domenica 29 novembre 2009

Feste private

Ieri, che era sabato, mi sono "dato" ad alcuni degli eventi che ormai abitualmente vengono offerti dalla cultura locale. Alcuni anni fa, diciamo sette, forse otto, al sabato pomeriggio non sapevi realmente cosa fare, a parte girare in centro, andare in qualche libreria, organizzare un'uscita al cinema, poi la pizza. Diciamo dal 2003 la regione FVG, in quanto territorio intendo, ha importato un modello alla milanese, alla romana (non nel senso della divisione in parti uguali, quello mai). Ovvero: tutti a costruire eventi, incontri, mostre, concerti e via così, con il risultato di una proliferazione di quei giornaletti gratuiti per l'informazione agli utenti, affinché questi non rischino di risultare sprovveduti dinanzi alla montagna comunicativa. Diciamo che sembrava una grande possibilità, alla lunga mi sembra si stia dimostrando un "fenomeno" che sta ottenendo dei risultati in parte contrari a quelli prefissati.
Partiamo dal dire che il bacino umano regionale non è nemmeno pari, per numero, ma anche per interessi, a quello di una metropoli. Inoltre la dispersione delle risorse non va sempre a beneficio della qualità delle cose. Io credo che per fare una cosa con significato, ma anche con una certa raffinatezza ci vogliono i soldi. Purtroppo è difficile pensare che questi soldi siano sempre pubblici. Altro problema è quindi che i soldi privati spesso preferiscono la cultura della "panza" al posto che quella della "testa". Quindi no problem per trovare soldi alla festa del cavolfiore, più problem a trovare soldi per una mostra di quadri o che so altro.
In questo marasma comunicativo, dove se sei in contatto con gli uffici stampa della zona vieni veramente bombardato di continuo da una miriade di imput che ti consigliano questo o quello e che se, come nel mio caso, hai un interesse alquanto onnivoro alle cose, ti costringono a farti dei veri micro-calendari da seguire, che poi, se perdi qualcosa alla fine ti sembra di non starci più dentro il sistema e di essere tagliato fuori, con il risultato che poi vai a vedere qualsiasi cosa senza nemmeno più un controllo qualitativo a monte e uscire non sembra più uscire senza che si debba vedere, sentire o fare qualcosa e ........Insomma è quasi un secondo lavoro. Ecco quindi che, alla fine di tutto questo processo, abbiamo cambiato tutto per non cambiare nulla (come ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), arrivando ad un calderone il cui significato si è azzerato, portandoci ad una situazione paritetica a quella in cui uno non sapeva che fare. Oh, certo, non parlo del fare nel senso del muoversi, dello spostarsi e dell'uscire per andare da qualche parte, ma del fare costruttivo, per seguire un profilo di ricerca culturale, un profilo di crescita. Questa cosa mi sconvolge parecchio, ma credo sia l'inevitabile traguardo di qualunque processo avviato senza un contenuto critico e progettuale alla base. Credo che uscirne, uscirne vivi intendo, costituirà un problema serio. Di certo la sensazione dall'interno è quella di una caduta e non quella di una crescita.


Comunque, ieri, sabato, preso da questa sindrome conpulsiva-culturale, perdipiù reduce da una sindrome influenzale e quindi tendente al rimbambimento già in partenza, sono stato a vedere l'inaugurazione di una piccola mostra di quadri a Trieste, poi a vedere una mostra di tavole originali a fumetti, poi a cibarmi di una pizza al volo, quindi ad uno spettacolo musicale-teatrale a sfondo civile. Alla sera mi sono trovato a commentare quanto visto assieme ai miei compagni di viaggio, tutti esausti difronte ad un the caldo.
Ciò che però mi spinge a scrivere è il fatto di essermi reso conto che le mie "scelte del giorno" sono state dettate da principi non culturali, non intellettuali, ma da conoscenze specifiche con persone, artisti e curatori, organizzatori o comunque correlati a questi eventi. Ho ripensato, inseguendo in realtà convinzioni già maturate da tempo, che tutto quanto si faccia a livello culturale nel nostro territorio (ma credo che il pensiero sia esportabile a tutte le realtà, non solo a quelle pseudo-provinciali, ma anche a quelle metropolitane) sia ad uso e consumo di un piccolo pubblico di parenti, conoscenti, anche appassionati settoriali, ma che in fondo questo "pubblico" sia alla fine raccoglibile in poche manciate di persone. O certo ci sono sempre nuovi adepti, "uno su mille ce la fa" come cantava Gianni Morandi, ma alla fine sono sempre feste private. Ieri ho seguito incontri, mostre e spettacoli e inconsapevolmente mi sono reso conto di conoscere la maggior parte di coloro che stavano sul "palco". Un mio amico molti anni fa, mi diceva: quando riconosci tutti quelli che stanno sul palco, allora è il momento di cambiare città. Che bestia! Che persona intelligente! Che paura!

domenica 22 novembre 2009

Nuvole

Un amico, dopo aver letto alcuni dei miei ultimi post, mi chiede preoccupato di questa mia propensione ad un certo decadentismo pessimistico.
Credo di doverlo rassicurare precisando che certe tematiche non mi sono nuove o correlate ad un periodo particolare, bensì connaturate al carattere. Credo di avere una propensione verso certi temi e da sempre una tendenza ad enfatizzare tali aspetti quando scrivo. Mi pare dunque che questo decadentismo sia in realtà una sorta di propensione innata, che ho sempre vissuto come una coperta calda e non come un peso. Sin da ragazzo leggevo testi o guardavo film che potremmo ricondurre ad una sensibilità che solo con superficialità potremmo definire malinconica. Mi interessavano certi racconti di Carver, alcune poesie di Baudelaire, certi film italiani non proprio solari (di Carlo Mazzacurati o di Francesca Archibugi). E' un modo di guardare le cose che poi non mi impedisce di farmi una sonora risata, ma che non trova forse nella risata in sè la soddisfazione maggiore. E' come mangiare quelle paste dolci che hanno in fondo un qualche gusto acidulo e non dispiacersene.

Per esorcizzare la cosa ripesco un piccolo scritto di Charles Baudelaire raccolto ne Lo Spleen di Parigi (raccolta di prose scritta tra il 1855 e il 1864), nella traduzione di Gianni D'Elia del 1997 per Einaudi. Un testo intitolato Lo straniero, che mi piaceva molto vari anni fa. Mi rappresenta ancora.

"Chi ami di più, dimmi, strano uomo:tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?"
"Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello".
"I tuoi amici?"
"Usate una parola il cui senso m'è rimasto fino ad oggi sconosciuto".
"La tua patria?"
"Ignoro sotto quale latitudine si trovi".
"La bellezza?"
"L'amerei volentieri, fosse dea e immortale".
"L'oro?"
"Lo odio come voi odiate Dio".
"Eh! Ma allora che ami, stravagante straniero?"
"Amo le nuvole... le nuvole che passano... laggiù... laggiù... le nuvole meravigliose!"
Sì! E le nuvole del Tiepolo, al tramonto, sono bellissime!

sabato 14 novembre 2009

Perché i veri tesori dell'uomo sono inutili?

Sento ancora il bisogno di parlare delle "cose" (vedi etichetta Vizi capitali n. 7: Avarizia). Mi è capitato tra le mani un testo di Bruce Chatwin, Anatomia dell'irrequietezza (pubblicato Adelphi), che ha tra i vari capitoli tematici che lo compone un saggio dedicato alle "cose". Il titolo: "La moralità delle cose", del 1973. Riprendo alcune frasi che vi ho trovato: "Ma le cose hanno un loro modo di insinuarsi in ogni vicenda umana (...). Uno scimpanzé usa pietre e bastoni come strumenti, ma non ha beni da custodire. L'uomo sì. E le cose a cui si affeziona di più non servono a nessuna funzione utile. Sono, invece, simboli, o ancora emotive. (...). Perché i veri tesori dell'uomo sono inutili?. Se capissimo questo, riusciremmo anche a capire i complicati rituali del mercato dell'arte."

E ancora: " Il vero collezionista, (...), è nella vita un voyeur, che si protegge con un'imbottitura di possessi da coloro che vorrebbe amare, dotato di sentimenti delicatissimi per le cose e di una sensibilità glaciale per le persone. (...). Il collezionista si crea un sistema morale da cui esclude gli esseri umani. Possiamo chiamarlo la moralità delle cose. L'acquisizione di un oggetto diventa per sé una Ricerca del Grall - la caccia, l'identificazione della selvaggina, la decisione di comprare, il sacrificio e la paura della rovina finanziaria, la Nube Oscura dell'Incertezza ("sarà un falso?"), l'impacchettamento, il viaggio a casa, l'estasi di disfare l'involucro, il disvelamento dell'oggetto della ricerca, la notte in cui non si va a letto con nessuno, ma si veglia, contemplando, accarezzando, adorando il nuovo feticcio - il compagno, l'amante, ma ben presto il seccatore, da cacciar via o da rivendere quando un'altra cosa più desiderabile lo soppianta nei nostri affetti. (...) Il vero collezionista ospita uno stuolo di amanti inanimati per puntellare le macerie della vita. In un'autoanalisi di precisione chirurgica , Mario Praz, nel suo "La casa della vita", spiega che sulle persone non si può mai fare assegnamento. Bisogna, invece, circondarsi di cose, perché loro non ti abbandonano mai. La raccolta d'arte è dunque un disperato stratagemma contro il fallimento, un rito personale per curare la solitudine. Il mercato dell'arte è l'aspetto pubblico di questa religione privata, e con la sua evidente irrazionalità, sembra sfidare ogni regola commerciale conosciuta. Tramuta l'uomo d'affari in un ingenuo credente, e fa sembrare un prodigio di accortezza il villico con la sua pignatta d'oro al piede dell'arcobaleno."

Direi che Chatwin è anch'esso di una precisione chirurgica. coglie aspetti umani di ampio respiro, sintetizzandoli con precisione. Chatwin spiega anche: "La parola "feticcio" deriva da un'espressione portoghese, fetico; indicante una cosa magica o incantata, con la connotazione aggiuntiva di un che di abbellito o di falso, come maquillage. il termine "feticismo" fu usato per la prima volta nel 1760 da un francese di grande acume, il Président de Brosses, il quale descrive "il culto, forse non meno antico del culto degli astri, di taluni oggetti materiali terrestri chiamati feticci dai neri africani. Chiamerò questo culto feticismo. Anche se nel suo contesto originario esso riguarda le credenze dei neri, io intendo usarlo per ogni nazione i cui oggetti sacri siano animali o cose inanimate dotate di qualche virtù divina". (...) Altri autori hanno parlato del feticismo: per Auguste Comte esso è una fase religiosa che tutte le razze devono attraversare; per Hegel è una condizione in cui sono impantanati i poveri negri; per Marx il "feticismo della merce" è inseparabile dal capitalismo borghese ma è destinato a svanire nell'armonia comunista quando le masse lavoratrici si siano impossessate delle cose dei ricchi. E infine arriviamo a Freud, secondo il quale l'attaccamento feticistico alle cose è radicato nella psicopatologia dell'individuo, è di fatto una perversione, e come tale può essere curato."

Mi fermo qui. Tutta questa analisi è interessante e proficua. Io che collezionista lo sono, da quando ho memoria di me (non d'arte ovviamente); io che dalle "cose" spesso mi faccio rapire, in parte mi ritrovo in tutte queste considerazioni e le condivido. Io credo che siano un incoraggiamento a fare una bella catasta delle cose (di cui ogni giorno ci attorniamo, senza forse nemmeno capire bene perché, visto che la componente feticista, ovvero malata, ci obnubila la mente) e appiccare il fuoco.

Non so, mi sembra che questo sia uno di quei propositi da inizio anno, che già il giorno dopo risulta di difficile applicabilità. Niente fuoco quindi, ma qualche consapevolezza in più sì.

E' ancora più singolare come alla fine di tutte queste cose mi sovvenga una citazione dal Giulio Cesare di Shakespeare che in realtà ricordo perchè apre e regala il titolo italiano ad un libretto della fine degli anni '40, che è anche una delle poche opere conosciute di un autore abbastanza misterioso, di cui anche Leonardo Sciascia si occupò al tempo, ma di cui anch'egli ci seppe dire ben poco. L'autore è Geoffrey Holiday Hall (che sia stato uno pseudonimo?), il libro: La fine è nota, pubblicato nel 1990 da Sellerio editore. Bene. La citazione che apre il libro, dal Giulio Cesare si diceva, è: "Oh, se fosse dato all'uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe! Ma basta solo che il giorno trascorra e la sua fine è nota."

Chissà se staremmo qui a parlare, a fare collezioni, a coprirci del troppo, se sapessimo... ma basta aspettare e ciò che già supponiamo, ciò che senza dubbio alcuno, in realtà, già conosciamo, ci verrà svelato: quanto inutili siano stati i nostri presunti tesori!

sabato 7 novembre 2009

Guido (ultima parte)

Siamo giunti alla conclusione delle vicende di Guido raccontate da un amico dopo la sua morte.

E' strano leggere ciò che si scrive dopo aver lasciato passare del tempo dalla prima stesura. Lasciate decantare le parole sembrano modificarsi nei significati, dare senso diverso alle frasi. Viene quasi sempre la voglia di rimettere mano al testo, scriverci sopra. Credo in realtà, come diceva Borges, che tutto vada scritto come viene pensato all'inizio, senza stravolgimenti forzati a posteriori: che ogni cosa abbia un tempo preciso. E questa esperienza con Guido trova qui la sua conclusione.

L'effetto è sinistro (quarta e ultima parte)

N.B. Il testo è stato cancellato dal gestore del blog, a seguito della pubblicazione del racconto nel volume SessantaQuaranta, edito da ARTeFUMETTO.
Originariamente il racconto si chiamava L'effetto è sinistro; si chiama oggi L'inutile banalità.

mercoledì 4 novembre 2009

Vizi capitali n.7: Avarizia

Quando penso all'avarizia mi torna in mente un film con Diego Abatantuono ("Eccezzziunale... veramente!" Non ricordo bene), dove l'attore si rivolgeva ad un secondo personaggio dicendogli: "Tu c'hai l'avidigia!". Avidigia rende più che avarizia. E' più malato come sentimento, più morboso verso le cose.
Fin da bambino ho sviluppato un approccio collezionistico alle cose. Fossero figurine, giornaletti, esperienze. Mi interessa ancor oggi quel senso di catalogazione che è un atto che supera il momento dell'acquisizione generalizzata, maturata da passioni improvvise, per garantire un inventario che è un modo di mettere ogni cosa al suo posto. Passare, insomma, dal magazzino di roba, di oggetti materiali, ma anche immateriali, quali ricordi, pensieri, sogni, ad una presa di coscienza che conduca ad un'"immagine" finale coerente, che abbia almeno senso, se non significato.

Credo che nessuno abbia saputo aiutarmi nel confronto con le cose meglio di Georges Perec, che attraverso libri quali "Le cose", "La vita istruzioni per l'uso" e quindi "L'uomo che dorme" ha sottoposto al lettore un trittico analitico, quasi psichiatrico sul mutare dello stato d'animo verso le cose.

Non sapendo rinunciare alla mia natura medio-avida (anche in quanto umana), natura animata anche dal senso del possesso e, in epoca consumistica, qual'è la nostra, direi dell'iperpossesso (ma avete mai visto una famiglia alle prese con i beni materiali offerti da un ipermercato?), credo che lo slancio passionale iniziale sia andato traducendosi nel tempo, se non nei fatti, almeno nella propensione, nelle prospettive, in qualcosa di simile al sentimento provato dal protagonista di "Un uomo che dorme" di Perec (testo del 1967, ovvero 40 anni fa... e sembra oggi!). Citando Perec: "Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire, lasciarsi portare dalla follia (...). perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione".
L'avarizia, il tutto e subito sempre, come obiettivo, come indirizzo per una società senza finalità alcuna, se non quella dell'accumulazione. L'avidità che conduce al vuoto esistenziale, al suo opposto. Al possesso del nulla. Avidità=Indifferenza=Atarassia.
Fermarsi direi. Fermarsi un pò prima. Fermarsi ora. Ma dov'è il freno?