sabato 24 luglio 2010

Slogan e "virgolette"...

I miei "quattro lettori" sicuramente avranno notato delle coincidenze non taciute tra "dittatura dell'assenza" e "cultura del dovere". Chi mi conosce sa anche che non amo gli slogan, ma in questo caso mi servono per sintetizzare dei filoni di pensiero. I due slogan potrebbero essere riassunti così in un terzo: "fare etico".

Si badi, non è questa che sto scrivendo una nuova "Commedia" e di certo non sarà mai "Divina". Non ambisco alla creazione di gironi danteschi dove incasellare i buoni e gli antagonisti, ma ciò non toglie che ci si debba anche guardare intorno e confrontare con il "vicino di casa". E non mi pare quest'oggi "che l'erba del vicino sia (in fondo) più verde"! Ciò va detto ed è importante. Purtroppo, una critica e un'interrogazione propositiva in merito al fare cultura, sul come farla, se la sua trasmissione corrisponda ad un modus operandi specifico, può infine portare a confronti, a comportamenti e parole a volte volgari, che potrebbero sembrare nascere o sfociare nell'invidia. Io ho già scritto in queste pagine dei miei vizi capitali (vedi post precedenti), li confermo e potrei amplificarne anche i contenuti, ma nel campo del "fare cultura", vi giuro, non provo invidia.

Quando mi invitano ad un "evento" io ci vado. Il mio narcisismo sfocia di continuo nel presenzialismo: e sono due grandi mali. Ciò mi porta ad esserci, sempre e comunque, a volte per semplice curiosità. In quelle occasioni mi pento, mi pento delle mie debolezze, perché guardandomi attorno vedo sempre (in quelle occasioni) la sintesi delle bassezze umane. Mi vedo da prima forse allo specchio (narcisismo, e molto...!) e poi mi auto-convinco del disinteresse per le "cose", per "l'oggetto", per le motivazioni vere che ci dovrebbero essere. Così vorrei parlare delle "cose", appunto, e invece mi si ribatte di continuo "se voglio da bere". E poi bla! bla! bla! bla!...eventi forzati... distanze che si pongono (i pass, cordoncini al collo, gli inviti)... chi fuori e chi dentro. Alla gente piace così: mettere barriere, finte o vere, vivere incasellati. Sono sempre conflitti in fondo, anche in tempo di pace. E spesso chi li pone si propone quale intellettuale, come democratico (di sinistra o di destra non importa), spesso pone la sua predica sopraffina.

"Cultura etica", dico io, e quindi priva di sovrastrutture imposte. Interesse vero, concentrazione sull'oggetto e non dispersione nei rivoli del "qualcosa d'altro". E' un lavoro portato sul nucleo delle cose; è una politica dell'anti-evento, dell'anti-economico, dell'anti-affollamento. Non è una prassi dell'isolamento, ma del confronto profondamente inteso, svolto per capire principalmente se stessi. E' attenzione al "sè", all'"io" e quindi all'altro: è atto di formazione ed è questo il primo "dovere".