domenica 30 dicembre 2012

L'"agenda Roby"




Vivi! Nemmeno i Maja hanno potuto e saputo ipotizzare una fine a questo nostro sconclusionato mondo. Niente da fare, toccherà a noi farlo da soli, senza nemmeno la possibilità di deresponsabilizzarci di alcunché. Avevamo questa occasione della profezia e invece è di nuovo tutto nelle nostre mani. Ci tocca lavorare insomma. Quindi niente chiusura del blog e ci si rimbocca le maniche! Questo post di fine anno non può essere dunque solo un resoconto (che comunque c’è), ma anche un atto progettuale di lungo corso, perlomeno di corso annuale. Ecco quindi l’”agenda Roby”, che, non me ne voglia alcun futuro candidato premier, tenta di risultare più concreta di quanto si sta delineando in giro. Primo problema: basta un’agenda sola? No, perché mi sembra che i temi siano così tanti che l’agenda che mi hanno dato in banca per motivare il mio essere correntista fidelizzato risulti alquanto ridotta rispetto quelli. Secondo problema: ma sono veramente così tanti i problemi? Quindi, punto uno, scegliere la strada della sintesi; punto due, essere chiari. Dunque: 1) essere sintetici e coincisi: Questo pone già una gran distinzione rispetto i più. Mi pare cosa buona porre a monte di tutto un principio di stampo costituzionale a cui guardare per salvarsi da ogni deviazione dal cammino; 2) non usare i termini “morale”, “sostenibile” e “innovazione” per almeno sette mesi su dodici. E’ questa una condizione veramente complessa, che mi porta a voler già in questo momento recedere dall’impegno che mi sono dato, ma con tenacia provo a superare il momento terminologico difficile, posto dal secondo principio costituzionale; 3) non fare nomi; qui si rasenta l’impossibile, i nomi escono da soli dalla bocca e dai pensieri; trattenersi è cosa ingrata, ma fondamentale per fare un discorso utile; 4) non dare la colpa a terzi, anche se questi terzi rubano (e non ti rubano solo le cose, ma il pensiero, le speranze, la serenità quotidiana) e non tentano nemmeno di nascondere le mani. Ok, rinuncio, non ce la posso fare: dire che la colpa è anche un po’ mia, che loro sono così perché io non faccio nulla; che “loro” sono loro perché “io” sono io. Responsabilizzarmi e produrre un pensiero autonomo, non omologarmi: è tremendo ammettere di poter possedere gli strumenti per essere guida del proprio destino, perlomeno è stancante; corollario fondamentale: dubitare; 5) credere che un’economia culturale sia possibile. Come posso convincerli se non convinco me stesso. Se non mi convinco che “basta un poco di zucchero...lo stretto indispensabile…” (pot-pourri), se non ammetto cioè che ho impostato la mia esistenza più sul bisogno di cose che di slanci. Se non supero questa deriva come posso ammettere che una politica culturale può anche rinunciare “ai rinfreschi”, “agli aperitivi” e fondarsi sulla ricerca di per sé. “Saprò” ancora guardare un quadro e goderne senza aggiungerci anche vicino della musica e promuovere intorno ad esso una performance? Ma ancora prima “vorrò” che sia così?; 6) rinunciare a pensare che “ricapitalizzazione delle banche”, anche a fronte di governance superiori capaci al contempo di finanziare e regolare il sistema, risulti uno strumento palliativo, utile a nascondere e tutelare deficit di capitale che gli stess-test potrebbero facilmente evidenziare; e che quindi le banche non ci siano amiche, e che quindi queste si facciano un po’ troppo i fatti loro, e che quindi affrontare con decisione questi interessi sottesi debba, oggi, divenire anch’esso il principio costituzionale “condicio sine qua non” per alimentare le speranze. Corollario: dimenticare che la regolazione del credito possa essere uno strumento di controllo del potere e di tacitazione dinanzi alle evidenze; 7) collaborare: non vedersi come unici, come singolarità; corollario: “la singolarità ha senso, ma la collettività ha significato”; 8) continuare a guardare fuori. 
Ecco questa è “l’agenda roby”: non votatemi, ve la regalo, io sono solo un architetto.

Ed ora il resoconto 2012, fatto di gusti personali, di “mi piace, quanto mi piace!!”. 
L’immagine di apertura è un’omaggio al lavoro dell’Associazione Culturale ARTeFUMETTO di Monfalcone, che in queste settimane compie il suo decennale. Ai collaboratori, che potrei nominare, alle persone a cui siamo piaciuti per quello che abbiamo fatto, a chi pensa a noi quando sente parlare di “fumetto”, agli autori con cui si è condotta una piccola fetta della strada, a tutti questi un ringraziamento e a coloro che sono diventati lungo la via degli amici un abbraccio.

The best 2012 is…?
Miglior disco straniero: Cat Power, Sun, Matador;
Miglior italiano: Malika Ayane, con il pezzo Tre cose, da Ricreazione, Sugar Music;
Miglior novità musicale: Alt-J, An Awesome Wave;
Miglior concerto: Herbie Hancock, Vienna, Wiener Staatsoper, 05 luglio 2012 (avrei dovuto dire Bruce Springsteen a Trieste l’11 giugno, ma avrei scelto di pancia);
Miglior testo lungo (narrativa-saggistica-tutto): Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, Milano;
Miglior fumetto-graphic novel: Cyril Pedrosa, Portugal, Bao Publishing;
Miglior fumetto-franco-belga): Camille Joudy, Rosalie Blum, Comma 22 (tre volumi da leggere insieme);
(N.B. lo scorso dicembre mi lamentavo di come molte delle cose lette nel 2011 apparissero “mancanti”, bene se andate a vedere cosa è stato pubblicato in quel 2011 capirete quanto “piccolo” sia il “grande” di questo 2012; Trevi, Pedrosa e Jourdy meritano una nota a parte perché appaiono fuori dai generi e dalle convenzioni linguistiche, stilistiche e grafiche e sono oggettivamente bravissimi, indipendentemente dai gusti specifici);
Miglior illustrato: Pia Valentinis, Mauro Evangelista, Raccontare gli alberi, Rizzoli, e Rebecca Dautremer, Philippe Lechermeier, Diario segreto di Pollicino, Rizzoli;
Miglior mostra: Elliott Erwitt-Retrospective, alla KunstHaus di Vienna;
Miglior artista (360°) scomparso: Koloman Moser, che sapeva già immaginarsi Andy Warhol cinquant’anni prima dell’americano (visto qua e là);
Miglior artista (360°) contemporaneo (vivente): Ascanio Celestini (niente di nuovo, però…), visto in giro con Pro Patria;
Miglior film: Jason Reitman, Young Adult;
Miglior programma televisivo: non pervenuto;
Premio "Mi hai veramente insegnato qualcosa ed è merce rara": Franca Valeri (vista a PordenoneLegge, settembre 2012);
I ringraziamenti per il 2012.
Ad Alessia, Gioia e Giuditta (per motivi del tutto diversi tra loro).

E infine, a seguire, un calendario fotografico dell’anno in chiusura (con facezie varie ed eccezioni).
Gennaio 2012 - Tour con Walter Chendi per promuovere SessantaQuaranta
Febbraio 2012 - Monfalcone. Il Canale irriguo ghiacciato
Marzo 2012 - Bologna. La fila per la visita al feretro di Lucio Dalla
Aprile 2012 - Venezia. Con gli studenti del corso IUAV di Restauro
Maggio 2012 - Caporetto.Tour sulle tracce della Grande Guerra
Luglio 2012 - Vienna. Sulle tracce della Secessione




Luglio 2012 - Grado. Sotto il palco del concerto di Morrisey
Agosto 2012 - Roma. Da una foto al Pantheon nasce la locandina di ETRA
Settembre 2012 - Treviso. Alessia fa da traduttrice per Colin Wilson
Settembre 2012 - Pordenone. La grande Franca Valeri
Ottobre 2012 - Verona. Al concerto di Adriano Celentano al costo di € 1,00

Novembre 2012 - Lucca. I quadri "impossibili" di Laura Zuccheri ai Comics
Dicembre 2012 - Monfalcone. Silvia Ziche e Vanna Vinci a MOREisnotLESS


Non ho dimenticato giugno. E' stato un mese mentalmente dedicato per intero al Boss. Grazie Daniele!




giovedì 20 dicembre 2012

This is the end...Of our elaborate plans, the end.

I più dicono che domani finisce il mondo.
Volevo così essere sicuro di non lasciare cose incomplete prima di andare.
Per questo chiudo ufficialmente questo blog. FINE
 
 
P.S. se poi non succede nulla, magari lo riapro. Forse sì, forse no.

mercoledì 21 novembre 2012

Sbagli

Mi pare, nel guardare fuori, che ci siano sempre troppe persone che non si arrendono al fatto che la gente non va capita, bensì ascoltata. Voler ricondurre di continuo ogni atteggiamento esterno ad una personale sintesi snatura la stessa grandezza del pensiero umano; l'ascolto passivo facilita invece aperture e condivisioni.

domenica 11 novembre 2012

Appunti di viaggio

A posteriori del post precedente, mentre trovo sulle riviste, sui quortidiani, in televisione, nelle parole delle persone che incontro per strada conferme a quanto sono andato scrivendo, ancora stanco delle giornate passate a Lucca per il festival dei Comics e dei Games, mi imbatto nel nuovo libro di Daniel Pennac, dal titolo Storia di un corpo, pubblicato da Feltrinelli. Pennac è grande come sempre, con il suo tono ilare e sagace e le tematiche senza tempo che sa nascondere tra le righe. Un padre lascia in eredità alla figlia un diario del proprio corpo dall'età di dodici anni a quella di ottantasette, età della sua scomparsa. Lo scrittore si sporca con la materia di un corpo in tutte le sue declinazioni, a sottolineare che ancor oggi, quando il corpo appare solo un qualcosa di esterno a noi, esibito o parassitariamente usato per "stare al mondo", esso costituisce di certo la prima delle realità con cui dobbiamo fare i conti. Al fianco dei temi "corporei", inevitabilmente, è quello della morte a prendere il sopravvento. Forse Pennac oggi non ha più la pazienza per regalarci un nuovo romanzo alla Malaussène e preferisce trovare nella giustapposizione di scritture che la formula del diario gli consente un escamotage a tale limite; ma Pennac è un grande scrittore postmoderno e, come già ci insegnò Pavese, niente aiuta ad affrontare il tema della morte più di un diario ben scritto.
Nel diario mi soffermo, scorrendo le pagine a caso, sulla data di Domenica 13 marzo 1994, dove l'autore/protagonista appunta: "Signore e signori, moriamo perchè abbiamo un corpo, ed è ogni volta l'estinzione di una cultura." La perdita insopportabile del piccolo universo che si cela dietro ognuno di noi è la consapevolezza di quanto quello rappresenti uno sguardo unico e insostituibile sul mondo. E' la vittoria "delle culture" su di una cultura specifica, qualunque sia il colore che la contraddistingue.

lunedì 29 ottobre 2012

Egemonia culturale o strategia commerciale



Ieri fuori faceva freddo. Era la prima giornata autunnale che mi portasse a pensare all'inverno. Mi sono costretto a stare in casa e a ripensare alle ultime settimane passate. Nel silenzio i pensieri vagavano. Uno di questi mi porta ora a scriverne. Tutto parte dal ricordo di un'intervista ad Alessandro Trocino letta credo non meno di quattro mesi fa (mi ero fatto degli appunti, che ora mi tornano utili) sulla rivista musicale il Mucchio Selvaggio. Trocino ha scritto un libro dal titolo Popstar della cultura (Fazi Editore) che presenta una disamina dell'ascesa mediatica di alcune figure "centrali" nel dibattito culturale italiano (lui cita Roberto Saviano, Andrea Camilleri, Mauro Corona, Giovanni Allevi e altri, ma sinceramente i nomi degli uni piuttosto che degli altri non hanno ruolo nel discorso che vado a fare). Mi interessava quel libro per aver l'autore apposto in copertina prima della parola "ascesa" di cui sopra, la parola "resistibile". Mi interessava quanto poi nell'intervista si facesse uso (nell'affrontare questi autori) del termine "retorica" e delle definizioni, usate però in senso negativo, "riferimenti culturali" e "guru". L'autore dice cose molto vere; condivido questa sua visione di un magma "intellettuale", "guida spirituale" del paese, che fa leva sul bisogno tutto italiano di "essere rassicurati, di avere il conforto di qualcuno che pensi per loro, che gli spieghi cos'è il giusto e cos'è il sbagliato", sostituendo "vecchie ideologie con  i nuovi dogmatismi". Infine centrale è il rimprovero di Trocino "a questa sinistra culturale" -poiché è innegabile che quello sia l'ambito culturale entro cui le figure valutate pescano il proprio pensiero- "di proporre certezze, non dubbi, sentenze, non ragionamenti. Gli intellettuali (...) dovrebbero mettere in discussione le strutture del potere, decostruirne i meccanismi".
Io credo che queste considerazioni siano calzanti per leggere la nostra struttura culturale. Ho avuto più volte modo tra queste pagine di sottolineare come consideri la cultura non il risultato, ma il percorso di ricerca in sè. Se è vero, credo che i rappresentanti della cosidetta cultura di sinistra odierna stiano negando all'utente finale ogni possibilità di ricerca (la ricerca, il dubbio vanno spesso controllati, poiché poi se uno ricerca magari vede altre cose, che non sono più quelle da me proposte). Io credo che gli intellettuali di oggi siano perlopiù garantiti dal processo di marketing che lo strumento televisivo ha loro offerto e dall'incapacità degli utenti (cioè noi) di accettare il rischio, di accettare l'anticonformismo verso "l'anticonformismo di maniera". Se oggi chiedessi ai vari attori dell'industria culturale italiana (Fabio Fazio in televisione, oppure i radiofonici Dose o Presta del Ruggito del Coniglio o Sabelli Fioretti e Lauro di Un giorno da pecora, gente preparata, notevoli comunicatori, ma non estranei ai processi di cui parlo) se la loro è cultura di sinistra, io credo mi risponderebbero di no, che è CULTURA (anzi, forse si schernirebbero con placida autoironia dicendo che è INTRATTENIMENTO, al che il discorso sarebbe chiuso e ognuno a casa sua, bontà loro). Se ricordate il pensiero di Furio Jesi nel suo fondamentale libro Cultura di destra, di cui già vi parlai in un post precedente, di certo servirebbero ben altri smarcamenti per non far ricadere la cultura di sinsitra (o meglio antagonista, realmente utile alla riflessione, non asservita al dato commerciale, se vogliamo) nel magma del tutto assorbente della cultura di destra (chi ha letto Jesi sa che destra e sinistra non sono accezioni solo politiche, appunto). Non è nemmeno un discorso di cultura omologata, bensì di cultura omologante. Cambiamo parametri, per comprende meglio (io parlo spesso per capirmi, quindi espongo qui dei concetti come semplice strumento di riflessione e non come "stato dei luoghi"), lasciamo la televisione e guardiamo ad altro. Frequentiamo i festival di letteratura, frequentiamo quelli di filosofia o un festival non-senso come "R-la Repubblica delle idee", il festival del quotidiano la Repubblica a Bologna svoltosi a giugno. Sono stato di recente ad ascoltare Adriano Celentano all'Arena di Verona; sentirlo cantare è un piacere enorme, con quella sua voce fantastica; poi parla e di certo dice molte cose retoriche (non sbagliate, retoriche; non inutili, retoriche e basta). A Verona ha parlato di "decrescita" ad esempio. Bene. Mi chiedo: aldilà dello spunto iniziale, di certo interessante, se avessi ascoltato Zygmunt Bauman con la sua "modernità liquida" o Serge Latouche appunto sulla "decrescita economica", mi avrebbero offerto veramente qualcosa di più? Meritava far la fila ai festival citati o al botteghino di Celentano? Il festival de la Repubblica poi mi ha stupito (non c'ero, ma l'ho seguito in parte via TV) per la necessità di affrontare idee viste sempre e solo da un punto di vista univoco, mentre la gente si assiepa, soffre in piedi, o seduta sotto il sole. Insomma, dalla televisione, regno dello spettacolo, agli altri luoghi degni dell'intellettualismo italiano, la storia non cambia. Le strategie economiche (di tasca, intendo), sono sempre superiori alla volontà culturale; alla volontà di offrire spunti interessanti e adeguati, al superamento di pensieri condizionati e purtroppo condizionanti. Ho letto ultimamente il libro di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie editore), che riflette in forma di saggio-romanzo-autobiografia (molto interessante la struttura narrativa usata) sulla scrittura e i temi del Pasolini di Petrolio (citare Pasolini dopo quello che ho detto, mi fa cadere dentro l'omologazione più profonda, o prendo punti difronte ai molti? Bastasse un nome per affrontare un tema! E infatti non basta). Trevi scrive ad un certo punto: "In un mondo culturale così prevedibile e perbenista come è quello della sinistra ufficiale italiana, capace più che altro di produrre noia e desiderio di evasione (...) quella di P.P.P. è una presenza equivoca". Benedetti equivoci, mi verrebbe da pensare e dire! Poi credo sia meglio il silenzio.

domenica 21 ottobre 2012

Piccole scatole emozionali n.12

La luce che amplifica la grandezza dell'architettura. E se il monumento è il Pantheon a Roma l'architetto si inchina, mentre l'uomo si emoziona dinanzi all'evidenza che magari adesso siamo soltanto delle formiche con il capo basso di fronte ai problemi quotidiani, ma un tempo abbiamo anche ideato e realizzato in grande. E se il "monumentum" ammonisce, appunto, allora qualche speranza ci dovrà pur essere.
Nella convinzione che questa speranza non possa andare persa, assieme ad alcuni amici, professionisti anch'essi, si è raccolta la sfida del nostro tempo, si è fondato una nuova Associazione Culturale, denominata ETRA e si è cominciato a lavorare. Per saperne di più: www.culturaeticaetra.com

sabato 8 settembre 2012

Robert Redford

E poi ad un certo punto si invecchia. Così credo ognuno di noi si deve essere interrogato, chi prima chi poi, difronte allo specchio dopo la sveglia. Sono i segni sul volto e sulle mani a fartelo capire per prima cosa e un banale confronto tra la foto sulla carta identità scaduta di ieri e quella appena stampata di oggi. Ci sono molti modi per invecchiare, serenamente e no, accettando le trasformazioni fisiche, comprendendo quelle psicologiche, oppure cercando escamotage fisici e anche comportamentali; ma è inevitabile che chi non viva con te giornalmente i tuoi cambiamenti constati, avendoti improvvisamente dinanzi, il tuo percorso. Così quando ti trovi dinanzi Robert Redford, a Venezia, al Lido, ti meravigli un pò che la maggior parte dei commenti di chi ti sta accanto risulti del tipo: "Cielo, ma come è invecchiato?". E' evidente che l'idolatria verso una star del cinema come Redford sia del tutto generazionale (e infatti accanto a lui cammina spesso anche Shia LaBeouf, che di Redford sembra il nipote più grande, accompagnato dalle urla di un'altra generazione, quella delle quindicenni-diciottenni di oggi). 
Inevitabile che la delusione verso i segni del tempo sia del tutto intinseca nell'essere fan della star, ma a volte sembra proprio che quell'esclamazione, "Cielo!", esca veritiera, non provocatoria, come una mancata presa di coscienza verso di sè, prima che verso l'età dell'attore.
Redford è alla Mostra del Cinema per presentare il suo film The Company You Keep. In tutte le occasoni che ho avuto di avvicinarlo, mentre saltellava da una conferenza ad un incontro, da un pranzo alla passerella, ha sempre mantenuto un passo costante, mai bloccato da nessuna richiesta di autografi, come una lama che fende la folla, intoccato da essa. Le guardie del corpo lo scortano da una macchina all'altra lungo le strade del Lido, da una motonave all'altra, lungo i canali. Lui è tranquillo, frastornato forse dal fuso orario, ma con due espressioni sole: la totale rassegnazione, e un accenno di sorriso occasionale. La prima nasce secondo me da due valutazioni: la prima che la gente che lo sta acclamando non rappresenti nulla per la sua vita, che lo star system lo abbia ormai accompagnato sino alla vecchiaia e che quella condizione di pace impossibile a cui la sua figura pubblica lo costringe sia ormai un peso complesso che tenta a fatica di sfuggire; la seconda nasce da fattori occasionali, che regalano il Redford sornione e ironico di certi suoi film: succede quando un fotografo gli chiede ripetutamente di girarsi e lui si accuccia dietro un parapetto, lasciando intravedere solo il volto dagli occhi in su; oppure quando una signora gli regala una rosa e lui l'accetta, rompendo la monotonia del suo procedere passo a passo inarrestabile tra la gente; oppure quando una signora gli tende la mano e lui la prende (vedi la foto) e la signora scappa via poi dicendo "Adesso come faccio a lavarmela!".
Sono bei ricordi questi che avrò di Mister Redford, star idealista, poco rappresentativa di un popolo (quello U.S.A.), che il più delle volte trovo deludente per le sue idee reazionarie, e bizzarre, che la campagna presidenziale in corso sta evidenziando in tutta la loro portata. Redford dirà alle conferenze parole interessanti, e anche il suo film, benché non cinematograficamente imperdibile, rivela una cultura utile ai nostri tempi. Insomma la "distanza" che dimostra verso l'esterno non è solo divismo, bensì constatazione allarmata per la lontananza della gente comune dai principi utili alla società. Sul red carpet Redford non c'è, o meglio c'è solo la sua persona fisica (con la moglie), non certo la sua mente, che spera di completare quel lungo viaggio nel modo più rapido possibile (più tardi fuggirà dalla Sala Grande prima di ricevere gli applausi).
Il pomeriggio mi era capitato di scorgerlo, dalla portiera aperta, sul sedile posteriore dell'auto di sicurezza che lo scorazzava in giro, mentre rispondeva ad un cenno di un suo collaboratore che gli chiedeva come stesse andando, con un sorriso e un sospiro, come a dire: "E' complesso da spiegare! E se non lo capisci, ho quasi ottant'anni!"
Sul red carpet poi due ragazzine assolutamente coscienti del loro ruolo, si scambiano per l'entusiasmo dei fotografi un finto doppio "scandaloso" bacio (chi dice lesbico, chi saffico, ma è un bacio, santo cielo!). Sono Joséphine de la Baume (la bionda) e Roxane Mesquida (la mora), protagoniste, come sorelle vampire nel film The Kiss of Damned della figlia di Cassavetes. 
Con quel bacio guadagnano le foto principali sulle pagine dei giornali italiani (perché badate bene che nel Mondo, giornalisticamente parlando, della Mostra del Cinema di Venezia non gliene importa un cavolo a nessuno!), stampate più grandi dello stanco Redford, star ormai destinata alle signore d'altri tempi. Il suo volto (e la sua interpretazione in Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, del 1972) era servito anni fa d'ispirazione a Giancarlo Berardi e a Ivo Milazzo per dare una  fisionomia e un carattere a Ken Parker, eroe cult e idealista del fumetto italiano, sparito anch'esso dalle edicole come Redford dalle passerelle, e destinato al tradizionale So Long! finale.
Infine. Voi pensate che si sia potuto al Lido assistere realmente a qualcosa? Voi pensate che senza un pass giornalistico o organizzativo si riesca a entrare da qualche parte? No, nemmeno negli spazi allestiti all'Hotel Excelsior della Regione Veneto. E' un tema importante da affrontare questo. La Biennale è una fondazione che al momento non ha partener privati, è coabitata solo da soggetti pubblici, quali il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Veneto, la Provincia, ecc.. Bene una realtà con un capitale di circa € 22.000.000,00 compresi i beni immobili a Venezia e al Lido. Una realtà pubblica, che vive di denaro pubblico, con una gestione politica pubblica, ma inaccessibile al pubblico; che deve invece fare le file dietro le transenne pubbliche e marchiate, come sudditi e non come veri comproprietari dei beni. 
Va fatta attenzione su queste cose, ne va del ruolo dei cittadini nella tutela delle cose pubbliche, ne va del comportamento politico dei cittadini. Perché se in Italia solo ciò che è "proprio" va tutelato, allora si sappia che i Beni Culturali sono una cosa pubblica. Per saperne di più sulla Fondazione e farvi riflettere:
E poi, e qui siamo ad un must di questo blog, quando si fa sera,"non è il parrucchino di Redford, o il bacio fra due persone di uguale sesso, o il buco spaventoso dell'incompiuto Palazzo del Cinema, che mai ci sarà (vedi sopra), che ti colpisce realmente, ma i colori e le forme della laguna". So Long!

domenica 19 agosto 2012

Piccole scatole emozionali n. 11

Un'immagine di certo non solare apre in questo caso la scatola delle emozioni. E' quella di alcuni alberi sommersi, precipitati dopo il loro taglio, nel fondale più basso del lago di Fusine, vicino Tarvisio, sul confine montano tra Italia, Slovenia e Austria. 
Si è creato nel scorgere le piante nascoste dalle acque trasparenti, e luminescenti per i raggi del pomeriggio tardo, un corto circuito mentale, che ha prodotto una tensione del tutto intellettuale tra la relatà e il ricordo di un dipinto ottocentesco (1852), che mi ha sempre intrigato e forse intimorito.
E' esposto oggi alla Tate Gallery di Londra il capolavoro preraffaellita di J. E. Millais, Ophelia, ispirato all'Amleto di Shakespeare, che vive dell'assoluta estraneità del corpo della ragazza morente, con i fiori che gli scappano di mano portati dalla forza della corrente, superiore di certo di quella che lei ormai sappia garantire per trattenerli. Il corpo fu ripreso da quello della modella Elizabeth Siddal, vera musa preraffaellita, per l'occasione in posa in una vasca da bagno colma d'acqua riscaldata, d'inverno, cosa che procurò a lei una malattia e al pittore dei grattacapi legali; la vegetazione strepitosamente copiata è quella del Hogsmill River. Il lago e la luce mi garantiscono questo percorso mentale.
Lo specchio d'acqua si fa poi fotografare di nuovo nel chiaroscuro preserale, permettendomi di rinvangare L'impero delle luci di Magritte (1954), oggi alla Guggenheim di Venezia.

domenica 29 luglio 2012

...lo sai non finirà na na na na...

Ancora luglio, alla sua fine, oramai. Tempo di sere all'aperto, con caldo soffocante perlopiù. Una serata simpatica me l'ha regalata Philippe Daverio, ospite il giorno 25 luglio al Film Festival di Aquileia (una delle rassegne cinematografiche dedicate al cinema archeologico che molti siti italiani stanno mettendo nella loro offerta culturale... no, non si tratta di Indiana Jones, ma sostanzialemnte di documentari o filmati di riproposizione con strumenti digitali di siti e città antiche). Daverio, non nuovo al Friuli d'estate (spesso ospite all'agriturismo ai Colonos a Villacaccia di Lestizza vicino Villa Manin in agosto, per la rassegna Avostanis), ha parlato poco di archeologia, ma molto di arte antica. Daverio è il vero prototipo dell'homus mediaticus, completamente a suo agio con il pubblico e assolutamente dedito a quello, ricambiato in ogni occasione per questo. Critico, non fra i più precisi e affidabili, per una sua tendenza alla soggettività di giudizio, lui stesso si definisce spesso un antropologo. Questa autocatalogazione gli permette però di dare giudizi spietati sul ruolo dell'arte contemporanea nel nostro tempo, che io condivido in pieno. Non è il suo un rifiuto del contemporaneo o del "nuovo", ma l'affermazione continua che non vi possa essere il nuovo se non come atto di comprensione e di estensione del passato e dell'antico. Ha detto durante l'incontro (parafraso): "Da antropologo mi limito a documentare; se vedo così una delle opere di Jeff Koons, uno di quei suoi cani ricchi di ormoni in materiale plastico, mi limito a documentare il declino dell'arte americana degli ultimi decenni". Oppure. "Non individuo ruoli per l'arte contemporanea, se non la celebrazione di se stessa o di garantire che alla Biennale di Venezia si assiepino durante la sua inaugurazione centinaia di moscerini vestiti di nero, tutti con i capelli corti e rigorosamnete con la laurea triennale". Fantastica osservazione, che permettetemi l'autocelebrazione, avevo scritto io stesso tra le righe in uno dei miei racconti, che portava lo stesso titolo di questo Blog. In un'intervista che precedeva l'incontro, apparsa su il Piccolo e a firma di Franca Marri, infine, alla domanda se l'arte contemporanea stia meglio di quella del passato, lui sottolinea: "Nooo, peggio.. L'arte del passato la possiamo solo dimenticare,...maltrattare, ma rimane libera; quella contemporanea è repressa e oppressa dalle speculazioni internazionali...". Aggiungerei: oppressa dal mercato e da chi lo guida per trarne vantaggio economico; meno libera di così si muore. E forse nemmeno Daverio è, con le sue lezioni mediatiche, completamente svincolato da questo processo inarrestabile. 
Un ultimo sussulto me l'hanno regalano ieri i tre tiratori con l'arco Michele Frangilli, Marco Galiazzo, Mauro Nespoli, che hanno vinto l’oro alle Olimpiadi di Londra, inaugurate il giorno prima, venerdì 27 luglio. Non avevo venerdì alcuna voglia di queste Olimpiadi, poi, per caso e per necessità, mi sono trovato dinanzi al video, che mandava le immagini dell’inaugurazione allo stadio di Marshgate lane a Stratford. Il lavoro del regista Danny Boyle, quello di Trainspotting e di The Millionaire è stato nella prima parte grandioso. Con la sua cultura postmoderna e perfettamente in sintonia con il sentimento di una generazione (quella post punk), Boyle mette in scena, vendendola come rappresentazione dei momenti salienti della storia inglese, o dimostrando una buona dose di incoscienza, la distruzione nel nome del progresso, ma ancora prima del mercato (con questi figuri dagli alti cilindri, gli affaristi, che scelgono al tatto i terreni da industrializzare), di un mondo rurale che diventa, grazie all’industrializzazione un mondo grigio, fatto di nugoli di persone dai movimenti serializzati: la classe proletaria che di lì a poco prenderà coscienza di se stessa. Credo che quell’oretta di inaugurazione, che subito dopo attraverso una lunga carrellata sullo sviluppo della musica giovanile inglese dagli anni ’60 in poi, andava a dimostrare l’idolatria della nostra generazione per lo strumento Internet, nella celebrazione del suo inventore, sia stata un libro di storia animata, da studiare a posteriori. Ma torniamo ai nostri tre M. dell’arco. Quando Michele scocca la freccia da 10 che li porta all’oro, davanti a tre baywatcher americani increduli, tutti si chiedono se questi tre vestiti “da italiani in gita” come direbbe Paolo Conte, con il berrettino a scodella ribaltata da domenicali sul lago e la “panza”, di due su tre, in bella vista, siano realmente espressione del mondo sportivo (nell’arco, non dimentichiamo vale molto la tecnologia, oltre che la preparazione atletica). L’Italia che vince, l’Italia che siamo, con berrettino e panza, e studi innovativi non troppo valorizzati alle spalle, che riusciamo spesso ad emergere perché gli altri quando ci vedono si distraggono e ci sottovalutano. Quei tre mi hanno veramente fatto impressione, sono l’oro dei sogni da italiano medio. Chi potrà ora spiegare ai nostri padri, o a molti tifosi da poltrona, che per fare sport non basta guardarlo in televisione. Chi lo spiegherà mai dopo quelle “panze”. Buona XXX° Olimpiade a tutti gli italiani.

martedì 24 luglio 2012

Luglio col bene che ti voglio...

E' inevitabile che questo blog, attraverso i suoi post, diventi una sorta di mia biografia minima attraverso questi anni balordi. A volte il tempo passa e preferisci fare, acoltare o riflettere sulle cose, piuttosto che scriverne. Poi viene il momento del resoconto. Luglio è per me e per sua natura un mese complesso, di vacanze abbozzate, quando il lavoro te lo permette, di momenti di svago, di eventi che si susseguono con una frenesia inaudita; alla fine sono di certo maggiori le cose scordate o rifiutate per stanchezza che quelle viste, cercate o subite. Luglio è l'estate frenetica, così come agosto è l'estate apatica. Provo qui a fare un sunto di cose che mi sarebbe piaciuto commentare meglio, ma che lo scorrere rapido delle ore non mi ha permesso di fare, oppure su cui  il desiderio di vita mi ha consentito di non dovermi soffermare a ricordare troppo. Con il senno dei mesi futuri troverò forse il tempo di approfondire meglio.
Dove eravamo rimasti: l'Italia ha perso gli Europei di calcio, senza troppi lutti in fondo; erano già tutti felici per la sconfitta dei tedeschi per preoccuparsi troppo degli spagnoli che ci massacravano a causa di una formazione assurda in campo: Prandelli ha detto che glielo doveva a quei ragazzi di metterli comunque in campo, anche senza una gamba, per riconoscenza; in fondo era l'allenamento nel campetto dell'oratorio, mica la finale europea! Prandelli si è deresponsabilizzato da una scelta diversa, e a tutti andava bene così! L'Emilia scossa dal terremoto se ne sta invece al caldo, dimenticata un pò dai media, finchè in autunno non comincerà a piovere dentro le tende. Ci sarà Vasco Rossi al concerto promosso da Ligabue, per l'Emilia, a settembre? E infatti è anche secondo me questo il problema centrale! Infatti.
Io il giorno 5 luglio me ne sono andato a Vienna, perché il caldo qui era enorme e a Vienna enormissimo, così farsi male sembrava d'obbligo. La sera stessa alla Staatsoper suonava Herbie Hancock e così la gita più permanenza poteva valere la pena. E mega concerto infatti è stato, con questo geniaccio ultrasettantenne che suonava come un digraziato, con altri tre scatenati supporter. Finalmente un concerto Jazz che valesse realmente la pena, dopo un'infinità di programmi polpettone con-su-per-tra-fra la parola Jazz nel titolo. Per il resto Vienna in lungo e in largo; Klimt in ogni salsa, in occasione del 150° dalla nascita. Restano indimenticabili di quei cinque giorni viennesi: la visita al Kunsthistorisches Museum con il fregio di Klimt nello scalone, visitabile da vicino grazie ad un ponteggio allestito appositamente per l'anniversario; ma anche con i suoi Tiziano e Tintoretto, Correggio e Laurana (il busto di donna più bello che ricordi), Cranach e una Venere dormiente di Dirk de Quade van Ravesteyn fantastica. Poi la Kunsthaus costruita sulla base dei principi artistici di Hundertwasser (i pavimenti a dune, anche nel bagno), dove scovo un'antologica del fotografo americano Elliot Erwitt che da sola vale il viaggio. La riscoperta della grandezza grafica di Kolo (Koloman) Moser al Leopold Museum, che credo il più grande fra i secessionisti. La grandezza architettonica di Otto Wagner sparsa qua e là per la città ed esplosa nell'edificio della Postsparkasse... i suoi fantastici disegni. Un quadro magnifico, un nudo di donna, di Johann Baptist Reiter al Museo del Belvedere. Insomma, molta arte figurativa e molta architettura, ma anche musica e tanti dolci, mangiati nelle panetterie della metro, al volo.
Il giorno 13 luglio, a Grado, Morrisey regala ai presenti un concerto magnifico. Quando alla fine di un live tirato, ben suonato e con il pubblico presente ed entusiasta, tira fuori come unico bis I know its over tratta da The queen is dead di The Smith, molti si commuovono e basta. E mentre sento alla fine del concerto alcuni lamentarsi della durata breve del concerto, mi viene solo da dire loro di andarsene a quel paese. Il giorno dopo, 14 luglio, alla Fiera della Musica di Azzano Decimo, suonano i Madness; le cose vanno così, o tutto sta assieme in un'overdose di sensazioni, oppure c'è il nulla. Quando sul finire del concerto parte il trombone a imitare la sirena della nave di Night Boat to Cairo, siamo già affaticati a sufficienza per un'ora e venti di ballo continuo. One Step Beyond alla fine ci azzera; e rifletto che sono per l'ennesima volta (dopo Bruce, dopo Hancock, dopo Morrisey) dei sessantenni e più, in questa estate 2012, a travolgerci con la loro carica infinita. E' un buon segno, penso, è un buon segno, e provo anche forse la paura che non ci sia poi qualcosa d'altro dopo tutto ciò, di nuovo intendo.
A proposito di giovani leve: sottendendo ai discorsi che si stanno facendo in queste settimane a proposito delle presunte trattative Stato-Mafia sviluppatesi nei decenni scorsi, Giorgio Napolitano, il giorno 18 luglio, rispondendo indirettamente ad una ilazione dell'onorevole Di Pietro, attorno alla presa di posizione del Presidente a proposito delle indirette intercettazioni svolte sulla sua persona, ha espresso quanto segue durante la sua partecipazione ad un convegno di costituzionalisti a Roma: "Il campo di ricerca in cui operate dovrebbe rappresentare il terreno di formazione della classe dirigente, se non si vuole che la politica scada a esercizio dilettantesco che pretende di trarre la sua validità dal consenso elettorale ottenuto...". Non esprimo giudizi sulle prese di posizione di Napolitano, non essendomi fatto un quadro completo della faccenda in cui le sue esternazioni si collocano (si parla di anni e anni di misteri italiani), ma credo che il fatto che i politici debbano sviluppare un proprio curriculum specifico, e necessitino di una forma di "scolarizzazione alta", nonché vengano scelti elettoralmente sulla scorta di una dimostrata conoscenza di un mondo loro, che definiremo per brevità "politico", io credo costituisca il "minimo sindacale" per uno Stato funzionante.
Infine. Giovedì 19 luglio un deficiente con dei problemi (o un povero diavolo, naufragato nei suoi problemi) si veste da Jocker, e a Denver, in Colorado, alla prima cinematografica dell'ultimo film di Batman, entra ed esce dalla sala e spara sulla folla, uccidendo dieci persone e ferendone 58. La colpa è dei fumetti maledetti, violenti (quello di Frank Miller, Il ritorno del Cavaliere Oscuro, in questo caso), non della liberalizzazione all'acquisto delle armi (che Obama, in lancio elettorale, ieri ha detto essere fondamento di libertà); non di una società incasinata che mediaticamente idolatra queste persone anche quando la loro esasperazione si trasforma da malessere personale in pazzia violenta. I fumetti. I nemici di sempre. Molti sono violenti, è vero, Alfredo Castelli, creatore di Martin Mystère e grande conoscitore della storia del fumetto, ricorda sul Corriere della Sera del 22 luglio la facilità con cui si arrivi a colpevolizzare i fumetti; come negli anni Cinquanta questa fosse una abitudine, e come anche Nilde Iotti fosse stata allora tra i fustigatori dell'arte sequenziale quale strumento del capitalismo rivolto ad obnubilare la mente dei più giovani (e se lo disse Nilde Iotti, poi!). Personalmente, quando James Holmes (il pazzo omicida, il triste naufrago) ieri si è presentato in un'aula di tribunale, con i capelli ancora colorati di rosso-Joker, con il suo volto assente, sedato forse, ma più che altro lo definirei svuotato, mi è sovvenuto quanto possa aver pensato, riflettuto disperatamente sul suo atto folle, come avesse riversato, forse, una vita intera di passioni, di aspirazioni, tutto in quel folle gesto; e quindi in quell'aula, quando  infine era  stato ormai tutto compiuto, completato, dentro di sè trovasse solo vuoto, solo nulla. Chiudesse infine gli occhi. E restasse solo, caprio espiatorio di sistemi che stanno fuori dalla sua mente e che ora della sua vuota corteccia celebrale infine si nutrono per alimentarsi. Un omicida, da condannare certo, e senza giustificazione alcuna, che probabilmente, nei democratici United States, che perlopiù votano convinti contro l'assistenza sanitaria per tutti, che permettono ad un ragazzo di acquistare delle armi per strada, finirà nel braccio della morte e poi nel 2013 o 2014 su di una sedia elettrica oppure con una siringa velenifica nelle vene.

domenica 1 luglio 2012

L'Italia s'è desta?

Questa sera si gioca Italia -Spagna, finale dell'Europeo di calcio polacco-ucraino 2012. E' meglio scrivere prima che si giochi la partita, perché saranno ugualmente insopportabili le pantomine infinite e il florilegio di aggettivazioni inusitate che subiremo nel caso di vittoria o il trauma autoconsolatorio e autogiustificativo in caso di sconfitta. Siamo italiani, siamo umani, viviamo un'epoca mediatica, quindi è così. Mettiamocela via!
E' questo, prima della partita, un ottimo momento per parlare di Italia e per parlarne come se ne parla al bar, perché è estate e e perché tra poche ore saranno tutti in piazza o al bar (con maxischermo incluso, ovviamente). Una premessa, non sono un detrattore, nè uno sciovinista, chiariamo subito: io alle ore 20.30 sarò davanti allo schermo e tiferò Italia, perché mi fa piacere farlo, ma pariteticamente, finita la partita, chiuderò la faccenda, consapevole di come un evento sportivo di tale caratura possa apparire determinante per un paese come il nostro e tantopiù ora, nel luglio 2012. Tempi di crisi, negata per mesi e mesi e ora mediaticamente palesata nella bocca e nei comportamenti di tutti. Il paese non è lo stesso di quattro anni fa, o meglio la consapevolezza del proprio stato si è completamente modificata. La consapevolezza è uno stato etico, è parlare con il linguaggio appropriato; e oggi, magari nascondendoci solo un pò dietro il cuscino, stretto al petto come scudo inutile, finalmente usiamo parole adeguate. Crisi è crisi. Malessere è malessere. E così, consapevoli, ogni occasione data ci permette di esorcizzare il timore che le nostre aspettative possano essere state frustrate non temporaneamente, ma per sempre; che il futuro possa tornare roseo, ma di un rosa più tenue di quanto lo fosse stato fino a poco tempo fa. Ecco quindi che il 28 giugno, come sempre per caso, sul palcoscenico internazionale, l'Italia si scopriva impegnata in un doppio confronto con la Germania calcistica e politica e palesava di poter contare, mentre i media trasferivano ad un popolo nuovi scampoli di identità sopite. Certo come è tipico dei media le notizie escono confuse, e così la sensazione è che mentre Mario Ballottelli pone e impone condizioni tenaci al cancelliere Angela Merkel, l'altro Mario, Mario Monti, forte di due tiri in porta esclude la Germania dalla supremazia calcistica europea. Passa sullo schermo, durante la partita calcistica, l'immagine di un tifoso italiano vestito dal protagonista del videogame Super Mario, come esempio traslitterato delle esperienze virtuali che stiamo vivendo. La partita finisce 2-1 per l'Italia, e a livello europeo passa un'idea d'Europa diciamo più "europea", ma tutto appare quasi virtuale. Solo scendendo in strada dopo la partita e vedendo un gruppo di scalmanati pseudo-tifosi italiani aizzare altri pseudo-umani urlanti e saltellanti sui tetti dei furgoni, mentre la polizia fa fatica a contenerli e mentre dietro famiglie, ma anche persone sole in macchina, festeggiano a colpi di clacson, capisci che stiamo nel mondo reale. Capisci che si sta urlando non per festeggiare, ma per sputare sulla strada frustrazioni personali o determinate anche da un periodo storico preciso: il nostro. Contemporaneamente 600 immigrati o naturalizzati tedeschi si scontravano a Wuppertal con 800 tedeschi che apostrofavano i primi con cori razzisti. E similarmente a Wolfsburg, a Monaco, anche a Berlino. Notte di festa virtuale e mentale e di affronti e stupidità reali. In Italia intanto ci si svegliava e si andava al lavoro e sullo schermo passavano oltre agli elogi calcistici, al seguito del carro dei vincitori, le posizioni dei soliti politici, in rappresentanza dei vari schieramenti partitici: ciascuno con un proprio distinguo analitico e con la triste consapevolezza virtuale di contare molto, pur nell'incapacità reale di rappresentare stati d'animo e sensazioni. La disillusione passa per il blu, per il rosso, per il nero e per il verde, che per quanto si voglia dire è pur sempre un colore della bandiera italiana. Ci si smarca di continuo da qualcuno e da qualcosa e l'atto politico si riduce a questo, perchè è talmente impegnativo farlo e comunicarlo, che la produzione di fattibili idee imporrebbe turni doppi, che nessuno vuole accettare. Infine le chiacchiere restano e il disagio crea ancora distinguo, che non portano forse nuovi colori, ma generano comunque nuovi gruppi di definizione e altre chiacchiere, che pur passando per il web, sono pur sempre le stesse, amplificate e apprezzate perché diverse, ma non necessariamente più convicenti. E mentre si parla, per voler sentirsi partecipi e solidali, si inserisce qua e là sempre la parola Emilia. Una terra provata quella emiliana. Mi hanno fatto specie questi paesaggi che qualche gigante ha attraversato, posando qua e là i piedi su qualche casolare, su qualche monumento, lasciando a terra macchie isolate di rovine. A metà strada tra noi professionisti (io sono un architetto) e il saggio uomo della strada, aleggiava da sempre l'idea che "guarda le case di oggi, che sembrano solidissime, ma sono invece costruite male; guarda i monumenti antichi, che sono invece eterni!". Sì, ecco, appunto! Per l'Emilia è stato tutto un mettere in moto gruppi di lavoro, solidarietà, e meno male, meno male che ci sono le persone che hanno un senso di responsabilità verso il prossimo. Il problema centrale è quello della dichiarazione di agibilità dei fabbricati, si mandano professionisti preparati in sito a valutare, professionisti volontari e non pagati. L'agibilità di un fabbricato viene fatta a vista, senza strumenti, senza alzare le malte, senza prove non distruttive pertinenti, senza soldi insomma. Solo professionisti volontari in gruppi di lavoro a guardare qua e là fessure, lesioni, così, per esperienza passata. Poco importa se una lesione su un muro a sacco possa risultare diversa di quella sviluppatasi su di un muro pieno con mattoni maschiati a dovere. Se il professionista è serio deve dare un parere, ma se è veramente serio non può assumersi la responsabilità in carenza di certezze provate. Meglio dichiarare un edificio inagibile che andare a tentativi. Resta quindi la sensazione che questi territori dovranno subire condizioni di inagibilità prolungate. E' inutile creare false aspettative, come è stato per il centro di L'Aquila, ed ecco, allora, come ci si rende forse conto che l'inverno non è lontano e che il problema è enorme. Il punto va fatto a freddo, va fatto a settembre, sperando offra un quadro della situazione più rosea di quanto a caldo e con il caldo appare ora. Insomma l'Italia, che si vorrebbe destare, ma che sente ancora il sonno arretrato, che di sollevarsi sente il bisogno, ma non ha ancora la forza di togliersi dalle membra le pesanti coperte. Il Presidente Napolitano, ha saputo dire dopo la vittoria calcistica italiana, che quella con la Germania era stata un'impresa senza aggettivi, che non c'erano parole per dire quanto gli azzurri fossero stati grandi. E in effetti, in genere, io credo (e vorrei venisse letto senza alcuna nota qualunquista) che gli aggettivi possano mancare spesso e non solo in quell'occasione, e spesso non per qualificare la grandezza, ma forse meglio la confusione. In bocca al lupo italiani.   

martedì 19 giugno 2012

Rifiuti

Non è mai piacevole ricevere un rifiuto. Dello stesso parere sono le strade della mia cittadina. Ogni giorno ricevono chili di rifiuti, molte volte opportunamente differenziati, spesso disseminati a caso. Da quando la giusta raccolta differenziata ci ha portato a dover porre attenzione a quanto abitualmente scartiamo, sono maggiormente portato a "verificare" le cose gettate. Vorrei essere più parco, essere meno "produttivo", fare più ferie nella pratica dello scarto. Invece è un diluvio, un flusso continuo di cose gettate; a volte mi guardo da fuori mentre scelgo, seziono, divido, confeziono, getto, compatto e mi  sembro un pazzo per il lavoro mostruoso che l'operazione mi impone. Quando d'inverno, dopo cena, mi tocca vestirmi, scarpe, berretto e giaccone, e scendere nel vento più assurdo, che la vicinanza triestina ci lascia in eredità, per depositare il sacco della plastica, nel momento stesso in cui lo poso e lo vedo quindi fare dieci metri buoni ,trasportato dal un refolo improvviso, mi interrogo sul ruolo dell'uomo in generale, sul senso delle cose e se anche quel lavoro inutile della raccolta dello scarto venga considerato come atto nobilitante per l'essere terreno. Quante sensazioni si affiancano alla prassi quotidiana del "rifiuto". Prima di tutto mi pare emerga il senso della perdita e per ovvio contrario dell'accumulo. Se effettivamente faccio una disamina della mia vita trascorsa, il legame con la "roba" è indiscutibile: l'accumulo delle cose. Ogni tanto mi guardo attorno e mi scopro sovrastato. Vorrei, in quei momenti, gettare tutto dalla finestra, liberarmene; sento il bisogno del vuoto, della pulizia attorno a me! Dura pochissimo, riscopro subito il senso della perdita che proverei nel non avere più le mie cose, quelle inutili specialmente; ogni cosa un ricordo, magari poco piacevole, quindi monito. Ma ogni piccolo oggetto è una coperta calda, e quindi magari lo sposto di poco, lo ordino secondo sequenze soggettive e difficilmente comunicabili. Mi crogiolo nella pienezza. E subito dopo l'ansia si accentua di nuovo, finché, in momenti precisi, che definirei cambi radicali nell'esistenza, mi rendo conto che certe cose non mi appartengono più, che senza è realmente meglio. Riempio allora buste su buste e me ne libero. La maggior parte di questi rifiuti, per inclinazione, sono cartacei: appunti, locandine, pieghevoli pubblicitari per qualche manifestazione, poster, riviste importantissime e ora inutili, costose e ora ingiustificate. Insomma pacchi e pacchi improvvisi di scarti dei miei ricordi di cui mi libero, per acquistare ancora un piccolo spazio nel cervello, per accumulare nuove sorprese e emozioni che le vicende future sapranno regalarmi. Tengo e accumulo, getto e perdo, faccio spazio! Non credo che sia così per tutti. Per i più il rifiuto è qualcosa da lasciare in giro, per strada spesso, buttarlo proprio lì nell'aiuola o nel vaso da fiori del mio condominio; sotto casa ho trovato in questi ultimi anni: materassi, assi da stiro, bottiglie di birra, messe in fila o a formare corone, valigie, batterie d'auto, taniche di benzina (vuote, accidenti!), scarti degli imballi di gelati, sacchetti di ogni tipo e misura, mozziconi a pacchi (ieri ho visto il gestore di un bar del centro, uscire dal locale con dei posacenere in mano, accostarsi alla strada tarfficata e versarne il contenuto sull'asfalto, con il cestino a due passi. Che coglione!). Sì, la gente è anche incivile, ironica a volte (vedi la foto di testa), e non ama lo spazio che vive, o forse lo ama troppo, ma male, e sinceramente non capisco il perchè. La gente trasferisce spesso in un gesto un grande vuoto interno; ruota un posacenere, così come svuota quello che porta di se stessa dentro il proprio animo. Non sa trattenere niente, nell'inutilità che prova nel cogliere la percezione del vuoto che ha al suo interno. 
Stamani sopra i bidoni del vetro ho trovato una tigre, una grande tigre di peluche, con il capo riverso sul fianco; triste, amareggiata, che quasi mi è venuta voglia di prenderla. Non sarei stato perdonato per questo, ma ora rifletto su come si possa liberarsi di un oggetto così.
Chi ha dovuto farlo credo ne stia già sentendo la mancanza, perché l'ironia non è sufficiente a spiegare quell'istante in cui l'essere umano non ha avuto la forza per prendere l'oggetto e affossarlo nel buio di un cassonetto. Calvin ha perso il suo Hobbes. Un ragazzino è diventato suo malgrado adulto. Speriamo ciò sia un bene!

   copyright Bill Watterson

mercoledì 13 giugno 2012

Bruce in Triesteland

11 giugno 2012, ore 21.20 circa, Bruce Springsteen è a Trieste con un concerto imperfetto. Ma se questo è un concerto imperfetto (l'audio non è certo buono, non sempre almeno, e Bruce è visibilmente stanco per il concerto di Firenze della sera precedente) è ancora più utile per capire cos'è Springsteen per i suoi fans. Perché i fans lo seguono, lo stimano, perché? Perché li rispetta per la loro passione e quando può (nei concerti specialmente) li ricambia. A Trieste è stato tutto molto bello, ma le mie emozioni sono saltate su Downbound train (su tutte), The River e Thunder Road. Perché? E che ne so! Il resto era bello uguale. Insomma, un concerto iniziato con Mandi Trieste!, un modo inconsapevole per cancellare con due parole annosi campanilismi da Bar Sport, e finito con le persone uscite dallo stadio che parlavano tra loro dei concerti di Milano, di Firenze, di quello appena visto, e pareva, Trieste, una città alquanto diversa, finalmente nuovamente invasa, e questa volta, per la prima volta nella sua storia, utilmente.
Non vi piace Bruce Springsteen? Pazienza.

giovedì 7 giugno 2012

Strade

Esce in questi giorni in libreria un volume dedicato a Bruce Springsteen. Lo ha scritto Daniele Benvenuti di Monfalcone, la mia città. Il volume si intitola "All the way home - Bruce Springsteen in the Italian Land 1985-2012", Luglio Editore, Trieste. Il libro racconta di fatto una passione. Il sottoscritto è molto attratto dalle passioni forti, non come ragione di vita, ma come filo conduttore per ricerche molteplici. Il libro racconta tutti i concerti di Springsteen in Italia dal primo del 1985 (il famoso concerto di Milano durante il tour di "Born in the USA") ad oggi, e li racconta con la capacità di chi fa il giornalista, spesso anche musicale, di mestiere,  ovvero con il piglio del fan-collezionista (in questo caso di dischi, memorabilia e concerti springsteeniani: il nostro ne ha visti 120 o forse più, in giro per l'Europa e anche in America) e la professionalità di chi segue il mondo musicale anche per mestiere. Vari gli spunti, oltre la disamina dei concerti, e  molteplici i punti di vista con cui il mondo di Springsteen viene verificato, tecnicamente e sociologicamente. Ne viene fuori, infine, uno dei volumi più singolari e più interessanti scritti sul cantautore americano.
Io e Daniele abbiamo cominciato ad ascoltare musica insieme. Abbiamo passato 5 anni seduti uno affianco all'altro al Liceo Scientifico di Monfalcone. Lui, grazie anche, credo, all'influenza di qualche suo cugino più grande, iniziò a frequentare da prima i dischi della P.F.M. (tutti i pezzi di "Suonare suonare" divennero una specie di mantra continuo da cantare a ricreazione o ovunque ci si trovasse), mentre covava la sua passione altra, per la U.S. Triestina Calcio, a quei tempi trascinata da Totò de Falco, Costantini, Ascagni; poi virò sul rock di matrice americana, e io indirettamente con lui. Fu lui a farmi ascoltare per la prima volta "Born to Run", con quella "Jungleland" che adoravo; fu lui ancora a regalarmi "Running on Empty "di Jackson Browne, amore per me immenso, partenza per tutta la musica anni '70 americana. Poi uscì "Born in the U.S.A." e Springsteen non fu più lo stesso Springsteen. Lui andò al concerto dell'85, io no. Ascoltavo quel giorno, il 21 giugno 1985, i telegiornale e i radiogiornale parlarne per quell'evento che è stato, consapevole di aver perduto qualcosa. Nel 1986 si partì invece insieme, come inviati di Radio Città Futura, storica emittente monfalconese, per rendicontare del concerto di Van Morrison (quello di "Gloria", G.L.O.R.I.A.) al Rolling Stone di Milano. Fu entusiasmante anche se per me il G.L.O.R.I.A. cantato dall'irlandese era un semplice Na, na, na....., ma fu un inizio. Ci si schierava infine, chi sceglieva il rossetto maldato e il nero di Robert Smith di The Cure e il dark in genere, chi i jeans sporchi di olio di motore della copertina sprinsteeniana, chi il cantautorato di Fabrizio De André, di Gaber, di Guccini. Scelsi il secondo e infine il terzo (grazie a Luca, a Oscar). Con Daniele si ascoltò per la prima volta The Clash a casa di amici, la Tommy Gun di "Give 'Em Enough Rope". Non la si capì allora sino in fondo. Poi il Liceo finì, lui e altri seguirono la strada del giornalismo, da prima locale, ma in fondo non ci si è mai persi di vista. Ultimamente si è parlato varie volte di questo volume mentre andava scrivendosi, finalmente esce. Lunedì 04 giugno ero a Trieste a Palazzo Gopcevich a godermi la presentazione del volume, con tanto di sindaco di Trieste springsteeniano anch'egli, seduto lì accanto. In sala non c'ero solo io, ma moltissimi appassionati, anche Luca, anche altri amici di quei anni '80 perduti. Mi sono un pò anche commosso e al contempo entusiasmato. Un percorso si chiudeva idealmente, non per Daniele, la cui strada è ampia, ma per me, per la mia giovinezza in fondo sì. Ho visto passioni che si sono trasformate, sono cresciute, hanno vinto, alla lunga. Ho visto vite trasformarsi, cambiare, amicizie perdersi e ritrovarsi e cambiare. Ho compreso che certe cose si trasformano di continuo, divenendo tutto quello che vogliono essere, in autonomia apparentemente, anche se la strada, lunga, si chiama sacrificio. Per festeggiare, lunedì 11 giugno, Bruce Springsteen sarà a Trieste per il suo nuovo tour, a Trieste, non a Milano, Roma, Londra, ecc. ecc., ma a Trieste, anche questo segnale dei tempi che cambiano, probabilmente del mercato del disco che cambia, della necessità del tour promozionale per ogni artista. Ma lunedì si andrà a Trieste, si costruirà un altro ricordo, consapevoli che lo stadio, invisibili tra la gente, conterrà tutti gli amici ricordati e molti di nuovi e di insospettati. Lo vedo come un brindisi, questo concerto, un brindisi a noi e alla nostra piccola storia. Una storiella, se volete. Come volevasi dimostrare: "All the way home", "Tutte le strade portano a casa". 

martedì 29 maggio 2012

Essere o non essere

Il dilemma dell'Amleto shakespeariano non è a volte solo una argomentazione intellettuale, una tortura interiore che spinge a valutazioni anche estreme. No! A volte essere o non essere è semplicemente un dato di fatto. Indipedentemente da noi. Chi in questi giorni sta vivendo l'angoscia esistenziale del tutto esteriore del terremoto in Emilia, vive questo dilemma come un'affermazione di dubbio e non una domanda interrogativa. Il D.M. 14 gennaio 2008, che ha esteso a tutto il territorio nazionale l'obbligo di considerazioni costruttive antisismiche, impone alla luce di questi giorni di scosse, paura, sfollati e morti, una riflessione su come i dati storici che hanno prodotto le mappe sismiche nazionali in uso a volte possano risultare carenti e di come l'attenzione preventiva antisismica non sia solo una esagerazione del legislatore, ma un dato da verificare puntualmente. Lo Stato, che paga economicamente in solido (leggi nuovo debito pubblico) situazioni come quelle di queste ore, deve investire continuamente (creando lavoro attorno a questi investimenti), affinché queste situazioni possano essere non previste (cosa impossibile), ma prevenute. Lo Stato Italiano non ama la parola prevenzione, e ciò è un dato di fatto, testimoniato dalla Nostra Storia. Non vi è nessun accenno polemico in ciò, è una semplice constatazione di metodo, perché in questi frangenti affrangono più le vittime, umane in primis, storico culturali in senso generico. Da professionista attento al patrimonio storico culturale italiano mi sento di dire che quanto in questi giorni si è andato perdendo mette a disagio. Ciò che si è perso si è perso. Si potrà ricostruire, "ripristinare", praticare il "dov'era e com'era", ma saranno altre cose. Ciò che si è perso si è perso. L'uomo prima di tutto, ma per seconda la comunità, la storia collettiva su cui quella si fonda, i segni, le testimonianze che garantiscano il senso di collettività come tale. Resta infine il solito disagio per il mondo mediatico che accompagna come fossero telecronache sportive questi eventi: le dirette, le inchieste, il "processo al terremoto". I media mi fanno veramente schifo. Tutti. Perché sono incapaci di fare informazione pubblica, utile e concreta. Le parole più significative sono state quelle di un intervistato che dinanzi alle macerie delle proprie stalle dice (vado a memoria senza pretesa di fedeltà puntuale): "Si resta atterriti da questi fatti! Quando succede agli altri, si guardano le cose per televisione, poi la si spegne e si torna alle proprie vicende di tutti i giorni. Ma, quando succede a te, non puoi spegnere niente, il dramma è perenne!". In bocca al lupo a voi tutti emiliani terremotati! Non capisco nemmeno un briciolo del vostro dramma, guardando le vostre lacrime nello schermo televisivo. Non capisco nulla, scusate! Scusate se le mie sono lacrime di coccodrillo!