domenica 5 agosto 2018

Non necessariamente coerenti...grazie!

In questi mesi, forse come mai prima d'ora, vi è la sensazione di dover porre alla base di ogni riflessione una condizione di appartenenza, sia essa nazionale, identitaria o culturale in genere. Anche generazionale, direi. Ogni discorso ha sempre una premessa non detta (o non scritta), bensì sottesa, che parte da un tacito accordo di condizione tra ascoltatore (lettore) e argomentatore. Ciò non è un bene. Ogni affermazione o pensiero appaiono come svalutati nella loro proposta di ricerca, a favore di un esame di contesto. Tra i contesti possibili: l'appartenenza politica (gli ideali o l'ideologia), la geografia (da dove vengo) e naturalmente la narrazione storica proposta. Oggi è realmente tutto fondato su un confronto (scontro) tra narrazioni molteplici, perlopiù strumentali e funzionali a dei sottopensieri forti. Nell'epoca delle potenzialità infinite di espressione "democratica" (internet) vi è la sensazione di un condizionamento espressivo senza pari; e l'aspetto più inquietante è che esso appare soltanto in minima parte imposto, perlopiù autodeterminato invece, indossato cioè volontariamente a seguito di una sensazione di disagio nel non senrtirsi pienamente accettati culturalmente o adeguati ad una narrazione piuttosto che ad un'altra. Il desiderio più forte (un'esigenza, ormai), quindi, è di incoerenza al contesto e di libertà dal "se stessi", approfittando delle occasioni di sovrapposizione e apertura che ci vengono a volte proposte. Mescolare l'alto con il basso (a ripensarci per me è stato forse sempre così), il chiaro con lo scuro, le passioni di ieri con quelle di oggi, il leggero con il grave (scorgendo il grave dentro il leggero e viceversa) In questa prassi aiuta saper vivere le cose per quello che sono, senza cercare di giustificare ogni scelta o ogni pensiero. Questo lungo preambolo è anch'esso una giustificazione, probabilmente doverosa per far capire a chi legge le motivazioni che mi spingono a parlare di ciò che segue, ma al tempo stesso dimostrazione in solido di quanto vado stigmatizzando. Il messaggio insomma è: godiamoci l'entusiasmo per come arriva, mandando a quel paese la narrazione globale che lo sostiene. Se sapessi affrontare un pensiero verso le cose del mondo con tale "libertà", forse potrei anche superare il pregiudizio con cui guardo ad ogni cosa non mi appartenga: forse potrei anche capirne di più o meglio. Ecco perché nelle mie ricerche personali colgo il meglio, il meglio per me, non in assoluto, e non mi preoccupo di determinare ogni scelta con una razionalità di percorso (non è individualismo, ma rispetto e fiducia del percorso stesso che mi ha portato sin qui). Così non mi meraviglio se la notte del 27 luglio mi trovo a guardare con interesse e fotografare l'eclissi di luna (la più lunga del secolo, pensa un pò!), ma nel scorgerla, mi scopro a pensare solo all'immagine della luna disegnata da Naoki Urosawa in conclusione al suo manga capolavoro Billy Bat (20 volumi pubblicati in Italia dal 2011 ad oggi). 
la luna di Urosawa
Un fumetto per prendere coscienza di come anche i messaggi più retorici trovano un senso dinanzi alle tristi vicende del quotidiano e della Storia. Alla fine il messaggio di Urosawa (e del coproduttore della storia disegnata, Takashi Nagasaki) sembra essere quello della capacità di un "semplice" fumetto stampato (che sia su supporto cartaceo in questo caso non è fattore indifferente) di divenire strumento d'unione tra culture diverse, allorché veicolo di passioni condivise. Senza spoiler sotanziali, tra le tante cose di cui i volumi parlano, un soldato del 2063 perde ogni ragione di esistenza nella brutalità della distruzione totale che la guerra impone, ma trova conforto in quell'unica foto stampata su carta che conserva con cura; "anche se si memorizzano le foto (le mille e mille foto) in un hard disk", staccata la corrente non le puoi più vedere. Nel 2012 con Walter Chendi (autore anch'egli di fumetti) pubblicammo un volume di racconti (SessantaQuaranta, edito da ARTeFUMETTO) con delle premesse simili, e oggi pare che quanto scritto in quel contesto abbia ancora più senso. In sostanza si scriveva: un'immagine scelta criticamente, fissata su carta (la vecchia foto), sa rendere d'istante un piccolo mondo personale che le centinaia di foto digitali archiviate e mai più guardate non riescono a tradurre. La sovrapposizione delle cose (di immagini e di notizie) ci portano a distogliere il pensiero dall'obiettivo primario: non rinunciare mai alla propria umanità. E' questa in fondo anche la storia de "La valigia" di Sergej Dovlatov, che, per essere riempita dei ricordi di una vita, appare sempre troppo grande (anche se all'inizio non lo sapevamo), poiché sono realmente pochi gli oggetti che ci rappresentano e non sappiamo lasciarci indietro. E così, mentre finisco a malincuore Billy Bat, grazie a Dovlatov, ripenso al volume finale della trilogia di Jonas Fink di Vittorio Giardino. L'autore è stato nostro ospite nei mesi scorsi a Ronchi dei Legionari e a Trieste. Nel suo lungo romanzo a fumetti ci ha condotto tra le pieghe della storia contemporanea (la Cecoslovacchia prima e dopo la Primavera di Praga). 
Vittorio Giardino a Ronchi dei Legionari
La storia narrata alla fine parla semplicemente di un uomo, che prima di diventare adulto è stato bambino e quindi ragazzo. Un uomo però posto dinanzi a scelte difficili, quale, ad esempio, pensare alla propria libertà e sopravvivenza oppure combattere per degli ideali. Il mondo del fumetto non è ovviamente la realtà, ma a volte la narrazione è più vera della realtà stessa o perlomeno è più illuminante. Così alla fine la storia di Jonas sembra divenire un'occasione di riflessione su tutte le scuse che un uomo può costruirsi per garantirsi delle fughe dalla realtà. "Uno che scappa", Jonas Fink, ma non ho trovato molti personaggi così umanamente delineati nel fumetto di oggi, tanto che il fumetto di Giardino diventa quasi un saggio per un esame di autocoscienza. E la domanda è: cosa avrei fatto io al suo posto? Quante contraddizioni mi trovo continuamente ad affrontare? Quali sono infine sopportabili? Nel pormi la questione il pensiero va a Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP, ex CSI, ex PGR, oggi "allevatore di cavalli" e cantautore a tratti. Una figura controversa la sua e naturalmente scomoda, perché, come dice lui, "pronta a ragionare con la testa propria". Il tema della coerenza sembra porsi come centrale nel ricordare le sue prese di posizione che ai più sono sembrate contradditorie, specie quando il suo avvicinamento al cattolicesimo ha aperto a gesti e riflessioni discussi ed estremi. "Sempre fedeli alla linea, perché la linea non c'è", ricordiamo. La coerenza nell'incoerenza. La ricerca del prodotto nel continuo rifiuto del prodotto (è stato questo il percorso dei CCCP in fondo). Le sue molte affermazioni recenti: "Mi colpiscono quelli che mettono i cari all'ospizio per dedicarsi al Terzo Mondo".  Ferretti era ad Azzano Decimo (PN), sul palco della Festa della Musica, il 29 luglio. Abbiamo cantato e ballato molto, riascoltando canzoni bellissime, che solo con la sua voce recitante sembrano assumere senso. Da "Morire" ad "Emilia Paranoica", ma anche "Madre" (che dice molto di come l'uomo Ferretti avesse già manifestato artisticamente più volte, in tempi lontani, alcune delle "provocazioni" che saranno poi sottolineate da molti), sino al "salto" collettivo su "Spara Jurij". I CSI (Zamboni, e compagni) sono in tour in Italia con la loro musica splendida, ma senza Ferretti la vicenda CCCP e CSI non esiste, se non nella forma. Manca quella sostanza che l'incoerenza artistica dell'assente solo sa dare. Ho voluto scattare delle foto inquadrando il volto e gli occhi di Ferretti, per rileggere quel "logo" che siglava la copertina di Ko de Mondo, disco pubblicato nel 1994.
Giovanni Lindo Ferretti ad Azzano Decimo
Francesca Michielin a Lignano
E sono nati più o meno in quegli anni, mentre i CSI scrivevano la propria Storia e una parte della Storia della musica italiana, molti degli spettatori, tra i più anziani, presenti tra il pubblico del concerto di Francesca Michielin a Lignano Sabbiadoro (3 agosto). Ho chiesto ad alcuni di coloro che erano ad ascoltare con me Ferretti ad Azzano Decimo di accompagnarmi a Lignano. I loro sguardi imbarazzati (e soprattutto quel loro affermare una distanza "ideologica" da quel mondo musicale che proponevo) hanno alimentato il discorso fatto sin qui sulla coerenza e sulle giustificazioni al proprio pensiero (...la linea non c'è...). Considero Francesca Michielin (nata nel 1995, a proposito), una delle cantanti e autrici più interessanti della scena musicale italiana attuale (chi l'ascolta con attenzione coglie un linguaggio che è inevitabilmente proprio del suo tempo e una apertura musicale molto vasta). Dalle canzoni degli inizi scritte per lei da Elisa Toffoli, sino alla maturazione di una capacità propria, che si traduce durante il concerto in un atteggiamento sul palco di grande consapevolezza e talento (le immagini da me riprese a Lignano colgono sempre una concentrazione e una "distanza" di grande interesse fotografico). Quando il concerto finisce, una parte del pubblico (molti giovanissimi, ovviamente) si avvicina al palco. Lei esce con chitarra e tamburello e regala alcuni pezzi in versione acustica, cantati tra la gente. E' di certo complesso rinunciare alle retoriche con cui affrontiamo strade per noi sicure, rimestando all'infinito parole e linguaggi consueti. Provare a ruotare il foglio che abbiamo dinanzi, guardare la faccia che sta dietro, è un impegno sovrumano oltre che un gesto semplice. In un contesto di narrazioni facili, fatte di "bianco o nero" (alla lettera, direi), ripensare a se stessi dentro una molteplicità di percorsi possibili aiuta a darsi strumenti per affrontare senza pre-giudizi l'attualità. E' un atteggiamento formativo, tutto fatto di esperienze e quindi difficile (o impossibile) da insegnare o restituire a terzi, ma è pur sempre un dovere sociale non più rimandabile.