lunedì 26 luglio 2010

Ripari

Mai come oggi (inteso come periodo e non come giornata) mi sembra che non vi sia alcun riparo adeguato alla bufera che sta attorno. E' una sensazione generalizzata di smarrimento, come se mi trovassi in un vasto, illimitato campo di neve bianca. E non ci sono alberi, non ci sono riferimenti, non ci sono certezze e nevica (politica), nevica (cultura), nevica (economia)... e ti viene da chiederti:"ma si scioglierà poi mai questa coltre che si sta accumulando?" E ti viene da pensare: "In fondo non pare nemmeno così candida!"

sabato 24 luglio 2010

Slogan e "virgolette"...

I miei "quattro lettori" sicuramente avranno notato delle coincidenze non taciute tra "dittatura dell'assenza" e "cultura del dovere". Chi mi conosce sa anche che non amo gli slogan, ma in questo caso mi servono per sintetizzare dei filoni di pensiero. I due slogan potrebbero essere riassunti così in un terzo: "fare etico".

Si badi, non è questa che sto scrivendo una nuova "Commedia" e di certo non sarà mai "Divina". Non ambisco alla creazione di gironi danteschi dove incasellare i buoni e gli antagonisti, ma ciò non toglie che ci si debba anche guardare intorno e confrontare con il "vicino di casa". E non mi pare quest'oggi "che l'erba del vicino sia (in fondo) più verde"! Ciò va detto ed è importante. Purtroppo, una critica e un'interrogazione propositiva in merito al fare cultura, sul come farla, se la sua trasmissione corrisponda ad un modus operandi specifico, può infine portare a confronti, a comportamenti e parole a volte volgari, che potrebbero sembrare nascere o sfociare nell'invidia. Io ho già scritto in queste pagine dei miei vizi capitali (vedi post precedenti), li confermo e potrei amplificarne anche i contenuti, ma nel campo del "fare cultura", vi giuro, non provo invidia.

Quando mi invitano ad un "evento" io ci vado. Il mio narcisismo sfocia di continuo nel presenzialismo: e sono due grandi mali. Ciò mi porta ad esserci, sempre e comunque, a volte per semplice curiosità. In quelle occasioni mi pento, mi pento delle mie debolezze, perché guardandomi attorno vedo sempre (in quelle occasioni) la sintesi delle bassezze umane. Mi vedo da prima forse allo specchio (narcisismo, e molto...!) e poi mi auto-convinco del disinteresse per le "cose", per "l'oggetto", per le motivazioni vere che ci dovrebbero essere. Così vorrei parlare delle "cose", appunto, e invece mi si ribatte di continuo "se voglio da bere". E poi bla! bla! bla! bla!...eventi forzati... distanze che si pongono (i pass, cordoncini al collo, gli inviti)... chi fuori e chi dentro. Alla gente piace così: mettere barriere, finte o vere, vivere incasellati. Sono sempre conflitti in fondo, anche in tempo di pace. E spesso chi li pone si propone quale intellettuale, come democratico (di sinistra o di destra non importa), spesso pone la sua predica sopraffina.

"Cultura etica", dico io, e quindi priva di sovrastrutture imposte. Interesse vero, concentrazione sull'oggetto e non dispersione nei rivoli del "qualcosa d'altro". E' un lavoro portato sul nucleo delle cose; è una politica dell'anti-evento, dell'anti-economico, dell'anti-affollamento. Non è una prassi dell'isolamento, ma del confronto profondamente inteso, svolto per capire principalmente se stessi. E' attenzione al "sè", all'"io" e quindi all'altro: è atto di formazione ed è questo il primo "dovere".

giovedì 22 luglio 2010

Cos'è cultura? (Parte 1 di 1000)

Stanno infuriando scambi mediatici di vasta portata intorno ai tagli operati alla "cultura" in Italia, praticamente per tutti i settori e diramazioni: circuito arte, cinema, spettacoli ecc..

Tutti gli operatori sono in tumulto, per i finanziamenti pubblici ridotti al lumicino, per la messa in discussione di molte iniziative che da quei finanziamenti dipendevano. C'è allarmismo, c'è molta paura, visto che da quei fondi dipende l'attività di molti operatori e di tutte quelle persone che vi gravitano attorno: molti volontari, ma anche molti che da tutto quel giro di denaro trovano anche la loro sacrosanta "pagnotta" giornaliera.

A destra e manca si parla della perdita (sul piano culturale) derivante da tali tagli, dell'importanza che questo o quell'evento aveva nel mantenimento di una corretta "politica culturale" in Italia.

Scrissi già alcuni anni fa tra le righe di un mio racconto quanto poco credessi nel ruolo dei cosidetti "eventi", forse anche in quelli che io stesso a volte mi mettevo a progettare e organizzare. Io credo che, adesso che i soldi apparentemente sono minori di prima, andremo verso una concentrazione del denaro pubblico intorno a un numero minore di cose, di situazioni. Personalmente nè allora, nè adesso credo che questo possa essere considerato un male in senso assoluto. Io credo che il sovraffollamento di occasioni culturali avuto dal 2003 in poi, spesso mal gestite, mal comunicate o a volte volutamente nemmeno comunicate, tanto si ritenevano rivolte a "gruppi di ascolto" o "di interesse" ristretti, non costituissero e costituiscano in alcun modo una condizione ottima per la cultura. Anzi.

Credo però pariteticamente che la concentrazione di fondi su poche cose generi limitazioni inevitabili alla pluralità culturale. Mi viene da chiedere ad esempio: Caravaggio? Ma esiste solo Caravaggio? Ma se fino a qualche mese fa alla chiesa di S. Luigi dei Francesi a Roma (per ammirare il ciclo di S. Matteo) non ci andava nessuno!

Purtroppo in Italia esiste un'unica cultura accettata, che è la cosidetta "cultura di massa", quella che fa i numeri, che produce i denari. Quando noi con ARTeFUMETTO facevamo gli allestimenti nessuno ci chiedeva: "Ma la gente apprezza? Ma le persone sono contente di quello che hanno visto?". No. Ci chiedevano: "Quanti?" E con le logiche dei grandi numeri è inevitabile che la cultura passi per i grandi soldi. Quindi l'evento sempre e comunque.

D'altra parte, come già sopra anticipato, sia ben chiaro che non apprezzo nemmeno chi si coltiva l'orticello a casa sua: si fa i propri interessi vendendo cultura ai margini, disperdendo in mille rivoli inutili soldi non propri, ma di tutti.

Io penso che si debba partire da qui, chiedersi cos'è "cultura", cos'è che ci rende colti? Ecco il primo nodo. Cultura non è per me necessariamente ciò che ci rende colti. E' invece ciò che ci rende "sensibili" alle cose, che crea in noi (esseri, senza esclusioni di ceto e di classe, nati gretti, ma con delle propensioni innate) delle aspettative inconsapevoli, delle suggestioni che diventano poi epifaniche del nostro essere e del nostro agire. Cultura per me non è leggere un libro, non è vedere una mostra, non è andare a teatro, non è andare al cinema, non è ascoltare musica (rock, jazz, classica, ecc). Cultura è un percorso, una ricerca che passa anche per quelle attività sopra ricordate, ma che da sole, "di per se stesse" non appaiono sufficienti. Solo all'interno di quel percorso non rettilineo, ma fatto di scarti, di ritorni indietro, di prove sul campo si nasconde la prassi culturale. Ecco che tutto appare di nuovo utile, perché effettivamente tutto stimola, ed essendo noi tanti esseri diversi (anche, ancora oggi, anzi forse più oggi che ieri, in ceto e classe purtroppo) non può esistere lo stimolo migliore o ottimale. Ecco che ciò potrebbe riportare a rendere legittimo il sovraffollamento, il tutto per tutti, ecc.

Ma attenzione vi è un limite, un confine. Esso sta nel ruolo che ha chi fa cultura. Non solo i cosidetti "attori", i "protagonisti" (chi va in scena cioé), ma chi opera dietro le quinte. Quelli che a quei fondi che oggi vengono meno stanno e starebbero aggrappati come le mosche alla lampadina (e sono gentile...). Mi chiedo se qualche volta questi si siano mai chiesti o si chiedano se stanno operando suggestioni, se stanno promuovendo ricerche personali o se stanno fungendo solo da attori economici. Un giorno Mario Monicelli alla presentazione di un libro di fumetto, avente come riferimento un suo soggetto mai realizzato, chiese all'autore: "Ma poi sta cosa si vende?" La pragmaticità dei nostri genitori. Con la loro logica del quotidiano.

Oggi, per gli operatori a cui alludo non si tratta della logica del "pane", ma della logica del profitto. A loro oggi chiederei: "Ma per un momento solo avete mai veramente ragionato senza pensare al soldo? Non solo "durante la cosa", ma anche "prima della cosa". Prima di farla questa cosa. Una qualsiasi cosa. Perché, mi chiedo ancora, oggi, all'interno del nostro sacrosanto gridare ai tagli, ai soldi, alle cose, vi è ancora qualcuno, anche uno solo, uno piccolino, che guardi alla cultura non sempre e solo come ad un diritto, ma anche come ad un dovere?

Perché, stiamo attenti, la società si rende migliore soltanto quando si ragiona a doveri e solo poi, solo poi, a diritti.

domenica 18 luglio 2010

Ritorni a casa

Sin da quando mi sono interessato alla musica rock, ho sempre cercato di fare chiarezza (mentale) sulle filiazioni che venivano formandosi negli anni rispetto certi artisti che consideravo dei capostipiti. Difficilmente è possibile in realtà ricondurre tutto a qualcosa d'altro, ma è un gioco a cui mi è sempre piaciuto dedicarmi. Se togliamo i padri fondatori, le "roots", e se isoliamo due casi che secondo me è difficile collocare realmente, il fenomeno The Beatles e il complementare fenomeno The Rolling Stone e se creiamo ancora una limitazione a questo pensiero, ovvero accettiamo di interessarci della musica dagli anni '60 in poi, mi pare che tutto quanto sia accaduto successivamente possa essere ricondotto a due realtà generanti, perlomeno in termini creativi, culturali e d'ispirazione: Bob Dylan da un lato e la Factory di Andy Wharol dall'altra. Sono due approcci al fare musica diversi, con sonorità, sensibilità e punti di vista diverse. E' questa relazione qualcosa che mi sembra superare persino le componenti geografiche, tipo America, Inghilterra, Italia stessa ecc. Ovviamente è un punto di vista e come tale nato per essere messo in discussione.
Ogni anno scelgo qualche concerto da andare a vedere, ogni anno devo selezionare, anche perchè costa tutto tantissimo, economicamente, i biglietti, viaggiare, mangiare fuori, ecc., ma anche fisicamente, e il fisico, che non c'è mai stato di suo, mi sta peraltro abbandonando giorno dopo giorno. Quest'anno ho fatto un'operazione selettiva mirata: volevo tornare a casa. Volevo andare agli inizi dei percorsi, godermi il seme generante e non perdermi nei rivoli delle derivazioni, che peraltro ho negli anni abbondantemente frequentato. Così il 13 giugno sono stato a Lubiana a vedere Bob Dylan (ne ho già scritto) e il 16 luglio ero ad Azzano Decimo (vicino Pordenone) per il concerto di Iggy Pop and The Stooges. Nel 1969 esce il disco The Stooges e lo produce John Cale fondatore di The Velvet Underground, a loro volta prodotti da Andy Wharol. E' un disco, con i due successivi (Fun House e Raw power) che influenzerà molti e creerà quel suono proto-punk che segnerà di lì a venire molte figure della scena musicale internazionale.
Ad Azzano, nello spazio della Festa della Musica, fa un caldo micidiale, sono le 22.30 e ci saranno ancora circa 35 gradi. Mi metto in posizione un pò appartata, lontano dal palco, perchè il luogo è un catino d'afa e non sopporterei lo schiacciamento delle circa 4500 persone presenti. La gente ha appena sentito finire l'esibizione di un gruppo supporto che ha decisamente fatto pena sul palco (Gang of Four, veramente perdibili) e respira come una cosa sola in attesa del concerto vero. Ma Iggy non arriva e l'attesa si fa pesante, la gente urla un pò, ma fa caldo e alla fine sembra accettare l'attesa. In quell'attimo di pausa il gruppo entra pressoché di corsa; nessuno capisce nulla, è come un tuono improvviso e Iggy è lì sul palco che urla "Raw power". Io guardo Alessia che mi sta accanto e la vedo sorridere, perchè il suono è incredibilmente punk e la voce è quella calda e pastosa di un epoca rock che sembrava non esistere più. Da lì in poi è un delirio. Sono contento di non essere sotto il palco perché oggi Iggy ha 63 anni, con la pelle e il volto di un sessantenne, ma la muscolatura e la verve di uno di vent'anni. Così a dovuta distanza sembra di assistere ad un concerto negli anni'70. Fabio mi dice, ridendo, che quelle quantità di droga che Iggy ha assunto tra il 1970 e il 1980 probabilmente ad oggi non è riuscito ancora a smaltirle.
Il concerto è breve (ma è punk, non un'opera di Wagner) e quando un ora e un quarto più tardi parte "No fun", si capisce immediatamente che la festa sta per finire.
Siamo sudati fradici. Attorno a noi ritroviamo amici, conoscenti che non vedevamo da tempo. Attorno a noi sono tutti contenti. Il ritorno a casa ha dato i suoi esiti.

mercoledì 14 luglio 2010

Novecento che rimane

La notizia, in sintesi: "Trieste, 13 luglio 2010. Stretta di mano storica tra i presidenti delle Repubbliche italiana, Giorgio Napolitano, slovena, Danilo Turk, e croata, Ivo Josipovic, nell’occasione del concerto “Le vie dell’amicizia”, promosso e diretto da Riccardo Muti in piazza Unità d’Italia quale evento conclusivo del Ravenna Festival 2010. Insieme i tre, prima del concerto, hanno deposto due corone d’alloro in due luoghi simbolo della memoria comune: l’edificio dell’ex hotel Balkan, oggi sede universitaria, che ospitava il Narodni Dom, la Casa del Popolo degli sloveni, assaltata e incendiata il 13 luglio 1920 dalle squadre di azione fascista e divenuta da allora emblema della persecuzione fascista contro gli sloveni; e ilmonumento all’Esodo eretto in piazza Libertà, in ricordo dei 350 mila esuli italiani costretti a lasciare l’Istria, Fiume e la Dalmazia dopo la Seconda guerra mondiale, dopo l'assegnazione alla Repubblica Jugoslava".
Bene! Tutto giusto, tutto perfetto, tutto maestosamente storico!
La storia contemporanea, che a queste latitudini passa ancora per la memoria. Una memoria che non trova pace, che passa dai nonni ai padri e dai padri ai figli. Una menoria che scava sempre negli angoli bui delle cose, incapace di vivere l'oggi senza pensare al ieri. Una memoria che a volte si ricorda del domani, ma preferisce girarsi velocemente per la paura di venirne cambiata, nell'accorgersi che il "domani" ormai parla poco la lingua del "ieri". E' una memoria che ha paura e che oggi posso dire ha proprio rotto le palle!

Conosco la storia, l'ho studiata e, vivendo qui al confine, l'ho indirettamente vissuta nelle vicende degli ultimi decenni. Capisco il dolore di tutti; capisco le ragioni di tutti, specie quelle dei nonni o forse dei padri. Capisco meno quelle dei figli. Conosco i torti subiti e le tragedie provate e condivido le accuse, condivido tutto. Di quei torti me ne faccio anche carico per la parte che mi compete, se per caso la storia crede mi debba considerare in qualche modo o forma colpevole. La storia non si cambia. Il problema è che non si cambiano nemmeno le menti, allorché queste sono fatte di piombo. Siamo, nel guardarci indietro, sempre pronti a scambiare piombo con il piombo. Ma se il piombo è qui nelle teste?
Credo che basti, che ognuno abbia dato (chi più chi meno certo, ma non possiamo farne sempre e solo un problema di principi, visto che "il solido" non sarà mai restituito, sia esso case, sia corpi, sia affetti, sia terra). Credo che la memoria e la storia e il ricordo e le paure e tutto quanto si riesca ancora ad elencare, possa essere messo da parte. Una pietra sopra, vi prego, a questo Novecento che non smette di torturarci, che ci sottrae la vita e la serenità, offrendoci in cambio solo parole già dette.
(la foto l'ho scattata a Trieste nel gennaio 2007. E' una piazza Unità vuota, come lo è spesso, ma capace di riempirsi in passato per il passaggio della storia, oppure di riempirsi oggi per rimasticare le angosce del passato)

giovedì 8 luglio 2010

Novecento che scompare

Stanotte è scomparso Lelio Luttazzi, nuovamente triestino da poco più di un anno e mezzo. Incredibile la sua carriera, incredibili le persone che ha visto e conosciuto. Si dice in questi casi: "E' scomparso uno degli ultimi veri gentiluomini della televisione..." Non mi sono mai interessato a Luttazzi, veramente intendo, ma quella "sua" televisione, quel suo mondo, mi interessava e mi interessa ancora, perchè li confronto con quelli di oggi.
Questa nostalgia per qualcosa che infondo non ho mai avuto, mi preoccupa, ma anche mi fa pensare che sarò, anche se gli anni passano e passeranno (spero) sempre un uomo del Novecento e non di questo nuovo secolo, che mi fa sentire, da quando è cominciato alquanto a disagio. Sarà che ad un secolo nuovo, come per le scarpe, bisogna prima farci l'abitudine... sarà!
Ciò che mi mancherà di Luttazzi per non averlo mai conosciuto è quella fetta del Novecento che non riuscirà più a testimoniare, un'altra ancora. Mi mancherà ciò che non ho conosciuto di lui, le emozioni che ha provato nel conoscere persone mitiche che non ci sono più, le sue esperienze che io non ho vissuto, ciò che stava nella sua testa insomma! Maledetto, così senza poter carpire più nulla. Maledetto, così senza preavviso..., cantando:
"...quel fiol de un can de un can
el xe cussì beato
adesso el me leca come un mato
perché spuzo sempre più de vin
e so che'l me vol ben che go un amico
per la prima volta in vita mia
a mi me basta un ano de sta bela vita
e poi sarà quel che sarà..."

lunedì 5 luglio 2010

Una mattinata di luglio

Sabato 3 luglio, tarda mattinata. Si sta svolgendo un incontro pubblico sulle opere prime del cinema italiano. Un critico a me sconosciuto fa domande sui generis ad alcuni registi, produttori e attori, pescando all'interno di un bagaglio a cui credo attinga di continuo. Il critico presenta poi alcuni altri ospiti che lo raggiungono al tavolo dei relatori. Uno di essi porta una maglietta con su scritto "mai dire opera prima". La ragazza, un pò attardata rispetto gli altri, li raggiunge mettendosi a sedere all'estremo del tavolo. Mentre tutti iniziano a conversare lei appare a disagio, continua a muoversi compulsivamente, nervosa o innervosita. Prima che la discussione entri nel vivo lei chiede ad alcuni del pubblico se può avere la sua borsa. Si alza per anticipare l'arrivo di coloro che prontamente gliela stanno portano. Noto solo ora che la guardo in piedi, come cammini tenendo le gambe lasciate scoperte dal corto vestito e come queste siano alquanto incurvate. Appare impacciata sui tacchi che porta, non ha decisamente una camminata da modella. Lei si siede, e mentre gli altri parlano inizia a frugare dentro la borsa con frenesia. Ne tira fuori poi una scatola per il fumo. La apre e ne estrae un filtrino che infila al lato della bocca. Inizia quindi a rollarsi una sigaretta con una maestria veramente notevole. Gli altri relatori appaiono alquanto sorpresi. Lei lecca e poi scalda con l'accendino il lembo della cartina, poi accende la sigaretta, cominciando ad aspirare fumo a boccate compulsive: una, due, tre (espira il fumo direttamente dalle narici), quattro e poi sembra in parte rilassarsi. Gli altri continuano a parlare anche se i più cominciano a essere alquanto invidiosi della fumatrice, aspirando anch'essi ad una sigaretta, ma cercano di trattenersi. Lei fuma rapida, finendo quindi la cicca, poi la spegne direttamente a terra sulle doghe del pavimento della terrazza dell'albergo che ospita la manifestazione.
La cosa mi è parsa divertente per il tono del tutto informale mantenuto dalla ragazza nel contesto (meno per la sigaretta spenta sulle doghe!). Siamo a Trieste durante la giornata conclusiva dell'undicesima edizione del Festival Maremetraggio. Siamo in Piazza Unità alla terrazza dell'esclusivo Harry's Grill - Grand Hotel Duchi D'Aosta: sono le dodici circa. Io sono seduto tra le prime file del pubblico che sta seguendo l'incontro/carrellata con autori, registi e attori dei film partecipanti alla sezione Ippocampo del festival. Io siedo con il regista romano Claudio Noce e il suo produttore. Dietro a me ci sono Sergio Rubini e un insieme variegato del miglior cinema italiano di nuova generazione (Michele Riondino, Valerio Mieli, Marco Luca Cattaneo, Edoardo Leo). Al tavolo Filippo Mazzarella (il critico) sta parlando con Alessandro Aronadio (il regista), Lorenzo Balducci (l'attore protagonista) e Rocco Papaleo (coprotagonista). Lei è Isabella Ragonese, nel cast del film "Due vite per caso". Lei ha uno sguardo veramente magnetico e una consapevolezza notevole. Lei è probabilmente una delle attrici più importanti tra quelle della sua generazione e probabilmente una di quelle che segnerà il cinema italiano dei prossimi anni. Alcuni titoli: Nuovomondo di Crialese, Tutta la vita davanti di Virzì, Dieci inverni di Mieli, Viola di mare di Donatella Maiorca, La nostra vita di Lucchetti. A fine incontro, nello scambiarci alcune parole, mi sorprendo per questa siciliana, classe '81, carismatica oltremodo, moderata e incisiva nelle parole come poche mi sia capitato conoscere. Quello che mi ricorderò di lei è però quella sigaretta fumata con avidità, quella naturalezza dei modi che non è semplice trovare in giro.
P.S. Due vite per caso è un bel film, ispirato, ma solo ispirato da Sliding doors.