domenica 29 luglio 2012

...lo sai non finirà na na na na...

Ancora luglio, alla sua fine, oramai. Tempo di sere all'aperto, con caldo soffocante perlopiù. Una serata simpatica me l'ha regalata Philippe Daverio, ospite il giorno 25 luglio al Film Festival di Aquileia (una delle rassegne cinematografiche dedicate al cinema archeologico che molti siti italiani stanno mettendo nella loro offerta culturale... no, non si tratta di Indiana Jones, ma sostanzialemnte di documentari o filmati di riproposizione con strumenti digitali di siti e città antiche). Daverio, non nuovo al Friuli d'estate (spesso ospite all'agriturismo ai Colonos a Villacaccia di Lestizza vicino Villa Manin in agosto, per la rassegna Avostanis), ha parlato poco di archeologia, ma molto di arte antica. Daverio è il vero prototipo dell'homus mediaticus, completamente a suo agio con il pubblico e assolutamente dedito a quello, ricambiato in ogni occasione per questo. Critico, non fra i più precisi e affidabili, per una sua tendenza alla soggettività di giudizio, lui stesso si definisce spesso un antropologo. Questa autocatalogazione gli permette però di dare giudizi spietati sul ruolo dell'arte contemporanea nel nostro tempo, che io condivido in pieno. Non è il suo un rifiuto del contemporaneo o del "nuovo", ma l'affermazione continua che non vi possa essere il nuovo se non come atto di comprensione e di estensione del passato e dell'antico. Ha detto durante l'incontro (parafraso): "Da antropologo mi limito a documentare; se vedo così una delle opere di Jeff Koons, uno di quei suoi cani ricchi di ormoni in materiale plastico, mi limito a documentare il declino dell'arte americana degli ultimi decenni". Oppure. "Non individuo ruoli per l'arte contemporanea, se non la celebrazione di se stessa o di garantire che alla Biennale di Venezia si assiepino durante la sua inaugurazione centinaia di moscerini vestiti di nero, tutti con i capelli corti e rigorosamnete con la laurea triennale". Fantastica osservazione, che permettetemi l'autocelebrazione, avevo scritto io stesso tra le righe in uno dei miei racconti, che portava lo stesso titolo di questo Blog. In un'intervista che precedeva l'incontro, apparsa su il Piccolo e a firma di Franca Marri, infine, alla domanda se l'arte contemporanea stia meglio di quella del passato, lui sottolinea: "Nooo, peggio.. L'arte del passato la possiamo solo dimenticare,...maltrattare, ma rimane libera; quella contemporanea è repressa e oppressa dalle speculazioni internazionali...". Aggiungerei: oppressa dal mercato e da chi lo guida per trarne vantaggio economico; meno libera di così si muore. E forse nemmeno Daverio è, con le sue lezioni mediatiche, completamente svincolato da questo processo inarrestabile. 
Un ultimo sussulto me l'hanno regalano ieri i tre tiratori con l'arco Michele Frangilli, Marco Galiazzo, Mauro Nespoli, che hanno vinto l’oro alle Olimpiadi di Londra, inaugurate il giorno prima, venerdì 27 luglio. Non avevo venerdì alcuna voglia di queste Olimpiadi, poi, per caso e per necessità, mi sono trovato dinanzi al video, che mandava le immagini dell’inaugurazione allo stadio di Marshgate lane a Stratford. Il lavoro del regista Danny Boyle, quello di Trainspotting e di The Millionaire è stato nella prima parte grandioso. Con la sua cultura postmoderna e perfettamente in sintonia con il sentimento di una generazione (quella post punk), Boyle mette in scena, vendendola come rappresentazione dei momenti salienti della storia inglese, o dimostrando una buona dose di incoscienza, la distruzione nel nome del progresso, ma ancora prima del mercato (con questi figuri dagli alti cilindri, gli affaristi, che scelgono al tatto i terreni da industrializzare), di un mondo rurale che diventa, grazie all’industrializzazione un mondo grigio, fatto di nugoli di persone dai movimenti serializzati: la classe proletaria che di lì a poco prenderà coscienza di se stessa. Credo che quell’oretta di inaugurazione, che subito dopo attraverso una lunga carrellata sullo sviluppo della musica giovanile inglese dagli anni ’60 in poi, andava a dimostrare l’idolatria della nostra generazione per lo strumento Internet, nella celebrazione del suo inventore, sia stata un libro di storia animata, da studiare a posteriori. Ma torniamo ai nostri tre M. dell’arco. Quando Michele scocca la freccia da 10 che li porta all’oro, davanti a tre baywatcher americani increduli, tutti si chiedono se questi tre vestiti “da italiani in gita” come direbbe Paolo Conte, con il berrettino a scodella ribaltata da domenicali sul lago e la “panza”, di due su tre, in bella vista, siano realmente espressione del mondo sportivo (nell’arco, non dimentichiamo vale molto la tecnologia, oltre che la preparazione atletica). L’Italia che vince, l’Italia che siamo, con berrettino e panza, e studi innovativi non troppo valorizzati alle spalle, che riusciamo spesso ad emergere perché gli altri quando ci vedono si distraggono e ci sottovalutano. Quei tre mi hanno veramente fatto impressione, sono l’oro dei sogni da italiano medio. Chi potrà ora spiegare ai nostri padri, o a molti tifosi da poltrona, che per fare sport non basta guardarlo in televisione. Chi lo spiegherà mai dopo quelle “panze”. Buona XXX° Olimpiade a tutti gli italiani.