lunedì 8 dicembre 2014

Le cose che mi passano per la mente

Di certo l'atto più estremo a cui si sottopone l'essere umano è la scrittura. La mente raccoglie in ogni istante centinaia di pensieri e li elabora contemporaneamente, li sovrappone, li mescola. Chi scrive opera una selezione limitante che estrapola una delle migliaia di queste elaborazioni, e le pone sulla pagina. Lo strumento digitale (la scrittura digitalizzata) è per molti la forma più repentina per gestire tale passaggio. Per me è la scrittura manuale (penna su carta). Ogni scelta pone il problema di ciò che è andato perduto a causa della stessa. Ogni parola scritta è quindi al tempo stesso una piccola vittoria ed una enorme sconfitta. Il filtro che ci permette di selezionare ciascuna parola scritta, o detta, è ciò che chiamerei cultura personale o, generalizzando, "cultura". Mai parola fu più abusata di questa, e probabilmente ciascuno nell'utilizzarla si colloca ben lontano dal nucleo sostanziale del significato di quel termine. Cultura, dal participio futuro del verbo latino còlere, quindi coltivare, ma anche avere cura, e infine per ragioni stanziali abitare; al participo passato coltus, che rimanda anche all'onorare, al culto. L'etimologia spiega come sia più importante il percorso che l'atto in sé. Se non vi è la cura, la "coltivazione" e l'"abitazione" prolungata, vi è solo superficialità. Nei giorni scrorsi Renzo Piano, quale senatore dinanzi al capo dello stato, precisava (il testo è quello raccolto da la Repubblica) di non essersi mai sentito, nemmeno da giovane, un semplice architetto (vorrei evidenziarvi, come già l'uso del termine "semplice" la dice lunga su come lo stesso si collochi rispetto i colleghi, quando in realtà nell'essere architetto, specie oggi, vi assicuro che di semplice vi è realmente poco), ma un costruttore di luoghi di cultura, un amante della bellezza. La cultura, continuava Piano, la frequentazione della bellezza (ecco qui il senso dell'"abitare a lungo"), il sapere, ci rendono persone speciali. Qualsiasi lavoro si faccia nella vita, ricordava Piano, ciò che renderà unici sarà la dimensione culturale del singolo. Oggi sono tutti ad evocare la "bellezza", dopo Sorrentino e il suo Oscar hollywoodiano in Italia si mangia pane e bellezza. Ma, come sapete bene, senza procurarsi il pane (purché non si vada a rubarlo) non si mangia. La bellezza va conquistata e non solo evocata. In Italia sembra sempre che la bellezza vada frequentata, ma il costruirla (per restare in tema architettonico) spetta a terzi. Cultura dicevamo. Recuperando alcune riflessioni del 2012 di Massimo Angelini per la rivista online Montesquieu.it dell'Università di Bologna, a cui devo anche gli spunti per la mia sintesi etimologica, dalla "cultura si passa al culto", se cogliamo il senso del tempo, e il "culto preannuncia la cultura", se predilegiamo il fine. E' quindi sempre una situazione di tempo o di finalità. E' ciò che permette alle passioni di prefigurare la cultura. La passione permette la frequentazione e quindi l'abitazione prolungata. Sono le passioni che ci spingono ad approfondire e quindi a spostarci da casa, ad esempio, e raggiungere un teatro, la sala cinematografica, una galleria espositiva, una fiera di settore. Ecco che giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, direi, stancandosi e spendendo, si matura dentro di sé un ambiente utile ad ospitare con consapevolezza il raccolto. Raccolto che viene onorato e curato. Cosa succede invece oggi? La passione viene sostituita dalla mediazione, nel senso della comunicazione mediata. La frequentazione è indotta dalla comunicazione. Ciascuno si sposta rispetto costruzioni mediatiche che definiscono e stabiliscono il culto. Le scelte sono fatte da terzi. A ciascuno basta raggiungere l'oggetto proposto e quindi "coglierlo". Ma da ciò non nasce la cultura, manca la frequentazione e la ricerca pesonale determinata dalla passione. L'evento non è mai di per se stesso un luogo abitato, ma solo un tramite per qualcosa che potrebbe nascere in futuro. Come si diceva è una questione di tempo e di finalità personale. Ecco qua, tutto questo discorso per chiarire che non basta andare all'inaugurazione di una mostra e neanche recarsi alla prima del Teatro alla Scala di Milano per il Fidelio per "abitare" qualcosa. Che spesso una programmazione culturale vale di più di uno, dieci, cento eventi; e spesso programmazione culturale fa rima con uso di poche risorse. Di chi è la colpa? Della comunicazione si diceva, prima di tutto, delle necessità politiche che stanno dietro ogni progetto culturale, dovendosi garantire riscontri immediati, quindi momentanei, quindi scarasamente o poco sentitamente "frequentati", quindi in fondo inutili. La sovrapposizione che tende ormai all'uso indifferenziato dei termini "cultura" e "intrattenimento" è alla base di ogni fallimento culturale. La bellezza resta là fuori, visitata appunto, ma mai abitata realmente. Tutto questo mi è sovvenuto con chiarezza dopo la presentazione del nuovo volume di Loriano Macchaivelli e di Francesco Guccini, La pioggia fa sul serio, Strade blu, Mondadori, durante il festival CormonsLibri alla Sala Italia, domenica 07 dicembre. I due appaiono verso le 19.00, in una sala gremita di gente, molta della quale presente per assistere anche all'incontro precedente con Dino Zoff e Bruno Pizzul. Tantissime persone presenti per Guccini. Tra mille frivolezze dette, tra le difficoltà di stare dentro una sala al limite della sicurezza, tra il desiderio di ciascun amministratore o rappresentante istituzionale territoriale presente di marcare la propria presenza, facendo a parole propria una manifestazione riuscita, l'incontro è apparso alla fine per quello che temevo potesse diventare: una occasione persa per crescere. Eccoci quindi tutti insieme, presenti ad una recita mascherata, ciasuno con il suo ruolo, ad abbracciare miti che furono, a cercare risposte già date anni orsono, a frequentare la nostalgia, a ridurre, come sempre più spesso accade, la cultura in un culto del materiale e dell'effimero. Non mi faccio mancare nulla, avvicino anch'io gli autori, assumo la laica eucarestia dell'autografo. Francesco Guccini è la maschera della noia, invecchiato, gobbo su se stesso, infastidito dalla fila lunghissima dei fan e dalle foto che i più gli chiedono di scattare assieme. Vorrei scattarmela anch'io una foto con Francesco, ma quando è il mio turno gli chiedo: Ma ne hai voglia? Lui risponde con un secco, no! Gli rispondo che allora la foto non la faccio, e lui scoppia in una sonora risata, rompendo il momento di fastidio che stava provando. Mi offre la mano, che stringo, e nel ricordo dell'uomo quello vale più di una foto. Non è stata cultura, quindi, ma solo passione fine a se stessa.
P.S. Per la cronaca, la miglior battuta della serata la fa Guccini: "Non ho la patente, non ho il telefonino... tra poco entrerò tra le specie protette dal WWF!". Bontà sua!