sabato 31 maggio 2014

...per averlo avuto e conservato nella memoria così a lungo...

Frequento spesso i tavoli di qualche mercatino dell'usato, specialmente quelli che espongono cassette di libri e dischi a pochissimo prezzo. Non molti giorni fa, proprio da uno dei contenitori di volumi acquistabili ad un euro, ho sfilato un piccolo libretto, che avevo già avuto modo di leggere, in realtà, ormai molti anni indietro. Il libro era, ed è, Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice. Uno sguardo al colophon mi ha permesso però di scorgere che si trattava della prima edizione economica Einaudi del 1983. Ancora più interessante come il frontespizio interno riportasse il nome, abbastanza illegibile, della prima lettrice del volume e l'anno dell'acquisto, il 1983 appunto, oltre che una dedica del 1995 fatta dall'autore alla allora proprietaria. La dedica recita: "Con gratitudine, per averlo avuto e conservato nella memoria così a lungo". Dopo quasi ulteriori vent'anni, oggi, sono così io a conservare questo volume, sperando che una parte della gratitudine di Del Giudice mi venga in fondo trasferita. Non nascondo che la cosa mi abbia fatto riflettere parecchio, ancora una volta sul significato del possesso e sul ruolo degli oggetti, delle "cose" in genere. Piccola divagazione. Il testo di Del Giudice, opera prima all'epoca della sua uscita, è una riflessione sul rapporto letteratura, scrittura e vita. Un giovane protagonista (e un giovane Del Giudice, in questo fantastico saggio-romanzo), svolge una ricerca testimoniale su di una figura ormai scomparsa da più di quindici anni. La figura, mai citata, ma evidente dalle sue frequentazioni, è quella di Bobi Bazlen, "scrittore senza scritti", che non volle mai tradurre, a parte poche cose peraltro incomplete, la propria profonda ed esigente cultura letteraria nella pagina stampata. Personaggio storico sfuggevole, dedito a non lasciare tracce concrete di se stesso, alla rinuncia della scrittura, invece che alla scrittura stessa. Del Giudice ne parla attraverso i ricordi di personaggi storici quasi mai svelati (anche se non è difficile riconosce Anita Pittoni, Giorgio Voghera, Franca Malabotta e altri), anch'essi impossibilitati ad offrire testimonianze certe senza incrementare il dubbio. L'"inchiesta" sull'uomo Bazlen si svolge tra Trieste e Londra e lascia spazio alla consapevolezza dell'importanza delle scrittura  come strumento per estendere delle "relazioni di vita", più che per rappresentare dei contenuti e delle forme. Al di là di ciò, mi ha sorpreso, nel riprendere la mia copia del libro, come avessi sottolineato in matita, al tempo della prima lettura (alla fine degli anni Novanta), due frasi: "Bisogna tenere i libri distinti dai dolori."; "Ho pensato a come quel capitano (il capitano di lungo corso di Bazlen, probabilmente!) faceva ordine nella sua cabina, buttando fuori gli oggetti. Ho pensato: 'Non è facile con gli oggetti, la loro presenza è indelebile. Però è facile disfarsene, sono terribili e indifesi'." Ancora gli oggetti. Era strana questa coincidenza. Ma lo sarebbe diventata ulteriormente allorché tra le pagine del volume comprato al mercatino, scopro un ritaglio di giornale, ormai ingiallito, tagliato e piegato per poter sparire nella sagoma del libro. L'articolo ricorda uno speciale televisivo della rubrica "Tuttilibri", in onda sulla "RETE 1", dal titolo "Bobi Bazlen", con interventi di Stelio Mattioni, Luciano Foà, Giorgio Zampa, Italo Calvino, Lucia Drudi Demby, Elena Croce, Natalia Ginzburg, Massimo Cacciari, Roberto Calasso, molti dei quali correlabili alla casa editrice Adelphi, essendo Bazlen cofondatore della stessa. Vorrei far notare il carnet degli invitati alla discussione, che aiuta a riflettere su alcune distanze culturali tra il fare televisione ieri e oggi, ma preferisco lasciare perdere. Interessante è invece sottolineare come nell'articolo venisse riportato un aneddoto su Bazlen raccontato da Natalia Ginzburg: "(Bazlen) la criticò, passeggiando a Roma sul Lungotevere, per l'impermeabile vecchiotto che indossava, invitandola a disfarsene. 'Guarda come faccio io' - disse Bazlen. E gettò la propria giacca nel Tevere. 'Io l'ho vista galleggiare via quella giacca - dice la Ginzburg - lui era là... in maniche di camicia'." Ancora un'occasione di riflessione sul possesso, sugli oggetti. Che sintesi trarre da tutto ciò. Forse nessuna. Oppure lasciare spazio ad una presa di consapevolezza più matura del ruolo delle cose nella nostra vita, presenze "indelebili", indipendentemente dal loro possesso, "terribili e indifese". Basta un gesto per privarsene, come può essere mettere dei libri, affettivamente cari, in uno scatolone e gettarli nella spazzatura, come una giacca nel Tevere, oppure portarli da un mercante dell'usato e perdere quindi il controllo sul loro percorso futuro. Ma la certezza è di come la nostra volontà, più o meno propensa al feticismo o al collezionismo, non potrà mai controllare l'intero ciclo di vita di quegli oggetti (dei nostri oggetti). Ad un certo punto le "cose" si staccano da noi, e non è un distacco sempre gradito, sottendendo con questo che la loro vita risulta molto spesso più lunga della nostra, e che tutto quello che per noi ha importanza per i più non conta nulla, trovando così spazio nei contenitori delle vendite ad un euro degli "antiquari" delle nostre città. La domanda finale che pongo è quindi questa: Che società è quella che ha deciso consciamente di dedicarsi alle "cose"? Che dimensione storica potrà mai avere? La risposta trova in parte luogo nei difficili anni che stiamo vivendo, per il resto potrà esprimersi soltanto attraverso le nostre intelligenze.