domenica 27 febbraio 2011

Fuori-gioco

E' stato di recente pubblicato un libro interessante: L'egemonia sottoculturale. Il sottotitolo è L'Italia da Gramsci al Gossip. L'autore è Massimiliano Panarari. E' il tipico libro che sviluppa una riflessione sociologica, del tutto condotta "a sinistra", sulla perdita, dall'inizio degli anni '80, di una cultura significante, che è così scivolata in una sottocultura, che vuole essere ora sinonimo di mancanza, di vuoto. La causa ovviamente è la TV privata, le trasmissioni quali Drive In, ecc.. Diciamo la verità, ormai ne abbiamo sentite molte, troppe e dinanzi a queste operazioni non si resta stupiti, ma annoiati. Però ci sono alcune sottoverità in questa lettura, che condivido pienamente. Emergono di più nell'intervista di Panarari a Il Mucchio Selvaggio, nell'appena uscito numero di febbraio.
L'autore sviluppa i temi espressi nel volume: "Quello in televisione è un lavoro politico, fatto attraverso trasmissioni che di politico hanno poco...". Sì credo anch'io che la televisione di questi ultimi trent'anni anni nasca da un operazione politica, inconsapevole all'inizio e poi invece sempre più rivolta a creare consensi. Era forse già così (ma senza la volgarità e l'amoralità eccessiva che questi anni ci consente di tollerare) con la televisione degli anni '50 e '60; forse le figure politicamente/economicamente interessate erano altre, in un certo senso anch'esse meno volgari (comunicativamente) e direttamente coinvolte (nelle cose televisive intendo); forse anche il modo di fare comunicazione era diverso, forse no! Interessante invece nell'intervista è la citazione del filosofo francese Cornelius Castoriadis, usata dal Panarari nel richiamare il linguaggio odierno: "non importa cosa si dice, vale tutto e il contrario di tutto" (è il cosidetto "regime dell'equivalenza"). Sì, oggi è così, si ascoltano soltanto "parole svuotate dal loro significato autentico", strumentalizzate infine, più o meno volontariamente. "Le parole sono importanti"-dice Panarari- "vanno ricondotte ai loro significati originali". Sì, le parole sono pietre e vanno pensate nella loro valenza etimologica.
Il perché non è correlato ad una ricerca linguistica fine a se stessa e nemmeno quale dimostrazione di un pensiero intellettualmente marcato. No! L'uso ambiguo e strumentale della parola crea in chi la percepisce, la memorizza nel suo significato sbagliato, la usa quindi come propria, finendo per credere che non abbia altri significati che quello di cui si è ormai convinti abbia, la certezza di potere giocare con il linguaggio, per creare così un'autonomia dalla collettività, a favore di un individualismo sempre più marcato. Questo individualismo è quello che riscontro nei ragazzi, all'università o durante le iniziative che svolgo: è la convinzione di sapere, indipendentemente dal sapere. Di poter comunque cavarsela giocando con il linguaggio e quindi con la conoscenza. Di poter trasformare le situazioni invece che adeguarvisi. E' un gioco al rialzo, che porta in breve all'operare fuori dalle regole del gioco, fuori da un sentiero "etico". E' triste, ma i ragazzi sono così. Credono di poter giocare e giocarti con le parole e, nello spiazzarti continuamente, finiscono per spiazzare se stessi e rimanere delusi di tutto, del proprio stato, del proprio percorso. Non è un caso, appunto, che (come mi ha suggerito involontariamente una persona di cultura) de-ludere, etimologicamente, significhi "uscire dal gioco".
Dico questo perché i ragazzi vanno riabituati al significato delle cose, è un dovere primario delle cose e della cultura in primis: la televisione in tal senso ha già da molto de-luso, assieme a chi la fa, la dirige e la manipola.

lunedì 14 febbraio 2011

E il resto conta poco!

Ho visto ieri, alla manifestazione di Roma, donne sfogare delle frustrazioni maturate attraverso giorni, settimane, mesi e anni; cantavano e ballavano sul palco di Piazza del Popolo, People Have the Power di Patti Smith e qualcuna, le più giovani, piangeva nel sentire il momento. Dicevano di rivendicare una dignità calpestata, di farlo per prendere le distanze da un'idea di donna che non potevano condividere. Un'idea di donna-velina (che poi "velina" è per me prima di tutto la carta, quindi qualcosa di trasparente, che non copre completamente, che è inutile). Ho sentito e letto poi il pensiero di donne che dicevano che non sarebbero mai scese in piazza, perché quelle certe donne sono qualcosa d'altro da loro e non c'è il bisogno di rimarcarlo, che la dignità sussiste, che quelle esistano (come problema) o meno. Tutte d'accordo sulla dignità, indipendentemente dalla propria idea di voto, ma non sui modi di ribadirla e rivendicarla. E nel mezzo loro, questa minoranza, di donne, educate da donne (certo anche da uomini credo), coccolate da donne quando erano bambine e ora in parte strumentalizzate ancora una volta da donne (altre).
La questione femminile è una cosa complessa, quanto la politica; esistono entrambe da sempre. La questione femminile è cosa seria e la politica pure. E poi come sempre ci sono i diritti e come sempre, per fortuna, i doveri. Il problema è culturale e la sconfitta è in tal senso sempre dietro l'angolo. Giulia Bongiorno ha detto, dal palco di Roma, che bisogna stare attenti, è sempre un problema di linguaggio, di uso delle parole, del senso volutamente dato. Le parole sono pietre mi hanno insegnato persone che stimo o apprezzo e quando uso il termine "donna", ho consapevolezza del "fuori" e per quanto mi consenta la mia sensibilità anche del "dentro" implicito nel termine; ma sempre ad un essere umano finisco per pensare, con tutto il bene, con tutto il male, con tutto il conosciuto e lo sconosciuto che tale condizione propone. E l'unica cosa che ad un essere umano (e non solo umano) va riconosciuto è il rispetto. E ogni appellativo, ogni sottolineatura, oltre a questo sono, in fondo, superflui.

sabato 12 febbraio 2011

Mm...mmm...mmma...mma brrr...ma bravi!

Ma che cittadino è quello che considera ciò che è "pubblico" con indifferenza, e quindi in fondo non meritevole di cura e rispetto, solo perché è qualcosa di non "suo", di non proprio, di a-privato appunto.
Semplice è il tipico cittadino italiano!
Buona fortuna italiani.