domenica 30 maggio 2010

Crisi!!!!!

Che dire?! In giro non si parla che di crisi, di come e quando usciremo dalla crisi.
Le voci attorno a questa nuova manovra fiscale sembrano alquanto preoccupanti. Scelta politica? Scelta inevitabile? Giusta? Ingiusta? Bho!!
In questo frangente mi sovviene solo una simpatica frase dal recente film di Gianfrancesco Lazzotti, Dalla vita in poi, che parla di crisi personali, di sofferenze personali vere. Bello? Brutto? Decidete voi!
Comunque la frase è precisa e calzante: "Se stai in un tunnel e non hai via di uscita, arredalo."

martedì 25 maggio 2010

C'è bisogno di nuovo di colla

Parto dal mio post precedente sul fumetto per fare un discorso più ampio. Tra le mie parole sul fumetto era facile scorgere una certa insofferenza. Essa non era rivolta verso il "fumetto" in sé, che mi pare un medium linguistico splendido, capace nella sua contemperazione tra esperienza artistica e testuale di offrire strumenti di lettura del presente e del passato di rara efficacia. Il ruolo del fumetto mi pare tanto più pregnante quando quel contemperamento si avvicina ad un equilibrio attento, sottile, non stucchevole tra figuratività e racconto. In questo senso rompere questi equilibri porta ad opere forse d'avanguardia, forse innovative diremo, pregievoli e importanti, ma non necessariamente utili al ruolo che il fumetto deve avere.
Mi ricollego, nel senso che voglio dare a quanto dico, a quel pensiero di neoavanguardia che nel 1963 sorse a Palermo come esperienza letteraria di rottura verso un modo di raccontare e "romanzare" (ma diremo di fare cultura in genere) giudicato tradizionale e stantio. Era quel pensiero proprio del cosidetto Gruppo 63, che al suo interno raccoglieva le figure di Alberto Arbasino, Umberto Eco,, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti (scomparso in questi giorni), ma anche Achille Bonito Oliva, Sebastiano Vassalli e Angelo Guglielmi.
Alcuni giorni fa (21 maggio) mi è capitato di sentire Angelo Guglielmi (intervistato da Serena Dandini su RAI 3) parlare di quell'esperienza. L'obiettivo, diceva Guglielmi, era la sperimentazione, l'assoluta libertà di contenuti e di trame, l'allontanamento dai modelli tipici delle forme linguistiche "tradizionali". L'obiettivo era in molti casi la disgregazione del testo. Non è un caso che RAI 3, sotto la direzione di Guglielmi abbia lasciato spazio ad una televisione d'avanguardia, cinica, coraggiosa e a volte oltraggiosa (La TV delle ragazze, Avanzi, Blob, Cinico TV ecc., la "TV verità" di Chi l'ha visto?, Un giorno in pretura, Quelli che il calcio, ecc.). Blob è stato l'apice della poetica della disgregazione, portando ad un processo di trasformazione che oggi la TV ha raggiunto e purtroppo superato. Quello che ha detto l'altra sera Guglielmi è che oggi quelle trasmissioni funzionerebbero ancora, ma non andrebbero più bene; andrebbero rifatte delle trasmissioni non di rottura, ma viceversa pedagogiche, dove alla frammentazione del testo andrebbe preferita di nuovo la "trama", la "storia" resa dall'inizio alla fine: andrebbe restituito il senso del "racconto". E' un problema di indirizzo per il futuro.
Io condivido tutto ciò. Questa del racconto è divenuta una mia esigenza personale. E' un'esigenza di dare priorità al ruolo del racconto indipendentemente da cosa ciò significhi linguisticamente: il racconto narrativo, il racconto per immagini (arte, cinema, fotografia), il racconto a fumetti (fumetto nel senso di arte sequenziale strutturata e non solo successione di immagini didascaliche), ecc..
Se rileggo oggi il mio programma culturale, che già tempo fa avevo annunciato come di reazione alla cosidetta "dittatura dell'assenza" (assenza di desiderio di mettersi in gioco, di accettazione degli stimoli per superarli: assenza del desiderio di rimanere coinvolti nelle cose), credo vada rivolto alla riscoperta del "racconto", della narrazione e credo anch'io sia questo un programma con finalità pedagogiche di indirizzo per il futuro. Credo anche sia un'esigenza che molti non sanno di avere.

domenica 23 maggio 2010

Uno sguardo sul fumetto

Mi si è più volte rimproverato di non dedicarmi a sufficienza in questo spazio on-line a quella che è una delle mie passioni principali: il fumetto. E' vero. Guardando i post precedenti mi sono reso conto che non parlo di fumetto in maniera esplicita da molto. La realtà è che non ho molto da dire. Quando con ARTeFUMETTO ci eravamo messi ad organizzare delle cose legate all'arte sequenziale, appariva evidente come il fumetto passasse ai margini della cultura italiana (in Francia o Belgio era ed è sicuramente un'altra cosa), sia da un punto di vista pratico, sia mediatico. Dal 2002 ad oggi sono cambiate molte cose. Di fumetto si parla ovunque: il cinema ne ha abusato (almeno di certo fumetto, specie supereroistico), le case editrici di genere e i quotidiani ne hanno consacrato l'importanza almeno sul piano mediatico (vedi gli allegati continui, le serie, gli articoli anche impropri nelle pagine culturali). Pariteticamente anche il mercato dell'arte si è accorto che il fumetto (gli originali a fumetto, ma anche certi albi storici) possono risultare fonte inaspettata di guadagno facile. Diciamo che il ruolo promozionale che l'associazione da me fondata nel 2002 aveva all'inizio è venuto con il tempo in parte meno.
Vanno messi però alcuni puntini sulle "i". La prima considerazione è senza dubbio che le case editrici, ecc. hanno strumentalizzato non poco il fumetto, a fini prettamente commerciali. Ecco che la diffusione è correlata ormai esclusivamente all'utile (che strano, vero?). Poi. Andando in giro per le fiere di settore mi pare che a fronte di molti appassionati veri, esistano molti "malati" di genere (lo dico con affetto nei loro confronti). Ecco che le fiere sono quindi l'occasione non per ritrovarsi e fare cultura, ma vere sedute terapeutiche di massa, nel tentativo da un lato di sopperire a qualche carenza personale, dall'altro occasioni per superare le noie del tempo che passa (...non più giovani siamo). Inoltre, le case editrici di genere, che di "fumetto" vivono, tendono ad osare ben poco, perlopiù ristampando, girando il mestolo nello stesso calderone, limitando i danni più che cercando nuovi spazi. Ci sono anche editori bravi, spesso però un pò troppo ottimisti nel dare spazio ad autori a volte non ancora maturi, volendone verificarne la presa sul pubblico o volendo semplicemente determinare una continuità alle loro collane. Risultato: i librai di genere (i titolari delle fumetterie) alla seconda uscita non sono più disposti a puntare su autori anche bravini, ma che determinano magazzini e invenduti. Fine di una carriera. Sul piano della ricerca vale quindi ormai la politica "meglio tanto e di continuo" che "poco e ben fatto": ovvero meglio pubblicare una barca di titoli, a prezzi di vendita anche impegnativi, per produrre un utile che si dilata su un territorio vasto, invece che puntare su autori nuovi facendoli crescere.
Altro aspetto è la stampa di settore, i gruppi di settore: sono tutti circoli chiusi fatti da gruppi di autori che sono anche gruppi di "ascolto", circoli privati, nei quali l'autore "nuovo" entra a fatica.
E poi spendiamo anche due parole sugli autori "nuovi" o "usurati" dalla frustrazione di essere dopo anni ancora considerati "nuovi". Se vai in giro, alle fiere, alle mostre, è veramente un continuo cercarsi: uno scrive un fumettino, gli amici gli dicono bravo, al che l'idea sembra buona e quindi questo fumettino trova un seguito, lo fai vedere alle case editrici, ai responsabili di queste, che ti dicono fai questo e fai quello, ma una richiesta di cambiamento appare ingiusta, e "sono loro che non capiscono", ecc., e così ci si crede ancora più forte, anche se la prima prova era una cosa piena di errori editoriali e tecnici, e si fanno le spillette, le magliette, le litografie e i pupazzetti (che veniamo tutti da quel mondo lì, quello degli anni '80) e almeno il garget va bene, ecc.. E' questa la fine, vera del fumetto. Quello della crescita lenta, dell'apprendistato per due lire negli studi, presso i maestri, del lavoro faticoso (oddio che parola ingrata!), delle pagine che si buttano via anche se ci hai perso la vista, solo perchè fanno pena a guardarsi. Tutti invece attorno ad un tavolo a dirsi: "Bella questa! Che figo! Che bravo! Sei un grande!" E via così verso un futuro da metalmeccanico.
Infine, le mostre e gli incontri. Le mostre di fumetto sembrano a molti inutili; che senso ha far vedere tavole originali, tanto oggi si va a tavoletta grafica, che l'originale non c'è più, ecc. E quindi non sai nemmeno bene cosa allestire: forse un dipinto, una trovata, non la tavola sporca di china e colore. Gli eventi, gli incontri diventano poi le sedi del già sentito: che bravi che siamo, stiamo pubblicando il meglio, abbiamo qui l'autore più grande. ECC. ECC.
A me il fumetto piace. Diciamo che sono un pò stufo di alcune case editrici, sicuramente stufo dei gestori delle fumetterie (vecchi "nerd", accompagnati da giovani "nerd"). Diciamo che le fiere mi stanno deludendo e gli eventi correlati pure. Diciamo che le mostre perlopiù mi sembrano mal fatte, poco attente al "racconto" (oppure all' originale a fumetti visto come opera d'arte) e troppo attente invece a ricondurre il fumetto al baraccone dell'arte contemporanea. Diciamo che nelle case editrici vedo troppo immobilismo, anche in quelle che sembrano muoversi un sacco (le major specialmente).
Va detto inoltre che i ruoli territoriali sono importanti e certi campanilismi dominano inevitabilmente. Diciamo infine che la parola graphic novel mi sta parecchio sulle scatole e che le tirature patinate che pretendono sempre di trasformare oggetti di consumo in opere librarie sono stucchevoli: è come rifarsi le labbra, come rifarsi il seno; la carta opaca che invecchia, che prende l'odore è autentica, è onesta nella sua povertà.
Ne penso molte altre di cose così, ma alfine rischio di apparire un vecchio astioso e contrariato, mentre a tutto questo mondo, con le sue bassezze, non riesco ancora a rinunciare.

A chi mi chiede cosa leggo ora, rispondo con dieci titoli o poco più (in ordine sparso e non di preferenza), che leggendo mi sono piaciuti, alcuni nuovi, alcuni riscoperti dopo aver visto le tavole originali a qualche mostra, dopo averci lasciato gli occhi su quelle tavole.
Ecco qui.
- Il gusto del cloro, di Bastien Vivés;
- Dans mes yeux, di Bastien Vivés (solo in Francia, ma uscirà credo anche in Italia)
- Superspy, di Matt Kindt (gli originali visti a Lucca nel novembre 2009 erano favolosi);
- Vitesse Moderne, di Blutch (solo in Francia, e di lui anche Mitchum, raccolta di lavori di cui alcuni usciti anche in Italia: il suo segno mi travolge);
- Il fotografo, di Guibert, Lefèvre, Lemercier (ristampato da Coconino in un bel libro. Guibert, conosciuto a Bologna a marzo 2010 è un disegnatore enorme, così tanto che le tavole nel volume non gli rendono merito);
- Il grande male, di David B (autore un pò troppo intellettuale per i miei gusti, ma che la mostra al BilBolBul 2010 mi ha fatto rivalutare per l'immensa ricerca linguistica tradotta nelle tavole);
- Macanudo, di Liniers (sono strisce ironiche, amare, sospese, innovative: magnifico ed enorme);
- La signorina Else, di Manuele Fior (una trasposizione da Arthur Schnitzler, precisa e graficamente ricercata);
- La porta di Sion, Walter Chendi (buon fumetto d'autore, disegno raffinato e racconto preciso);
- Jimmy Corrigan. il ragazzo più in gamba sulla terra, di Chris Ware (intellettuale oltremodo, ma preciso, un macchina oliata, resa con una grafia "a levare");
- Criminal, di Ed Brubaker e Sam Phillips (quattro volumi usciti in Italia, dove specie il primo, il terzo e il quarto sono piccoli capolavori narrativi e disegnati: vero fumetto contemporaneo);
- Perchè ho ucciso Pierre?, di Olivier Ka e Alfred (autobiografia per una vicenda personale controversa);
- RG, di Pierre Dragon e Frederik Peeters (Peeters è un grande del fumetto, la storia e i disegni sono meravigliosi, infatti Rizzoli ha scelto di non far uscire la seconda parte);
- Atomic Robot, di Brian Clevinger e Scott Wegener (fumetto puro, azione, ma anche invenzione);
- Caravan, di Michele Medda e vari (tentativo di reinventare il fumetto in casa Bonelli, un pò troppo "pace e bene", un finale strambo, capibile, perchè giudicato, credo, anche dall'autore come secondario all'interezza dei 12 albi che compongono la serie, un fumetto meritevole);
- Pluto, di Naoki Urasawa (dopo il capolavoro Monster, ancora un gran bel "manga").
(nella foto David B, Emmanuel Guibert, Leila Marzocchi e Igort a Bologna, marzo 2010)

venerdì 21 maggio 2010

Piccole scatole emozionali n.3

Una foto scattata a Senigallia nel 2004. Dopo una tempesta di sabbia d'agosto, prima di una serata al Summer Jamboree. C'era tutto questo cielo, con tutti questi colori, e io pedalavo a fatica, con le ruote sgonfie e i cerchioni battuti della bici, che un'albergatrice pazza mi aveva prestato. Pedalavo con il vento contro, assieme a degli amici... sembrava non servisse nient'altro.

venerdì 14 maggio 2010

Mi leggo mentre scrivo per capire cosa penso!

Domenica 9 maggio, ho assistito a Udine, negli spazi della Chiesa di San Francesco, nel corso della sesta edizione di vicino/lontano, manifestazione correlata al Premio letterario internazionale intitolato allo scomparso Tiziano Terzani al confronto/dialogo tra i due padri storici del “pensiero debole”, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. Proprio in questi mesi Feltrinelli ha ristampato nell’Universale Economica (Saggi) il testo dal titolo Il pensiero debole, curato nel 1983 dai due filosofi e che allora ha sintetizzato quel pensiero (vi scriveva anche Eco, Dal Lago, Ferraris, Amoroso, Marconi, Comolli, Costa e Crespi).
Dell incontro vorrei dare qui di seguito un sintetico resoconto, parafrasando per quanto mi sia dato ricordare alcuni dei passaggi a me risultati più interessanti.
Nella foto Vattimo a destra e Rovatti a sinistra con il Direttore de Il Piccolo Paolo Possamai.
Mentre parlano Rovatti non rinuncia al suo ruolo di filosofo militante, mentre Vattimo a quello di socio-politologo.
Vattimo sostiene che “il pensiero debole” ha due filiazioni: un percorso rivolto all’idea della ricerca del vero ai margini, o meglio uno sguardo rivolto ai fenomeni a latere; un secondo invece polemico alla metafisica, che promuove un “indebolimento” del pensiero quale unica strada possibile. Quest’ultimo è un pensiero che non rinuncia a coltivare una teoria della storia, implicando una marcia emancipativa lunga e impegnativa rispetto alcuni dei principi ideologicamente definiti dalla storia. Smentire una verità assoluta implica inevitabilmente la coabitazione con la storia: non è smentita dei “metaracconti” (i grandi racconti), ma la loro verifica di fattibilità. Vattimo sottolinea: “Unico modo per liberarsi dall’idea che un mondo è blu è lo schiarimento dell’”azzurrità””.
Rovatti aggiunge che il percorso è rivolto all’inseguimento del disfarsi degli assoluti nei minimi della quotidianità, senza dover per forza picchiare sulla testa dei metafisici.
Rovatti ha pubblicato di recente un testo dal titolo “Etica minima”, intesa come etica priva di grandi proponimenti, ma contemporaneamente sostenuta da un impegno civile. Vattimo suggerisce la verifica dell’attendibilità di quel programma anche come “minimalismo etico”.
Rovatti suggerisce che “il pensiero debole” dopo quasi 30 anni dal suo pronunciamento è divenuto un marchio, un “brend”, che nella critica alla “violenza della metafisica” ha sviluppato nel tempo in forma sempre più chiara un carattere emancipativo lungo e difficile (come accennava già Vattimo), che è dipeso dall’ostruzionismo degli ideologi che ne hanno intuito anche un progetto politico. Questo progetto sta nella trasformazione di un lavoro filosofico in “esercizio filosofico”. La “critica delle armi” è lavoro di smontaggio del consenso alle stesse, operato sostanzialmente tramite un contemporaneo smontaggio (l’indebolimento appunto, la messa in discussione, il dubbio) delle “armi della critica”. La militanza filosofica è un lavoro di disarmo della verità nella ricerca di una verità dentro la verità stessa.
Rovatti sostiene quindi che “etica minima” non è attenzione al “margine”, al “dettaglio”, ma “verifica" del “limite”, presa di coscienza di quest’ultimo: del limite oltre cui non possiamo spingerci per evitare un disfacimento della soggettività (che non è individualismo assoluto) e della “rassicurazione del diritto”. Vattimo e Rovatti stesso precisano che spesso il limite coincide con il “pudore” e con la “legittimità”. La perdita di legittimità nasce spesso dalla paura intesa come “perdita” (di uno stato o ordine costituito, di una condizione raggiunta). Nel caso odierno nasce dalla perdita della fiducia nel mercato, in quello cioè che costituiva il vero padre garante della contemporaneità. Rovatti, per spiegare la difficoltà nell’adottare un “etica minima”, ricorda Heidegger, il suo richiamo alla “mancanza di emergenza”, che in realtà è assuefazione e disorientamento correlato ad eventi continui e insistiti. E’ “psicopolitica”, ovvero intreccio tra scenario politico e altalena emotiva. E’ politica degli annunci. Il ruolo dela televisione in tal senso è determinante. “Etica minima” è esperienza psichiatrica. E’ un lavoro su se stessi, sulla comprensione della nostra esistenza rispetto il resto, del nostro collocarci rispetto il limite/pudore. E’ scoperta delle parti di noi che sono restate omologate nella “faccenda”: è “impegno critico individuale di giudizio su noi stessi”.
Vattimo cita Walter Benjamin, allorché suggeriva che “i costruttori della rivoluzione sono mossi più dall’immagine dell’uomo nuovo che dalle sofferenze che ci stanno dietro”. La speranza sta nell’indignazione e implica, quale obiettivo, la trasformazione dell’educazione del sistema sociale. E’ pratica che banalmente può essere condotta nel “rispetto degli altri”, anche attraverso processi di “desocializzazione” intesa (credo di aver capito) come “de-omologazione”. E’ nascita del dubbio posto nella domanda: “Se sono utopico-trasformista, accetto i compromessi?” E’ progetto individuale e contestualmente sociale. Rovatti ricorda: la resistenza della comunità sta anche nell’individuo, nella ricerca, nella speranza di ciascuno verso l’”incomprimibilità” della propria soggettività sotto una certa soglia.
Il compito dell’intellettuale è filosoficamente la militanza nel lavoro di critica e nella prassi “la discorsività della parola scritta”. Non basta l’idea in sé, bisogna comunicarla: da cui il ruolo trainante della scrittura giornalistica, prima ancora di quella saggistica.
Il fine è il contenimento, se non l’abbattimento, di quel “muro gelatinoso” che copre ormai ogni cosa e ci fa credere liberi.

“Pensiero debole” e la sua coerenza con “Etica minima” interpretati come progetto politico. E’ una riflessione importante, che mi impone quindi una riflessione di “appartenenza”. Ovviamente, come ha suggerito più volte Vattimo stesso durante l’incontro a Udine, dimostrando continuità tra pensiero e parole: “Mi sto ascoltando mentre parlo, per capire cosa penso!”

sabato 8 maggio 2010

A Livio

Il giorno 29 aprile è morto a 67 anni Livio Schiozzi, trestino, insegnante (all'Istituto d'Arte a Trieste dal 1969 al 2001), artista, pittore e scultore, curatore. Schiozzi aveva frequentato negli anni '60 l'ambiente della galleria La Cavana e Il Centro Arte Viva di Trieste, allora animati dalle figure di Enzo Cogno e Miela Reina, ma contemporaneamente il mondo delle gallerie di Milano. Amava l'architettura, specie l'architettura intesa come attività linguistica, progettuale, connessa al disegno, alle forme. La sua era una visione dell'arte in forma architettonica nella maniera in cui anche il luogo pittorico o scultoreo veniva concepito quale spazio architettonico, calato in una distanza e rappresentatività del tutto classica, fatta di sospensioni, di presenze che sono anche essenze (nel senso di assenza del superfluo). L'arte (anche la sua), che sfociava nell'architettura (nel senso di spazio architettonico) e viceversa (quale luogo mentale e in parte utopistico). Amava le composizioni di Giorgio Morandi, di Fausto Melotti, amava Etienne-Louis Boullée.

Per ricordare Schiozzi voglio dedicargli un passo da Architettura. Saggio sull'arte di Boullée: "(...) allora se si riesce a svelare l'esistenza e l'origine dei principi sui quali è fondata l'arte dell'architettura, si può concludere, io credo, senza mostrarsi per quanto imprudenti, che tali principi sono tuttora ignoti o, perlomeno, non sono stati sviluppati da coloro che hanno avuto l'opportunità di conoscerli." Livio Schiozzi ha condotto la sua ricerca nel tentativo di sondare quei principi. E' stata la sua "piccola missione".

Per quanto mi riguarda ho avuto occasione di conoscerlo una volta sola, durante un episodio della mia attività culturale con ARTeFUMETTO. Di quell'episodio ricordo una macchina troppo piccola e dei quadri, non suoi, troppo grandi. La sua perplessità nel prestarli, specie alla vista della macchina troppo piccola. Ricordo una stretta di mano finale di co-responsabilità reciproca verso quell'arte che portavamo via, mentre il portellone calava e il bagagliaio si rivelava non stretto, non grande, ma giusto. Ad una rinnovata e mai venuta meno responsabilità verso il ricordo di quell'arte si sente legata in questo frangente la mia memoria, che ricorda l'impegno, la coerenza e quell'espressione stampata in volto: un misto di perplessità e malinconia.

martedì 4 maggio 2010

Piccole scatole emozionali n.2

Quando ero "giovine"! Zamboni e Ferretti. Una finestra aperta su tutto ciò che non ero capace di essere e non sarei mai stato... la foto era in cassetto, ma non l'ho scattata io.

lunedì 3 maggio 2010

Il rimpianto dei veri ricchi

Sembra nel sentire le voci che ci sopraggiungono da tutte le fonti informative (mi veniva da scrivere "accreditate", nel senso della qualità, non dell'aver avuto un pass gratis, ma avrei ridotto il campo pressoché al nulla), che si sia scatenata nella coscienza sociale (coscienza?) una nuova guerra tra ricchi e poveri. E' triste, ma puntualmente succedere. Va a periodi. Oggi sta tornando di moda. Quello su cui mi va di riflettere é invece sul significato di ricchezza. No, non parto con le solite cazzate, del tipo che "uno è ricco se è ricco dentro, ecc.." parlo proprio di soldi, di beni veniali, di materia fisica, di cose. Per me la ricchezza è quella lì. L'altra invece è etica personale e o si la impara, o viene insegnata da qualcuno di audace o uno c'è l'ha nel sangue. Punto e fine, altro modo e forma non c'è.
Invece parlando del "solido", è singolare come sia cambiato proprio il senso dell'essere ricchi. Oggi secondo me i ricchi veri sono veramente pochi. I ricchi nel passato erano quelli che pagavano Piero della Francesca, perchè gli facessero un ritratto personale. Il divertente Philippe Daverio (sacerdote dell'arte varia e in particolare, come tutti, di quella che paga, anche qui nel senso pratico della cosa intendo) suggeriva una volta ad una conferenza, che l'arte vera è venuta meno, quella che rappresentava una classe sociale, che parla il linguaggio delle contesse, poi andate in rovina, oppure dei toreri famosi a loro volta decaduti. Io credo che questo concetto sia importante. Il ricco era un tempo quello con il palazzo più bello, con il quadro più significativo nella stanza da giorno, con il giardino fiorito. Oggi il ricco chi è? E' quello con l'automobile più alta (non più grande, più alta) o con il cellulare più incasinato, o con la foto alla sfilata dello stilista più strambo. Il ricco è un omologato servo del suo tempo, non è colui che spende per cambiarlo. E' un discorso su quanto mi manchino i veri ricchi, quelli con la faccia severa e il portafoglio sagace e non quelli con la faccia da pirla e i soldi in un caveau all'estero. La ricchezza è sana ostentazione, capacità di guardare a domani mattina, anche dimenticandosi di pensare a cosa sarà da qui a fine settimana. La ricchezza di oggi è accumulazione impalpabile, incapacità di un mecenatismo di contenuti.
E' in particolare un discorso sull'arte quello che volevo fare. Mi torna in testa molta arte contemporanea, l'inutile spesa di ricchezza che vi è dietro, anche pubblica intendo. Di marketing, di tentativi subliminali, per trasformare l'inutile in utile, il medio in eccelso e così via. Raschiando infine il fondo, trasformando un pubblico intelligente in disinteressati costretti. E' un male per tutti, per tutte le arti.
Da architetto me ne accorgo andando in giro, frequentando l'arte e il suo mondo, ai margini, da visitatore. Ma anche con questo ruolo secondario, se sai guardare le cose riesci a vederle. Riesci a capire che quanto esponi in una galleria non conta più nulla. Conta chi esponi, ma questo forse valeva alcuni anni fa: oggi conta ancora di più il luogo stesso dove esponi. Conta chi ha messo i soldi e spesso chi lo fa non è la persona giusta. Ti insegnavano non molto tempo fa, ad Architettura, che il bravo museo è quello che si fa piccolo dinanzi alle cose da esporre, che sparisce per lasciar guardare. Oggi conta la scatola, ed ecco che prima di tutto conta comunicare, arrivare diretti al pubblico per la via principale, quella che va da lui espositore (ma diciamo "commerciante") a me lettore degli allegati ai quotidiani del sabato, delle riviste femminili, delle pagine culturali nei giornali di economia, oppure spettatore degli angoli culturali dei telegiornali di prima serata. Ecco che i musei in quanto istituzioni si danno un nome che "spacchi", in senso comunicativo: MART, MAMBO, MADRE, GAM, GNAM e vai e vai. E poi c'è il logo, la borsa di tela con il simbolo e così via. Mi è capitato più volte di entrare in un museo e confrontarmi con gente che non sapeva minimamente per vedere che cosa fosse lì, mentre cercava un gadget del luogo. Molti entrano al bookshop per uscirne senza essere passati dalla biglietteria del museo. L'arte è ancor oggi quella nascosta dalle ville signorili di qualche collezionista o semplicemente di qualche investitore ben consigliato (forse Daverio stesso si sarà fatto garante per qualcuno). Peccato che un tempo i grandi quadri stavano in grandi cornici, su grandi pareti con ricche tapezzerie, vicino a bei arazzi, e a mobili intagliati, con parquet intarsiati e soffitti a stucco. Oggi un Fontana, un Burri, un De Chirico sta lì, su pareti bianche, che van di moda, mobili in rovere sbiancato che son di moda, forse anche il comodino IKEA, che fa "popular", e quindi piace.
Mi fanno pena nel ricordo quelle contesse andate in rovina, perchè allora la vita andava vissuta fino in fondo; ancor più quei toreri decaduti che avrebbero preferito essere infine incornati dal toro nell'arena, che vedere un quadro di Picasso accanto ad un sofà della collezione Divani & Divani.
Che dire quindi: che tristezza questi ricchi così diversi da un tempo e beati i poveri, che invece non cambiano mai!
(nella foto Daverio, a Trieste, fa "comunicazione" tra il suo pubblico)