domenica 28 gennaio 2018

Politically correct...

Una delle cause delle nostre paure contemporanee è probabilmente di natura linguistica. Mi riferisco a quello che si può o non si può dire. Non vuole questo essere un invito a chiunque a liberarsi dei freni linguistici e dire quello che gli/le passa per la testa, ma il desiderio di vedere affrontati dei temi senza il timore di essere costantemente richiamati all'ordine. Per questo motivo leggo, oggi, con piacere che è uscito finalmente in Italia il volume di Jonathan Friedman, antropologo di grande interesse per la sua ricerca di lunga data, Politicamente corretto. il conformismo morale come regime (merito dell'editore Meltemi di Sesto San Giovanni averlo fatto uscire da noi, indipendentemente dalle non poche vicissitudini che il volume si porta dietro). Ne parla sul numero 322 de la Lettura, Elisabetta Rosaspina, pubblicando un'intervista all'autore. Lo riprendo qui perché il tema del "politicamente corretto" mi pare oggi essere al centro di un confronto critico rispetto il mondo (complesso) che abbiamo dinanzi e soprattutto rispetto lo strumento della rete internet con la quale tutti (in forme diverse, per fortuna) siamo abituati ad esprimerci. Non vorrei disquisire troppo sulla cosa, specialmente perchè finirei per essere completamente stracapito (è ormai un classco da queste parti, proprio a fronte del tema di questo post), ma non mi astengo da riportare un estratto dall'intervista a Friedman, all'interno della quale cita correttamente il Geoges Orwell di Politics and the English Language, sulla questione dell'uso del linguaggio "come strumento per esprimere un pensiero e non per nasconderlo", evidenziando la problematicità della cancellazione delle parole. La moralizzazione del linguaggio diventa strumento di limitazione all'etica stessa della ricerca (nel caso di Friedman antropologica o sociologica). Dice Friedman: "Non puoi fare ricerca se vuoi essere politicamente corretto, perché finisci per importi dei limiti nelle domande". Credo sia così, perchè nascondere le istanze per paura di esprimersi, o meglio per paura di essere giudicati rispetto le istanze poste quando queste necessitano di un linguaggio anche non "politicamente corretto", è condizionante e frustrante (per il ricercatore, per il pensatore, ma anche per l'uomo nel suo stare al mondo quotidiano). Il problema odierno è forse il contesto: il marasma della rete e in senso lato del mondo giornalistico. Infatti l'"istanza" va posta nella sua forma finale, a fronte cioè del percorso critico e dialettico che porta alla sua stesura conclusiva, e non gettata lì, senza adeguate fondamenta. Oggi, questo vale più che mai, perché la società vive uno status dominato da perlomeno tre fattori dominanti: l'incertezza (sono incerto perchè mi dicono che siamo tutti incerti), le aspettative spesso superiori alle possibilità (che generano insoddisfazioni, non accettazione, necessità di apparire quello che non si è), e, come sovrapposizione delle due precedenti, l'ipocrisia verso se stessi (mi racconto da solo un sacco di frottole). Non riesco ad indagare il peso reale di questi fattori, ma ne comprendo la portata. Nascondersi dietro la moralizzazione del linguaggio e quindi dietro un conformismo "fai da te-fai da tutti", non produce un percorso etico, ma amplifica soltanto il disagio di molti. Non diamo, come ricordava Orwell nel suo testo, parvenza di solidità al vento, perché "...un uomo può cominciare a bere perché si sente un fallito e così fallire sempre di più per il fatto che beve..." E non è tempo per nuove ubriacature collettive, a cui purtroppo ci stiamo sempre più abituando. 

domenica 21 gennaio 2018

Un certo tipo di vuoto

Questo scritto arriva subito dopo quello in cui scrivevo di come, nel corso degli ultimi anni, sia venuta modificandosi la percezione del fumetto da parte di un lettore "storico" come me: a fronte delle piccole rivoluzioni culturali che il mercato del fumetto sta affrontando (editoria, comunicazione, media, ecc.). E arriva per salutare un amico che se ne è andato, e che per me rappresentava la passione verso un mondo su cui molte volte abbiamo dialogato e discusso. Massimo Bragaggia, una delle anime del TBCF (che considero uno dei migliori, se non il migliore festival italiano di genere degli ultimi anni), se ne è andato in un modo che ricorda quel mondo drammatico (non rassicurante) e al tempo stesso emotivamente provante che lui, appassionato di Batman, amava da lettore frequentare. Io lo ricordo perché mi ha aiutato a volte nei percorsi organizzativi fatti in passato, quando altri si sono scordati di farlo o hanno rifiutato di farlo. Lo ringrazio ora, dopo averlo fatto già di persona. Resta l'amarezza della perdita, che viene dopo quella di un altra persona amica, che mi manca, Salvatore Oliva, scomparso mesi fa. Uffa! Bisogna continuare a parlare di fumetto, a leggerlo, ma le persone con cui puoi farlo serenamente e approfonditamente, senza entrare sempre sulle questioni economiche, editoriali, del mercato ecc, stanno un pò mancando attorno. Per i familiari di Massimo e Salvatore questa affermazione vale per quello che è, ma resta il fatto che ogni lettura futura sarà anche per loro.
(foto: una pittura di Michael Whelan vista a Lucca C&G17)

lunedì 1 gennaio 2018

C'era una volta.....




Un esempio, visto a Lucca Comics 2017 di quanto sto per scrivere
C'era una volta il fumetto...potrebbe iniziare così quest'anno di riflessioni online. Ho mancato la mia ormai "classica" classifica di fine anno...e qualcuno me lo ha pure fatto notare. C'era una volta il fumetto, come fenomeno popolare, come strumento satirico per passare contenuti profondi, come momento di svago o come "luogo" dove riversare le proprie fantasie e passioni. Quello che mia madre mi raccontava di regalare a suo fratello per tenerselo buono, essendo lei ormai "grande" (Il Piccolo Sceriffo dell'allora editore Torelli). Quello che mio zio leggeva a tempo perso e che ad un certo punto, raccolto per anni in soffitta, decise di bruciare in un triste falò in cortile (Kriminal, Satanik). Quello che mio nonno mi portava quando stavo male, dedicandomi la copertina con una frase di maniera (Topolino dei primi anni Settanta). Oppure la montagna di Zagor comprati qua e là nel Nord Italia, a completare una collezione che ad un certo punto si è interrotta e mai ripresa per dare spazio a Pratt, a Pazienza, a Toppi, ecc. ecc. Ecco quel fumetto lì ha smesso in parte di esistere all'inizio degli anni 2000, quando molti di noi, io stesso per primo, abbiamo ritenuto di dovere portare avanti un discorso di fumetto come arte (di Arte e Fumetto, direbbe qualcuno!), che permettesse a questo "linguaggio altro" di trovare uno spazio che meritava e merita. E parallelamente questa volontà di pochi é diventata la necessità, anche economica (lo era sempre stato, ma in quel contesto di più!), di molti, quando con la nascita di un nuovo marchio, il graphic novel, appunto, si sono intravviste strade nuove e  possibili: il fumetto inteso come libro (alla francese, insomma!). E in quel momento lì la risposta di alcuni, io per primo, è stata quella di aiutare quel percorso, nel desiderio che il fumetto venisse parificato al libro (genericamente definito), che potesse entrare nelle librerie non restando defilato nei loro angoli più nascosti. Ed ecco che con internet e tutti i social a seguire la necessità di certa gente (gli editori, i grandi gruppi editoriali più tardi, sempre disperati per le vendite a svanire, sempre lì a piangere per questo e per quello) si è improvvisamente incontrata con la necessità di altra gente (i librai, sempre disperati per le vendite a svanire, sempre lì a piangere per questo e per quello - evitando poi di parlare dei gestori delle fumetterie che se no andiamo sull'alluvione pura da pianto isterico-), e infine con la necessità di altra gente ancora (ovvero gli editori dei quotidiani, sempre disperati...ecc. ecc.), il tutto farcito con la parola che tutto eleva e contiene: CULTURA! Così, improvvisamente esco di casa, vado in una libreria e vedo alcuni fumetti accostati sul banco principale ai libri di varia, li vedo esposti all'ingresso (in vetrina in molti casi!); poi compro il quotidiano e il giornalaio mi guarda storto, non perché ho preteso da lui qualcosa di strano, ma perchè ho richiesto quei tre o quattro titoli settimanali di fumetti allegati alle testate nazionali che è costretto a mettermi da parte; poi vado a casa e apro il giornale, a volte un giornale di cui non mi frega nulla, ma che ho comprato per avere il fumetto allegato, e nell'aprirlo mi trovo sei o sette pagine su quaranta/quarantacinque che annunciano nuove ristampe di serie o collane a fumetti che per finitura e ricchezza di contenuti fanno spavento a qualsiasi cosa io possegga o collezioni da più di quarant'anni. E infine apro la TV e ogni canale parla di GULP!, di BLAM!, di UACK!, di ZZZZ!, ogni Telegiornale RAI e non acquisisce e trasmette la sua dose di notizie a balloon. C'era una volta il fumetto...oggi c'è qualcosa d'altro che si chiama mercato e che ci permette di leggere cose fantastiche, di incontrare (alle fiere monster come, ad esempio, Lucca Comic & Games, ma anche a Cinisello Balsamo d'estate con 35° all'ombra, alla fiera del risotto o che so io!) molta gente che da anni segue con passione questo linguaggio altro che qualcuno dice ancora di non capire o essere in grado di recepire (difficoltà a tenere insieme disegni e parole...o leggi o guardi...) e che per molti invece è semplicemente lavoro (con i sbuff e i che palle! del caso). Ma il fumetto c'era una volta...e adesso, mi spiace, ma non c'è più! Ecco perché una classifica non esiste, perchè quest'anno passato (2017) ho letto decine di fumetti più o meno interssanti, più o meno ben disegnati e scritti, ma ora che scrivo, a ripensarci, nessuno ha scavato un posto nel mio IO profondo come quel Topolino, che mio nonno portò....!
Ancora Lucca Comics 2017