domenica 30 agosto 2015

Alla fine di ogni estate la primavera è lontana!

Il 30 agosto 1965 usciva Highway 61 Reviseted di Bob Dylan, il disco che di certo ha cambiato la storia artistica del cantautore americano, ma che ha determinato una strada larghissima di possibilità che il rock suo contemporaneo e a venire ha saputo infine raccogliere. Oggi Dylan non è più il Dylan di ieri, ma quanti vorrebbero poter essere oggi artisticamente Bob Dylan? E infatti, a ben guardare, sono proprio le pesanti eredità di artisti come lui che hanno portato allo stallo in cui ci siamo costretti.
Con non poca lungimiranza su La Lettura del 02 agosto 2015, allegato a pagamento de Il Corriere della Sera, Carlo Bordoni traccia l'epitaffio di quella vicenda (corrente??) artistica che è stata il Postmoderno. Dallo spunto parafrasato di un'invocazione di Arthur Ribaud nelle pagine di Una stagione all'Inferno, "Il faut etre absolument postmoderne!", che ispirò  la cultura mondiale di fine anni Settanta, sino al canto del cigno determinato dalla debolezza sistemica innescatasi con la crisi del 2008 (ma il postmoderno già traballava da qualche anno!). Scrive Bordoni: "...era necessario voltarsi a osservare la modernità con distacco, quasi si trattasse di 'monumenti commemorativi'. L'uomo postmoderno si pone al di qua degli eventi, per questo è 'post', collocato fuori dalla storia". E quindi il passato diventa un reperto, da citare, mescolando la cultura "alta" con quella "bassa". "La citazione si fa strumento di comunicazione, produttrice di senso in un discorso non scontato". Si crea dunque una distanza con i maestri, con i dogmi e con le ideologie. Le "grandi narrazioni" diventano terra di saccheggio per superamenti che con il senno di poi rimangono fragili contaminazioni di storie già narrate, esasperate nel 'gusto' dei singoli. Il titolo dell'articolo di Bordoni si pone come inevitabile: "L'inutilità del postmoderno". Ma ora? Adesso che abbiamo abbattuto ancora un altro cordone culturale, mossi da una furia iconoclasta pari a quella che si scaglia sui simboli di quanto non ci appartiene più (non solo spostare la polvere sotto il letto, ma gettare il frigorifero dalla finestra!), cosa ci resta? Cosa ci resta da sperimentare dopo alcuni decenni durante i quali l'unica scuola è stata quella utile ad abbattere le "scuole" e a comporre per citazioni e abili saccheggi? Non ci restano che gli "Antichi Maestri". Non so se questi "Maestri" nascondano i semi di nuove ideologie, ma di certo è questa la strada che stiamo intraprendendo, qualunque sia il settore di sperimentazione. E non è un caso che tra le mani del lettore estivo riappaia un libro scritto quando la cultura postmoderna era appena entrata di diritto nei salotti dabbene, nel 1985, un testo dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, dal titolo emblematico di Alte Meister (Antichi maestri, appunto!). Cos'è questo libro? Un romanzo, un'invettiva disperata lunga duecento pagine (nell'edizione Adelphi) contro una cultura, quella austriaca, presa nel libro a vere randellate nei denti? Oppure è un ammonimento, che Bernhard, non lontano dalla fine della propria vita (muore nel 1989), esprime nel momento della perdita di una persona cara? Forse una scusa per mettere sul chi vive coloro che credono che l'arte, che la dissoluzione di una vita nella ricerca finalizzata all'arte possa essere una strada appagante alla fine di ogni esperienza umana. Come spesso in Bernhard le frasi si ripetono in una scrittura circolare, ipnotica, a volte fastidiosa, che sfocia nell'aforisma, con ogni frase a divenire anch'essa quasi un epitaffio. E quindi gli 'Antichi maestri' ci abbandonano, "nei momenti decisivi per la nostra vita essi non ci danno altro che la conferma del fatto che anche in mezzo a loro noi siamo soli, che siamo abbandonati a noi stessi...la salvezza sta solo nel confronto con gli esseri umani"; oppure: "...l'infermo terrificante di Dostoevskij è talmente innocuo a paragone di quello in cui oggi ci troviamo." E lo studio degli Antichi maestri? "Quello che studiamo minuziosamente perde valore ai nostri occhi". Poiché, sottende Bernhard, scoprire "l'errore palese" ci fa perdere il gusto delle cose. E' questa la strada in cui stiasmo imbarcando? Una nuova ricerca di ideologie? Una nuova "apertura" verso le "idee senza argomentazione" (per ricordare Furio Jesi)? La costruzione di nuovi miti a sostegno della "macchina mitologica" (ancora Jesi)? Vogliamo che quello che i giornalisti politici chiamano "populismo", vinca definitivamente l'attenzione verso quella "complessità" che il percorso postmoderno aveva introdotto? Bob Dylan ha centrato il suo bersaglio ormai 50 anni orsono, se oggi vogliamo essere decisivi non possiamo esasperare le idee, ma cercare di dare parole a quelle stesse idee, garantire nuove narrazioni, stemperando la religiosità (laica) verso ogni pensiero, per superare il citazionismo ma anche l'aspirazione a qualcosa di assolutamente già detto (e spesso stra-capito, come insegna la Storia). Non diamo continuamente ragione a Thomas Bernhard quando scrive (lui lo scrive per l'Austria, ma qui lo generalizzo): "Se almeno (tutto questo) fosse un manicomio, e invece è un ospizio".