sabato 25 maggio 2013

Mi cadono sempre un pò le braccia

E' interessante perdersi tra le pagine dei quotidiani. Io lo faccio per consuetudine, soprattutto tra i fogli de il Piccolo di Trieste-Gorizia, per curiosità campanilistica e per attenzione alle vicende locali. Mi capita così spesso nella pagina della "cultura e spettacoli" di seguire gli scritti di Federica Manzon, testi in forma di articolo-saggio-racconto, nella piena tradizione letteraria del tempo che fu (cosa naturale e buona quindi). Conosco poco dell'autrice, se non per quello che scrive. So che è di Pordenone, che collabora a Pordenonelegge, che è stata nella selezione per il Premio Campiello del 2011. La leggo, anche se il suo scrivere non mi appaga o entusiasma; d'altronde Premio Campiello, così come Premio Strega, non è sinonimo per forza di eccellenza, e di certo bisogna diffidare di premi letterari che pretendono di indicare al pubblico ogni anno una nuova Ginzburg, un nuovo Pavese o Parise (e sarà poi stato mica un capolavoro La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano?). Leggo (e subisco) così questi suoi testi vigorosi di retorica (calati a volte nella cultura locale), suadenti di frasi compiaciute. Mi sono anche chiesto perchè lei (oltre alla ovvia nota localistica e alla correlazione strategica con Pordenonelegge). Sarà forse la più veloce e puntuale? Sarà forse "culturalmente" collocata? Bho! Chi se ne importa!. Comunque Federica Manzon sa scrivere, ha proprietà lessicali e inventiva, anche se al contempo i suoi scritti appaiono acqua di superficie, che dilava ma non si stagna nelle menti e negli animi. Il giorno 21 maggio, in concomitanza con la 26° edizione del Salone del Libro di Torino, nella pagina della cultura de il Piccolo, è apparso così, a fronte di questa consuetudine già detta, un suo scritto, incentrato sul rapporto tra tipologia editoriale, contenuti letterari e il luogo dove ciascuno predilige fruire della lettura. Tutto il testo scorre su ovvietà del tipo: "I diari di John Cheever li leggo sull'autobus...", "...rigorosamente tascabili, i libri da treno,...","...nei lunghi spostamenti sono favoriti i romanzi di genere...che catturano con una trama più avvincente delle conversazioni dei vicini...", "...Il lettore da poltrona..., affronterà quasi di sicuro un saggio...", "...Il lettore da divano lo conosciamo bene: disordinato e entusiasta...", ecc., ecc.. Il testo divaga sino alla frase finale: "E poi per favore, in bagno, solo fumetti.". Qui mi è partita una risata santa! Per la felicità della dimostrazione che la soggettività espressa nell'analisi della pochezza dell'autrice, aveva fondamenta oggettive. La Manzon finisce con ironia e con autoreferenzialità; colpevole di superficialità e incolpevole per la colpevolezza di coloro che l'hanno pubblicata. Ebbene sì, sono attivo in una associazione locale (ARTeFUMETTO) che si occupa di promuovere la cultura del fumetto, sono un compiaciuto lettore di fumetti (molto attivo quindi al bagno), ma non mi si voglia ergere in questo caso a paladino dell'arte sequenziale in quanto tale (cosa di cui mi frega molto poco)! Di certo però ho sufficiente cultura (poca, ma sufficiente) per saper dimostrare rispetto per chi anche al bagno, mentre espelle, sa riconoscere il ruolo e la cultura degli autori italiani e internazionali del fumetto, per la storia di questi ultimi, fatta di sacrifici e di solitudine, di passione e spesso anche di delusioni. Un mondo che è difficile commentare con il tiro di uno sciacquone. Di cultura alta e bassa ne ho già scritto abbastanza, anche in queste pagine, e di autrici e autori rampanti e pressapochisti ne leggerò ancora; ma fatico sempre a non meravigliarmi che più di cento anni di storia editoriale internazionale (della letteratura disegnata, come la definiva Hugo Pratt, intendo) non abbia liberato i più della convinzione che fumetto vada in rima con infantile. E' questione di storie personali, direi, e di inconsapevole ignoranza.

lunedì 20 maggio 2013

Del poco che resta

Le cose a cui riesco sempre a ripensare con piacere, qualunque sia la stagione, il momento della giornata o il mio umore, cominciano a diventare con il passare degli anni sempre meno. Selezione critica, direi. Una di queste è la raccolta di racconti di Jerome David Salinger Nine stories (Nove racconti, nell'attuale edizione Einaudi, con traduzione di Carlo Fruttero), che proprio nel maggio del 1953, cioè sessant'anni fa, trovava la propria completezza editoriale (i primi racconti di questo testo risalgono al 1948). Tra quei racconti uno in particolare mi ha preso il cuore, Per Esmé: con amore e squallore. In quello vi è una frase sottolineata al tempo della mia prima lettura, che la ragazzina finto-adulta del racconto recita "...Annuì e dissi che probabilmente suo padre considerava il problema dall'alto, mentre io lo consideravo dal basso...", frase che così non dice niente di per sè, eppure mi si è conficcata nella testa già allora e non mi abbandona ancora adesso. Salinger, questo Bartezzaghi dei tempi che furono, con questi racconti semplici da decifrare come un quadro simbolista. Tutto sospeso, tutto che parte improvvisamente e si chiude senza dirti un ciao liberatorio. Salinger che scrive di cose che preferisci non capire a fondo, nella paura che il fondo sia un pò troppo distante per poi saper tornare indietro. E infatti nella sua sparizione pre morte, che lo portò da vivo a liberarsi del mondo, Salinger seppe porre tra se stesso e i media un abisso di chilometri e risultare "significativo" ancor oggi, per merito e non per presenza. Un koan zen fa da citazione d'apertura ai Nove racconti, esso dice: "A battere le mani, sappiamo il suono delle due mani insieme. Ma qual'è il suono di una sola mano?". Ecco, appunto!

mercoledì 1 maggio 2013

Gli occhiali appannati dalla polvere...

Dopo le vicende pre e post elettorali nazionali (per la Presidenza della Repubblica) e regionali (per la Presidenza della Regione), ci serviva un bel 25 aprile. Ma in Italia quel senso di liberazione che significa questa festa nazionale si è disperso nella deriva commerciale di ogni cosa. Un giorno, ormai qualsiasi, con i suoi centri commerciali aperti, dove spesso trovi scritto nei manifesti pubblicitari agli ingressi "festa della libertà" e non "della liberazione". Ok, anche la libertà ci piace, ma è diverso, cavolo se è diverso, anche perchè la seconda è una conquista, la prima è tutta da conquistare: e noi non siamo di certo della stessa stoffa dei nostri nonni! Nell'impossibilità di una festa adeguata, me ne sono andato a Lubiana, dove il 25 aprile non è un giorno festivo, dove avrei forse potuto superare la sensazione di stare a festeggiare invano. La città era strapiena di gente e di italiani di confine, recatisi in Slovenia nella speranza di visitare i negozi aperti del centro. Insomma non vi è pace, per chi desideri provare un sentimento convinto: la contemporaneità ha vinto. E oggi è già il 1°Maggio. Me ne resto a casa, anche se invece me potrei andare in ufficio, dove avrei molte cose da finire o iniziare.  Festeggio, così, festeggio, con sullo sfondo, nell'aria, queste voci sindacali che appaiono turbate e sbiadite di fronte alle situazioni del periodo. Me ne sto seduto sul divano con una coca e mi vedo in TV (la benedetta/maledetta TV!) una parte del concerto del 1°Maggio. Di solito nel pomeriggio sul palco di Piazza San Giovanni passano e suonano i gruppi nuovi, quelli che ti vien voglia di sentire per sapere cosa passa di diverso nel panorama musicale italiano, dove andremo a parare insomma. La curiosità nel campo musicale mi è propria e infatti... ecco Enzo Avitabile, gli Africa Unite, i Motel Connection (con alcuni Subsonica). Ecco, appunto, il nuovo. Ho una specie di déjà-vu, mi rivedo studente, nel 1991-1992, a Venezia, anzi a Mestre con gli altri dell'appartamento di allora ad ascoltare alla TV il concerto del 1° Maggio, e con gli stessi gruppi (e infatti suoneranno più tardi Zampaglione, Elio e le Storie Tese, Daniele Silvestri ecc.). In Italia il telecomando è sufficiente per cambiare oltre che canale anche decennio e generazione; tutto (ogni situazione) massimizza la permanenza, anche se a guardare bene la linea del tempo non prosegue retta, ma pende sempre verso il basso: nelle aspettative e nella qualità dei contenuti. A pensarci bene mi sento, qui seduto sul mio divano a fare un cavolo e guardare 'sti giovani-vecchi, come quei due vecchietti del Muppet Show di un volta, Statler e Waldorf, critici e brontoloni alla FINE dello spettacolo. Adesso, mentre scrivo, passa un gruppo che canta "...sei tutto il porno di cui ho bisogno...", non li conosco, non sono male, ma insomma, i Managment del Dolore Post-Operatorio, molto CCCP con meno audacia, direi, "...siamo così piccoli che quando cadiamo non ci sente nessuno...", ok le cose vanno avanti, ma insomma: poi la regia li  taglia a metà canzone, e poi il meteo prende il sopravvento. Ecco, sto qui a parlare del tempo cronologico e la televisione mi aiuta subito a non pensare (è bravissima in questo!), a riflettere sul tempo atmosferico, a farmi i c...i miei, invece di quelli della società. Poi la pubblicità.