
Di quanto ho sentito nella giornata di ieri (oltre allo spettacolo di Marta), mi restano principalmente due testimonianze/interventi, che credo più significativi del semplicistico e strumentale effetto mediatico “Ogni uomo oggi è ebreo. Anche io oggi sono ebreo…” pronunciato dal presidente del Senato Renato Schifani durante la visita lampo alla Risiera di San Sabba di Trieste, stella di Davide puntata al petto. La prima è del premio Nobel per la Pace Eliezer Wiesel, rumeno di cultura ebraica, oggi americano, sopravvissuto al campo di Auschwitz prima e di Buchenwald poi: “I testimoni hanno parlato, ma il mondo si è rifiutato di ascoltare, altrimenti non si spiegherebbero i genocidi che sono avvenuti nel dopoguerra: se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo che cosa potrà guarirlo? (…) Non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro per i nostri figli.”
La seconda, lapidaria e universale, è del Goriziano Mario Simaz, sopravvissuto all’internamento nei campi di sterminio in Germania, insignito ieri della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica nella cerimonia organizzata dalla Provincia di Gorizia: “Ai giovani e a chi non ha vissuto la tragedia della Shoah posso solo dire che la guerra, l’odio e la violenza sono cose terribili, che non si devono ripetere mai più”.
E’ un episodio del 1988. Io, studente di Architettura a Venezia al primo anno accademico, potendo accedere alle liste per disporre di una stanza nelle case dello studente veneziane, avendo ricevuto, per ragioni burocratiche, l’assegnazione in ritardo, vengo alloggiato nella casa denominata Ca’ Laca, non distante dalla chiesa dei Frari. La mia fu la condizione di unica “matricola” in un contesto storicamente assegnato ai fuori corso, fuori zona, perlopiù di origine pugliese e siciliana o straniera in genere. Fu quella un’esperienza formativa, direi, paragonabile ad un anno (tanto durò la mia permanenza lì) di leva militare. Dei “nonni”, a cui seppi infine tenere testa, divenendo una sorta di mascotte accettata e rispettata nella casa, mi ricordo tra gli altri di Carlo, con cui dividevo la stanza. Carlo era catanese e mi faceva ascoltare giorno e sera Fisiognomica di Franco Battiato. Stava allora preparando la sua tesi di laurea sull’Arsenale di Venezia e la stanza sembrava un deposito di plastici di studio. Carlo aveva una ragazza di Venezia e quando occupavano la stanza per farci del sesso, si chiudevano a chiave e mi lasciavano in portineria al piano terreno (noi stavamo al quarto, nel sottotetto) un biglietto con scritto: COMPLETO!
Mi ricordo poi di Mauro, che ci invitava nella sua stanza e mentre ci offriva del Jack Daniels al lume di candela (che io non bevevo, essendo astemio), ci chiedeva consigli sulle fotografie di nudo che scattava alla sua ragazza sullo stesso divano dove noi stavamo seduti. Sullo sfondo le musiche di David Sylvian e dei This Mortal Coil, che io suggerivo per tutti.
La componente straniera era fatta di un nero inglese, fan di Michael Jackson, che se ne partì al concerto di Torino e tornato ci rifece, precisi, precisi, tutti i balletti del suo idolo; di alcuni palestinesi, un Monhir, un Hassam, e alcuni libanesi cristiani. Ricordo che di notte non si dormiva mai (e di giorno non si studiava mai), perché c’era sempre qualcosa da festeggiare. Ricordo i ramadan di alcuni palestinesi e il totale disinteresse per la religione di alcuni altri. Tra questi ultimi c’era un palestinese sciancato, zoppo e astuto, che soffiava, con i suoi modi gentili, le ragazze a tutti.
Una notte una ragazza di Castelfranco Veneto ci svegliò, io e Carlo. La porta delle camere era sempre aperta e la privacy non esisteva. Nella casa i bagni erano in comune e le scale, dalle quali si “gavettonavano” i neo-laureati con secchi d’acqua dal quarto piano, era una specie di piazza pubblica. La ragazza aprì la porta verso le due o le tre di notte, ci svegliò gridando che qualcuno al terzo piano aveva organizzato un addio notturno per la partenza di un ragazzo libanese, di cui non ricordo il nome. Ci trovammo così nella stanza della ragazza, tutti in pigiama e pantofole con un piatto di spaghetti fumanti tra le mani. Il ragazzo libanese era tristissimo: doveva partire d’urgenza per il sud del Libano, essendo i suoi genitori stati uccisi durante uno scontro a fuoco, credo all’interno della guerra interna alla comunità cristiana che scuoteva al tempo il paese, conseguentemente alla storica formazione della zona di sicurezza tra Libano e Israele. Suo fratello gli aveva chiesto di rientrare, poiché vi era la casa da difendere o qualcosa di simile (non ricordo bene). Ricordo che salutammo la partenza, brindando con della Coca-Cola e che nel salutarci il libanese ci baciò uno a uno sulla guancia, lasciandomi ancora oggi la sensazione della sua barba che mi pungeva il volto e della sua pelle bagnata di lacrime. Il ragazzo ci disse che se tutto si fosse sistemato, se non fosse morto ci saremmo rivisti, lì a Venezia. Ci ritrovammo, invece, circa due mesi più tardi, nella stanza di un altro libanese, a ricordarne la morte.