domenica 24 luglio 2011

Con questo peso sullo stomaco

Non riesco a rinunciare ad agganciarmi al post precedente: le immagini di Genova 2001 sono state presentate in questi giorni sui media un pò in sordina, a notte tarda perlopiù, o su internet ovviamente. Gli articoli sono stati molti, ma condotti nel segno del ricordo, del folclore e non della presa di coscienza. Non è un buon segno. La cosa testimonia di un paese che non riesce mai a mettersi in pace con il proprio trascorso. Deve sempre almeno in parte balbettare o insabbiare e quindi lasciare ad altri il compito di passare la spugna, di svelare. Non viviamo in questo senso in una condizione onesta verso noi stessi e nemmeno verso chi abbiamo il dovere di educare. Falliamo di continuo e ci portiamo un fardello che trasciniamo a fatica, molto più grande di noi, con cui rimandiamo però alle generazioni future il compito "del farsi realmente carico"; le stesse generazioni a cui evitiamo di parlare chiaro e quindi di formare: le stesse generazioni che quindi non avranno mai gli strumenti per dipanare le ombre. Insegniamo così a navigare a vista, educhiamo all'indifferenza chiassosa. Scusate, ma oggi ho questo tono qui, un tono qualunquista; il fare di chi dice ovvietà, perché crede che bisogna ritornare a dirle, smarcarsi dagli intellettuali e dalle menate, per dire "nero" se è "nero" e non sviolinare sempre in "grigio scuro", più scuro, meno scuro, meno meno scuro, più, meno... Erri De Luca scrive nel libro "Per sempre ragazzo", edito di recente da Marco Tropea Editore, riprendendo (come dice lui stesso) per il suo omaggio a Carlo Giuliani un proverbio persiano: "Se vuoi farti un nome, viaggia o muori". E' un paese strano il nostro, tradizionalmente "di viaggiatori, poeti, santi e di eroi", dove, oggi, per farti un nome, non ti resta invece che morire: fisicamente, moralmente, eticamente, culturalmente, ma pur sempre morire.