti permette di capire la differenza.
Il viaggio finiva qui, dopo la mostra dei Pink Floyd, e le radici sembravano raccordarsi. Tornando a casa, stanchissimo, rileggendo l'opuscoletto della mostra in ricordo di Gigetta Tamaro, scopro un piccolo scritto/memoria di Aldo Rossi del 1980, dove l'architetto ricordava la sua frequentazione di Arte Viva a Trieste: "Tutto questo è durato poco tempo ed è finito prima che si compisse; come la giovinezza anche se i veri giovani, come Miela (e Paz, potrei aggiungere), hanno la singolare virtù di morire prima. Non so cosa significhi prima; forse solo prima di essere stanchi". Le radici a volte rompono un pò le scatole.