sabato 20 febbraio 2016

Decodificazione di una fenomenologia

Mi sveglio e scopro che ieri sera è scomparso Umberto Eco. E' di certo una mancanza importante questa del semiologo, alessandrino d'origine, che pone di certo, accostando alla sua morte anche quella di Ettore Scola, la necessità di una riflessione sulla cultura dell'oggi. I padri culturali delle ultime generazioni scompaiono e resta ben poco. Assumo improvvisamente consapevolezza che, presa la cosa così, filtrata cioè nell'ottica dell'omaggio continuo verso ciò che siamo stati, rischiamo nel breve di trovarci catapultati dai media in una sorta di fumerale continuo, disperdendo ogni possibilità di scarto (in avanti) nella contemplazione di "ciò che di bello siamo stati". Il professor Eco di certo non avrebbe gradito quell'adagiarsi nostalgico che si va prospettando per il futuro, e non so se gradirà molto questa serata che l'appena nominata direttrice di RAI 3, Daria Bignardi, gli farà dedicare a breve all'interno di quel tempio sacro dell'inutile piagnisteo nostalgico che è la trasmissione "Che tempo che fa" di Fabio Fazio.
Eco conosceva i media, approfondendo in tempi non sospetti il loro ruolo nella cultura massificata, e non si è mai astenuto dall'affrontarne i temi a partire da quel suo Diario minimo e soprattutto da quei suoi Apocalittici e integrati, incastrando in questo modo la propria esperienza intellettuale con quella del Gruppo 63. Li conosceva i media e sapeva usarli per la loro potenzialità, in alcuni casi servendosene per la propria carriera. Ma a posteriori, a quanti è servita poi realmente quella sua proposta iniziale di confronto continuo e incessante all'interno di un'Opera aperta ('62), giacchè, alla fine dell'esperienza postmoderna, ci troviamo sora pesso disorientati nell'assenza di certezze, a partire proprio dal fatto che i media hanno saputo trasformare ogni notizia in chiacchiericcio, allargandone la portata, ma non venendo mai a capo di un discorso? E quindi chiacchiere, ora, ai margini di Eco e di certo sulla morte di Eco. I media sanno bene come ogni fumerale significhi audience e copie vendute, è da sempre così, pescando di continuo nello stagno dell'"eravamo", indipendentemente da ciò che poi in fondo eravamo veramente. I politici sanno bene l'importanza del chiacchiericcio sul "tutto e sul contrario di tutto". E' imbarazzante far parte di tutto ciò, appartenere a questa era culturale dove la depressione di un intellettuale passa attraverso la sua consapevole impossibilità di poter rinunciare ad accettare quella per com'è. Perchè, rigirando il ritornello del Vasco Rossi dei tempi che furono più dell'"orgoglio ne ha uccisi il petrolio", ovvero il "soldo". E sono suicidi (della propria coerenza culturale), travestiti da omicidi, per mano, anzi per bocca, del chiacchiericcio che i media ci pongono a rilievo. Guardiamoci attorno: ma importa veramente a qualcuno di qualcosa di questi tempi e di ciò che vi succede? Ha realmente più senso una qualche cosa rispetto un'altra? Tutto è sabbai che si cala nelle dita delle nostre mani, si ammucchia a terra, vicino ai nostri piedi, permettendoci di calpestarla, procedendo così attoniti indifferenti il nostro cammino. I valori, così come il pensiero (analitico e critico per primi) stanno al di sotto delle suole delle nostre scarpe; a volte da seduti (nei momenti di contemplazione) ne ritroviamo qualche brandello appiccicato là sotto, ma sono momenti, esitazioni nel flusso del niente. Possiamo così permettere, con un certo voyeurismo distratto, che oggi si parli di unioni civili come si parla del tempo (che fa): io a favore, io contro, oggi sì, domani no, dimenticando che dietro a due parole ("unioni" e "civili"), ci sono persone, che respirano, che hanno bisogno d'aria fresca per respirare; oppure che si gestisca mediaticamente una vicenda come quella della morte di Giulio Regeni in Egitto come stanno facendo notiziari e giornali, nella cronaca continua (di una camera ardente, di un funerale), impietosa verso la sensibilità umana, tra la gestione dei dettagli di una vertebra rotta in più o in meno; che si fotografi un bambino morto sulla sabbia, in riva al mare, asserendo che foto così servono per sensibilizzare la gente, le nazioni, i parlamenti, verso certe tematiche, e non ammettendo che sono cazzate, che se uno è etico dinanzi al proprio lavoro di cronaca quella foto avrebbe dovuto non farla, per rispettare una vita umana e quella di coloro che ne hanno pianto la morte, ammettendo così che tanto se ci fossero parlamenti seri qualcosa di buono si sarebbe dovuto proporre comunque. Un mestiere ha un etica superiore ad ogni etica professionale. 
Ecco, professor Eco, arrivederci tra le parole, tra i segni linguistici e tra i suoi cari codici di comunicazione; non potrà più offrirci interpretazioni, lasciandoci così soli, sommersi tra mille, milioni, miliardi di parole dette a caso, inconsapevoli o forse rincoglioniti consapevoli che oggi non si muore (almeno dentro) solo di armi da fuoco, ma forse ancor di più di vocabolari.