
Nel scoprirlo a volte in televisione o a qualche incontro, in giro per l'Italia, lo ascoltavo sempre come si ascoltano le fiabe. Era una radice di quelle grosse e ben piantate, poco incline a far ondeggiare il fusto della pianta, anche quando il vento appariva forte. Non si è piegato nemmeno alla fine. La mente va a Pavese, a tutti i giganti perduti nello stesso modo.
Di Monicelli mi ricordo soprattutto un incontro. Io avevo la mania di chiedere degli autografi e lui la mania di dedicarli, chiedendo sempre se l'interlocutore fosse a conoscenza dell'origine del proprio nome. Gli risposi, quella volta, giocando a mia volta con questo suo gioco. Volevo conoscere la sua reazione.
Gli raccontai che mio nonno era un estimatore fascista e che quando nacqui volle imporre a mia madre il nome del suo primo nipote: "Ro-Ber-To" fu la scelta, poiché richiamava in forma contratta l'asse Roma - Berlino -Tokio.
Era una sciocchezza che mi era sovvenuta alcuni anni prima.
Monicelli mi guardò sornione, ma non disse nulla. Dedicò la sua firma al mio nome. Mi spiaceva però averlo raggirato e gli rivelai che il mio nome derivava in realtà da un cantante, tale Robertino, in voga negli anni Sessanta: quello sì che piaceva a mio nonno.
Monicelli mi disse che ne era contento: che nel primo caso il fardello sarebbe stato veramente troppo grande!
Avrei altri aneddoti su Monicelli, ma questo è quello più personale.
Mi manca già, per la sua schiettezza infinita, per la sua lezione continua. Mi mancano i suoi ricordi, ormai perduti. Mi accorgo ora che non gli ho mai scattato una foto.