venerdì 14 novembre 2014

Sintesi

Mi accorgo, mentre inizio a scrivere questo post, che quello precedente era il n.200. Volevo così scrivere delle cose e invece ora mi sembra di volerne raccontare delle altre, proprio partendo da questa piccola consapevolezza numerica. Duecento post sono un libro. Mi sorprende quanta energia sia stata spesa nel gestire questi testi, e quanta sia stata forse dispersa o avrebbe potuto favorire altre situazioni. Ancora una volta mi auto-alimento nella riflessione della sovrapposizione tra vita reale e vita raccontata, e tra "vita" e spazio virtuale. Qui, tra queste pagine, siamo in realtà molto più "piccoli" di quanto ciascuno creda. Siamo in fondo delle realtà puntiformi nel grande mare della connettività. Il nostro pensiero, qui, conta molto meno di quanto vogliamo convincerci possa fare, spendendoci così nel tentativo di raggiungere un pubblico, in realtà mai così disattento come in questa sede. Nella realtà "vera" ti muovi, trasformi energia in azioni, che a volte restano, sottolineano, trasformano; qui il cerchio sembra chiudersi su se stesso, poiché le parole si alleggeriscono, perdono di peso, sono a volte degli specchi. La scelta iniziale di non aprire questo blog ai commenti esterni voleva rappresentare proprio il mettere alla prova il ruolo di questo spazio come luogo "possibile" di relazione. Siete stati pochissimi a scrivermi sulla mail messavi a disposizione per cercare tale confronto. Il "commento" è realmente lo strumento dell'usa e getta, dell'autoalimentazione. Anche una email inizialmente pensavo lo fosse, invece si è rivelato per tutti comunque uno strumento complesso da affrontare, bruciato dalla rapida evoluzione del pensiero veloce, spesso poco riflettuto, spesso buttato lì per contrarietà o per chiacchiera al bar. Ecco, questo luogo virtuale accetta ancora la regola del bar, del pensiero da bar, della parola frivola, che rinuncia al linguaggio, all'etimologia, alla semantica, alla sintattica, per limitarsi al suono, all'affermazione cercata dell'"ecco, ci sono" a tutti i costi. "Continuavo a guardare fuori" impone una auto-regolamentazione, ovvero che quanto si va scrivendo risulti perlomeno "digerito", acquisito,  messo alle spalle della scrittura. Appartenga ad un ieri, se non temporale, perlomeno psicologico. "Continuavo a guardare fuori" è un passato mentale, più che reale. Ho rinunciato spesso a commentare l'attualità, rileggendola il più delle volte sulla scorta di un bagaglio se non culturale (magari!), di certo speculativo. Ho usato spesso i miei cari fumetti come maschera, al pari delle mie esperienze più naif, quali quelle rivolte al ricordo nostalgico o all'incontro con le "star", ricordando l'accezione che ne faceva Edgar Morin. Ne è infine risultato un viaggio, che è stato per me un percorso epistemiologico, nel senso di ricerca della conoscenza quale esperienza scientifica. E' stato in fondo sempre un tentativo di sondare un metodo, definire una chiave di comprensione dell'odierno. Oggi, periodo storico in cui appare ineluttabile che sia la storia a risultare il luogo di approfondimento umanistico preferenziale, dovendosi ricercare delle risposte ad una quotidianità debole proprio attraverso la forza sostanziale della lettura storica, mi sembra un dovere affrontare il presente. "Continuavo" è un lascito del passato che si approfondisce nell'odierno, è un flusso e non una serie di occasioni che lavorano a scompartimenti separati. Non ho ancora voglia, quindi, di abbandonare queste pagine, pur nella consapevolezza della loro inutile specularità. Scrivo per chi? Scrivo per me? Forse. Ma perché non potrebbe essere così!