lunedì 3 maggio 2010

Il rimpianto dei veri ricchi

Sembra nel sentire le voci che ci sopraggiungono da tutte le fonti informative (mi veniva da scrivere "accreditate", nel senso della qualità, non dell'aver avuto un pass gratis, ma avrei ridotto il campo pressoché al nulla), che si sia scatenata nella coscienza sociale (coscienza?) una nuova guerra tra ricchi e poveri. E' triste, ma puntualmente succedere. Va a periodi. Oggi sta tornando di moda. Quello su cui mi va di riflettere é invece sul significato di ricchezza. No, non parto con le solite cazzate, del tipo che "uno è ricco se è ricco dentro, ecc.." parlo proprio di soldi, di beni veniali, di materia fisica, di cose. Per me la ricchezza è quella lì. L'altra invece è etica personale e o si la impara, o viene insegnata da qualcuno di audace o uno c'è l'ha nel sangue. Punto e fine, altro modo e forma non c'è.
Invece parlando del "solido", è singolare come sia cambiato proprio il senso dell'essere ricchi. Oggi secondo me i ricchi veri sono veramente pochi. I ricchi nel passato erano quelli che pagavano Piero della Francesca, perchè gli facessero un ritratto personale. Il divertente Philippe Daverio (sacerdote dell'arte varia e in particolare, come tutti, di quella che paga, anche qui nel senso pratico della cosa intendo) suggeriva una volta ad una conferenza, che l'arte vera è venuta meno, quella che rappresentava una classe sociale, che parla il linguaggio delle contesse, poi andate in rovina, oppure dei toreri famosi a loro volta decaduti. Io credo che questo concetto sia importante. Il ricco era un tempo quello con il palazzo più bello, con il quadro più significativo nella stanza da giorno, con il giardino fiorito. Oggi il ricco chi è? E' quello con l'automobile più alta (non più grande, più alta) o con il cellulare più incasinato, o con la foto alla sfilata dello stilista più strambo. Il ricco è un omologato servo del suo tempo, non è colui che spende per cambiarlo. E' un discorso su quanto mi manchino i veri ricchi, quelli con la faccia severa e il portafoglio sagace e non quelli con la faccia da pirla e i soldi in un caveau all'estero. La ricchezza è sana ostentazione, capacità di guardare a domani mattina, anche dimenticandosi di pensare a cosa sarà da qui a fine settimana. La ricchezza di oggi è accumulazione impalpabile, incapacità di un mecenatismo di contenuti.
E' in particolare un discorso sull'arte quello che volevo fare. Mi torna in testa molta arte contemporanea, l'inutile spesa di ricchezza che vi è dietro, anche pubblica intendo. Di marketing, di tentativi subliminali, per trasformare l'inutile in utile, il medio in eccelso e così via. Raschiando infine il fondo, trasformando un pubblico intelligente in disinteressati costretti. E' un male per tutti, per tutte le arti.
Da architetto me ne accorgo andando in giro, frequentando l'arte e il suo mondo, ai margini, da visitatore. Ma anche con questo ruolo secondario, se sai guardare le cose riesci a vederle. Riesci a capire che quanto esponi in una galleria non conta più nulla. Conta chi esponi, ma questo forse valeva alcuni anni fa: oggi conta ancora di più il luogo stesso dove esponi. Conta chi ha messo i soldi e spesso chi lo fa non è la persona giusta. Ti insegnavano non molto tempo fa, ad Architettura, che il bravo museo è quello che si fa piccolo dinanzi alle cose da esporre, che sparisce per lasciar guardare. Oggi conta la scatola, ed ecco che prima di tutto conta comunicare, arrivare diretti al pubblico per la via principale, quella che va da lui espositore (ma diciamo "commerciante") a me lettore degli allegati ai quotidiani del sabato, delle riviste femminili, delle pagine culturali nei giornali di economia, oppure spettatore degli angoli culturali dei telegiornali di prima serata. Ecco che i musei in quanto istituzioni si danno un nome che "spacchi", in senso comunicativo: MART, MAMBO, MADRE, GAM, GNAM e vai e vai. E poi c'è il logo, la borsa di tela con il simbolo e così via. Mi è capitato più volte di entrare in un museo e confrontarmi con gente che non sapeva minimamente per vedere che cosa fosse lì, mentre cercava un gadget del luogo. Molti entrano al bookshop per uscirne senza essere passati dalla biglietteria del museo. L'arte è ancor oggi quella nascosta dalle ville signorili di qualche collezionista o semplicemente di qualche investitore ben consigliato (forse Daverio stesso si sarà fatto garante per qualcuno). Peccato che un tempo i grandi quadri stavano in grandi cornici, su grandi pareti con ricche tapezzerie, vicino a bei arazzi, e a mobili intagliati, con parquet intarsiati e soffitti a stucco. Oggi un Fontana, un Burri, un De Chirico sta lì, su pareti bianche, che van di moda, mobili in rovere sbiancato che son di moda, forse anche il comodino IKEA, che fa "popular", e quindi piace.
Mi fanno pena nel ricordo quelle contesse andate in rovina, perchè allora la vita andava vissuta fino in fondo; ancor più quei toreri decaduti che avrebbero preferito essere infine incornati dal toro nell'arena, che vedere un quadro di Picasso accanto ad un sofà della collezione Divani & Divani.
Che dire quindi: che tristezza questi ricchi così diversi da un tempo e beati i poveri, che invece non cambiano mai!
(nella foto Daverio, a Trieste, fa "comunicazione" tra il suo pubblico)