sabato 24 settembre 2011

Il dire e il fare (e in mezzo il mare)

Il giorno 19 settembre scorso alla recente Festa del Libro di Pordenone (pordenonelegge.it) ho avuto occasione di assistere ad una conversazione tra Andrea Cavalletti e Giorgio Agamben (docente di Filosofia teoretica all'Università di Venezia) attorno al testo Cultura di destra, oggi ripubblicato da Nottetempo di Roma, del critico e studioso germanista Furio Jesi, scomparso nel 1980. Il testo del 1979 raccoglie due saggi sviluppati attorno ad uno studio iniziato nel 1964 sulla "macchina mitologica," sul "mito" e sulla "tecnicizzazione del mito". Jesi parte da un concetto: chi si occupa di "mitologia" deve occuparsi anche di "cultura di destra"; ovvero l'uso del "mito" per fini politici, l'uso tecnicizzato del "mito" a fini politici; l'uso della "macchina mitologica" (da parte della cultura di destra) che al tempo stesso è fuori dal tempo quotidiano, ma che comunque sa nutrire la vita quotidiana. Il mito offre un linguaggio; la sua manipolazione (del mito) è riduzione di un vocabolario (di un linguaggio) a tramite. Si crea quindi, suggerisce Jesi e riprende Cavalletti durante l'incontro, quella "pappa omogeneizzata" che gli autori usano, componendo mitologie che hanno la funzione di fabbricare precisi assetti sia del presente che del futuro, assetti di tipo conservativo. Ecco che l'eredità culturale di destra, il suo linguaggio, è qualcosa di cui siamo perfettamente all'interno, che inevitabilmente viviamo. La macchina mitologica, suggerisce Cavalletti (così banalmente lo parafraso per quanto mi consente la memoria), oscilla e si muove; quella "pappa omogeneizzata" si adegua e muta, sfuma nel patriottismo, nella spiritualizzazione del lusso (la pubblicità) che inevitabilmente è anche materialismo. Ecco che le parole usate (Jesi ricorda i testi, le parole della scrittrice di romanzi rosa Liala), "non vogliono essere capite, sono fatte per non essere capite, ma lette e basta" (De Amicis era per Jesi esempio della "macchina mitologica" al lavoro). Fin qui il pensiero di Jesi esposto da Cavalletti. Giorgio Agamben trasfigura durante l'incontro quel pensiero e avanza un'importante riflessione, importante secondo me per guardarsi attorno e capire il "mare culturale" in cui abbiamo e stiamo nuotando (annegando?). Cultura di destra, il libro di Jesi, dice Agamben è l'ultima configurazione di un itinerario di ricerca condotto dall'autore, è "l'ultima pagina di un romanzo che Jesi non ha mai cessato di scrivere". Un libro da leggere tra le righe, e infatti così fa Agamben. A Jesi, suggerisce, interessa il "residuo culturale di destra", ciò che è anche in chi di destra non è. E aggiunge: quali esempi di sinistra citare se la destra è quella che si dice? Ed ecco l'assioma, non dubitativo, affermativo, assoluto, da prendersi per come viene detto e all'interno del quale sta già scritto tutto. Un concetto che non pone piani metaforici, che non sottende, che vale di per se stesso. Propone Agamben interpretando Jesi: "Tutta la cultura è cultura di destra. La sola cultura di sinistra è quella che considera che la sola cultura che esiste è quella di destra". E' questa, suggerisce (e qui, secondo me, con molta intelligenza e lungimiranza) Agamben, una riflessione che attraversa il pensiero di Jesi, prendendo però a caposaldo le riflessioni di Walter Benjamin. In particolare quando quest'ultimo sottolinea che: ogni opera è documento della barbarie che l'ha resa possibile. Non ci sono dunque due culture, come tutti pretendono e vorrebbero, alla faccia di Bobbio (Destra e sinistra, nel 1994) e a chi ha proposto il tema di maturità di ambito storico-politico di quest'anno, riprendendo ancora Bobbio e Veneziani e Carocci, ma probabilmente una sola, e "l'altro" è contenuto nel primo anche se non propriamente coincidente con esso. E' un paradosso che però, dice ancora Agamben, ci libera di tutte le banalità dette e da dire su cultura di destra e di sinistra, e che porta la cosidetta cultura di sinistra a poter accettare infine che anche gli scritti di Céline o Ezra Pound abbiano una grandezza poetica e filosofica maggiore di molti retorici e inutili scritti di "sinistra". Esiste quindi, dice Agamben, solo la cultura degli uomini e il suo ruolo è nel documentare le barbarie che l'ha resa possibile (di nuovo Benjamin). Questa consapevolezza però non è cultura di destra, bensì cultura di sinistra. La cultura di sinistra è quindi proprio la presa di coscienza che tutta la cultura è di destra. La tradizione culturale è sempre quella dei vincitori (affermazione di Agamben, ancora). La lucidità, che permette di leggere un'opera con la consapevolezza del dove questa è nata, è ciò che forse possiamo chiamare cultura di sinistra. Dire che tutta la cultura è cultura di destra non è un giudizio di valore: non c'è disprezzo. E' presa di coscienza, è un'affermazione: è nell'enunciato stesso (l'averlo detto!) che si nasconde la lucidità, la cultura altra, che potremo appunto chiamare di sinistra. Ritornando alla "macchina mitologica" di Jesi, Cavalletti suggerisce ancora: la cultura con la "maiuscola" è "mito", perché elude le contraddizioni; è ancora la pappa omogeneizzata che crea al suo interno le parole d'ordine: Tradizione, Cultura, Giustizia, Libertà Rivoluzione. Ecco quindi ancora l'affermazione: la cultura è tutta cultura di destra perchè le sue parole sono parole con la maiuscola. Minoritario (ancora Agamben), ovvero "dalla parte della minorità" è anche Autoritario; così come l'Autorità è anche non autoritaria. Io credo che questi pensieri, che ho molto apprezzato (e che in questo racconto parafrasato forse in parte svilisco), consentano grandi sviluppi e riflessioni per la lettura del nostro tempo, e garantiscano alla fine due importanti insegnamenti pratici: il primo è che la contraddizione, il dubbio è un bene non trascurabile (sempre Agamben rilegge una frase di Bertolt Brecht: "in tempi oscuri non ci sono pensieri buoni"). Il secondo è che la lucidità è consentita solo guardando la barbarie da vicino, comprendendo che solo stando dentro le cose risulta possibile muoversi. La fatica è immane (il mare), ma è la sola che conduca a risultati.

giovedì 15 settembre 2011

Residenze

Ho letto di recente un'affermazione di Frank Lloyd Wright, maestro dell'architettura internazionale. Dice: La morale è una convenzione, mentre l'etica è un principio. Su queste pagine ho spesso usato questo termine, etica, richiamandolo come una mancanza, un vuoto che questi tempi non riescono a colmare. Tempi, appunto, privi di principi e ricchi di convenzioni. Ebbene, non tutto è perduto. Incredibile!!! L'ho trovata, l'etica intendo, e altrettanto incredibilmente vi svelo dove sta di casa: a Forlì, in Italia. Non tutto è perduto...

domenica 11 settembre 2011

Gian Alfonso Pacinotti in arte Gipi

Sapevo che ci sarei cascato. Non sapevo quando, ma prima o poi sapevo sarebbe successo. Di dedicare un post a GIPI, al suo lavoro, a ricordare l'innamoramento che provai e provo per il suo lavoro. Anzi, forse ancora di più l'invidia che mi provoca la sua capacità di raccontare storie. E' questa la sua dote maggiore, unita ad una tenacia nel proseguire le proprie iniziative artistiche, che lo porta a volte a cadere in vicoli retorici, ma anche a manifestazioni assolute della propria capacità. Gianni porta con sé il "genio"; è uno dei pochi che mi sia dato conoscere ad averlo in dote. E' una dote naturale certo, ma anche la conclusione di percorsi di ricerca inarrestabili, condotti nel segno del "fare". Gianni prima di tutto "fa", la sua innata curiosità lo porta a mettersi in gioco, a sacrificare il proprio fisico (gracile) e a dedicarsi alla propria arte, malgrado tutto. E' questa "fatica" che mi affascina di lui e che mi fa essere un suo fan, un estimatore; che mi fa e che mi farà guardare al suo lavoro sempre con benevolenza e difenderlo malgrado "tutto". Oggi Gianni ha finito un suo film, dal titolo L'ultimo terrestre; naturalmente l'ha presentato alla 68. Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, in concorso, e non al cinemino provinciale di Pisa. Gianni fa così. Igor Tuveri, responsabile della Coconino Press ha ad un certo punto creduto in lui come fumettista (era il 2002, mi pare?); ha saputo consigliarlo o semplicemente mostrargli delle strade; l'ha aiutato ad elevarsi dalla "fuffa" dei tanti artistoidi dell'underground fumettistico nazionale e internazionale. Gipi ha saputo volare quindi da solo, guardare oltre. Dalla Coconino alla Fandango, a Procacci, che da produttore di "razza", ha capito di dovergli dare fiducia. Gianni ha vinto dopo la presentazione del suo film a Venezia, il Premio Fondazione Mimmo Rotella; è stato segnalato al Premio Pasinetti, come migliore opera prima; ha vinto il premio Arca Cinema Giovani. Il film è stato presentato solo tre giorni fa, l'8 settembre. Oggi che è l'anniversario dell'11 settembre, un evento che ha sconvolto il mondo, mi viene voglia di parlare di GIPI che ha scosso in meno di un decennio il piccolo mondo dell'arte italiana. E il buffo è che molti in Italia non lo sanno, molti se ne stanno là a fare finta che non sia vero. Cavoli loro. Amari per giunta. Io, che continuo a guardare fuori, ho visto per la prima volta il lavoro di Gianni in mostra a Treviso. Erano le tavole di quello che sarebbe stato Esterno notte. Non le capivo nel disegno, da tanto incredibili erano. Da lì, la voglia di presentare con ARTeFUMETTO, al tempo appena nata, il suo lavoro in zona Monfalcone. Lo facemmo a Cormòns, ad una fiera del libro, nel dicembre del 2003. C'erano lui e Marco Corona. A quell'incontro disegnarono praticamente solo per noi: non se li filava nessuno. Gianni disegnava sulle tovagliette dei tavoli al ristorante, su quelle della fiera, disegnava con tutto e di tutto. Diceva che l'aiutava a mantenersi sveglio durante la digestione. Allora presentava Esterno notte, e poi niente fu come prima. Grazie a quell'incontro, dopo Appunti per una storia di guerra (che vinse ad Angouléme), e dopo i premi a S. (una delle storie più fantastiche che ho letto, dopo Pompeo di Andrea Pazienza, e lo dico senza problemi, avendolo anche scritto più tardi su di un catalogo), riuscimmo a portare ancora Gianni a Monfalcone, nel 2007 (una nota: la inaugurammo l'8 settembre!), in occasione di una mostra dal titolo "Gipi. La vita tra le pagine", organizzata ancora da ARTeFUMETTO presso la Galleria d'Arte Contemporanea della città. In quell'occasione pubblicammo un libretto, che resta ad oggi il primo e unico (incredibile a dirsi, vista la quantità di materiale disegnato dall'autore) catalogo ufficiale dell'arte di Gianni (chi lo desidera può scrivermi, ne abbiamo ancora delle copie). Per allestire la mostra mi arrivarono via posta, da Parigi, da Barcellona, da Milano, a casa circa ducento delle sue tavole e disegni. Le avevo tutte sul pavimento della mia stanza, distese per sceglierle e mi pareva una cosa da brivido, per la responsabilità nel averle sotto tutela specialmente. Gianni arrivò a Monfalcone da Parigi, dove viveva allora, stanchissimo e sfinito dal suo giro infinito, dietro le presentazioni dei suoi libri. Alessia lo portò a comprare una maglietta nuova; io un telefonino nuovo. Mangiammo dei calamari fritti a Sistiana, di fronte al mare, e ancora oggi deve venire a prendersi il dolce. Fu per tutti noi, e credo anche per lui, quell'occasione una specie di situazione "fantasma", che ancora oggi non mi rendo conto bene di avere fatto. Durante un'intervista in diretta a RadioRAI, per presentare la mostra, feci a Gianni una domanda, in collegamento telefonico, mentre lui, allora, stava al Lido ,alla mostra del cinema di Venezia, dove un produttore voleva trasporre in film Appunti per una storia di guerra, cosa che poi non si fece. Domandai: "Ma ora che sei a Parigi, come puoi disegnare la tua campagna toscana, i "colori" della provincia?" Mi confidò poi a margine che se lo stava chiedendo e che quei paesaggi gli mancavano. Lasciò più tardi Parigi e tornò in Toscana. Lì naque LMVDM e a seguire poi l'intervista a Le invasioni barbariche di Daria Bignardi (con tutta la bagarre mediatica che ne seguì), le performance musicali/teatrali de La mia vita disegnata male; la trasposizione di S. con il gruppo I sacchi di sabbia (che ho anche tentato di portare a Monfalcone); la musica prodotta in casa; il fumetto sempre più lontano e infine il film. Un film tratto da un fumetto non suo (sembra incredibile, per uno che racconta benissimo), ma di Giacomo Monti. Gianni scelse quel fumetto bellissimo. A Gorizia, nel 2010, durante un incontro, ci confidò che ne aveva comprato i diritti, che ci stava lavorando. Oggi credo di aver capito quella scelta. La scelta di mantenere le distanze, di non mettersi a nudo dinanzi ad un pubblico più vasto (quello del cinema) di quello ridotto (e anche asfittico) del fumetto: lui che mette sempre tanto di sé nel suo lavoro, lui che probabilmente ora starà pensando a qualche film, tratto magari da una storia nuova, che andrà a sceneggiare, disegnare, musicare, portare a teatro, ecc. E non perché è commercialmente utile (non solo almeno), ma perché ciò gli consentirà di praticare strade nuove, tragitti inesplorati di una ricerca infinita. Vi regalo ora una foto di Gianni sul red carpet di Venezia. Mi scorge (credo) con la coda dell'occhio, mentre sto nel corridoio che porta all'interno della Sala Grande del Lido, dietro i fotografi ufficiali, mentre gli scatto una foto anch'io, verso le 17.30 dell'8 settembre, prima della "prima" del suo film e dell'applauso infinito che ne è seguito in sala (un film, il suo, forse non completo, ma di certo sociologicamente utile e significativo e un'altro esempio di come si possa raccontare bene indipendentemente dal linguaggio usato). Gianni dal red carpet sembra farmi una smorfia che è anche un sorriso. Io, Alessia e Fabio eravamo là per goderci la sua emozione, che infatti era grandissima.

giovedì 1 settembre 2011

Transiti e certezze

Il 31 agosto sono in visita alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. L'edizione numero 68 della sua storia. Quando vieni qui sai già che inseguirai le ombre di qualcuno. Chi ti passerà da lì a poco dinanzi non è che l'ombra di qualcuno, che sai nella vita forse non essere come ti appare o essere semplicemente la rappresentazione momentanea e pubblica di se stesso. Capita a tutti però di cercare di vendersi al meglio, di voler apparire oltre la propria essenza. In questo gioco di accettazioni reciproche decido di immergermi ancora. Inseguo le "star" e qui di certo, stavolta, non mancano. A margine del red carpet, nel solito casino infernale che lo contraddistingue, faccio la mia parte, ricerco l'autografo, scatto delle foto. Però non riesco a non guardare oltre la cosa. Scorgo così chi finge, chi si diverte, chi maschera tristezze o frustrazioni vere. Così prima di regalarvi alcune foto, vi dico solo che potrei raccontarvi di George Clooney che non riesce più a uscire dal suo personaggio, dal personaggio che tutti si aspettano intendo (nella foto sopra lo vedete mentre mi firma l'autografo, zittendo al posto mio un ragazzo tedesco che stava andando un pò in escandescenza da fan); potrei dirvi la sensazione di malinconia che mi trasmette il volto di Cindy Crawford, quel volto che è sostato così tanto nei miei calendari di studente e che ha perso ora qualcosa del fascino androgino immortalato dall'arte di Helmut Newton; potrei sottolinearvi l'algida bellezza della bionda Evan Rachel Wood, che decide di scansare la foto che gli porgo, per sceglierne un'altra da autografare; Philip Seymour Hoffman sa di non poter giocare la carta della bellezza, ma è consapevole della sua bravura d'attore e firma i suoi autografi con distacco calcolato: è l'amico che fa sempre la battuta, e tu a quella ridi solo per accontentarlo.Vi narro quindi di quella che è una grandissima attrice, quella che è destinata a restare soltanto e per tutti l'attrice non-protagonista per eccellenza: lei lo sa e, quando la gente la chiama, evita compiaciuta di concedersi; infine lo fa (per poco), ma solo perché non può sottrarsi. Lei è Marisa Tomei, mio idolo di sempre per il suo ruolo di fidanzata di Joe Pesci in Mio cugino Vincenzo, del 1992. E', ancora oggi, con i suoi 47 anni, la più bella di tutte, e, nonostante la sua superba ritrosia, non ce ne sta per nessuna. Infine vi racconto, come già vi dissi un anno fa, che ciò che poi ti toglie il fiato non è il tacco dell'attrice bionda o il sorriso di quella mora, nè la verve dell'attore di turno. Tutto ciò passa. Ma la laguna di notte, poco prima che tramonti definitivamente il sole, e quella sua sublime pacatezza, invece, resta perfetta ed eterna.