sabato 17 dicembre 2011

b) Opportunità di una rinuncia

Riprendo e allargo il tema del post precedente. Non lo faccio mai, ma il "falso spirito natalizio" che ci circonda in questi giorni mi porta a questa insistita speculazione. Da dove nasce ciò che oggi siamo? O meglio cosa ci ha portato ad essere così attenti al "fuori" da dimenticarci quotidianamente di quanto esso sia a volte superfluo? Non è una domanda che vuole condurre a divagazioni spirituali o esagerando religiose. Di ciò mi importa molto poco. Mi interessano invece alcune valutazioni di carattere sociologico, che però si nascondono dietro considerazioni di origine culturale ed "estetica" (se volessimo attribuire a questo termine la sua accezione migliore, ovvero non declinata alla forma, ma alla somma di fattori artistici, sociali, economici, ecc.; anni fa, ormai più di dieci, svolgemmo una lettura simile, ma riferita alla cultura del restauro, in un libro dal titolo Restauro e cultura estetica, da me firmato con l'arch. Fabia Cigni). Riprendo ora alcuni contenuti di un catalogo, e alcune letture fatte da Franco Marcoaldi e da Roberto Carnero, nel loro commento giornalistico ad una mostra importante (che il catalogo accompagna), oggi allestita alla Victoria & Albert Museum di Londra (ma che da febbraio, credo, sarà portata al MART di Rovereto), dal titolo: Postmodernismo: stile e sovversione 1970-1990. E' uno dei momenti più importanti dedicati a questo non-stile, che è invece diventato con gli anni l'espressione più rappresentativa del confronto quotidiano con noi stessi e con quanto ci circonda, sia sul piano materiale che su quello filosofico. Superate le certezze e l'ortodossia del modernismo, ci siamo trasformati tutti, nell'ultimo ventennio del '900, in "postmoderni": figli dei linguaggi, manipolabili e manipolati dalle mutazioni dei principi stessi che stavano all'interno degli atteggiamenti più sovversivi della nuova corrente estetica e culturale. Perchè il postmoderno è stato in origine espressione propositiva di eterogeneità, contraddizione e quindi dubbio e sguardo perplesso sul mondo. Ma al suo interno ha consentito, mentre nuove libertà immaginative andavano svelandosi, aperture a strumenti meno limpidi, come la mediaticità e quindi su tutto la televisione (Marcoaldi cita Quinto potere di Lumet del 1976 come manifesto delle devianze della forza postmoderna delle origini verso qualcosa di diverso). Ecco che la parodia, il decostruzionismo, ma anche una certa indole anarchica e citazionistica, sono mutati nel corso degli anni '80 in cinismo, nichilismo e su tutto indifferenza e artificio. Ecco che il mondo delle idee libere è involuto nell'universo delle cose materiali, dell'eterno destino di una generazione di dedicarsi al mercato e alla ricerca del successo. Le cose sopra tutto, le cose come fine. Irrinunciabile coperta per scaldare un animo ormai freddo per sempre. E' all'interno di questa trasformazione che noi tutti oggi siamo diventati ciò che siamo, condizionando, ormai inconsapevolmente ogni nostro entusiasmo alle "cose". Ringrazio Roberto Carnero, che in un suo articolo su il quotidiano il Piccolo dell'11 dicembre 2011, ha saputo riprendere uno spunto (che mi colpì molto già all'epoca e che ora capisco finalmente meglio) del percorso proposto nell'allestimento londinese, quando i curatori pongono in evidenza un'opera centratissima allora, come ancora oggi, di Jenny Holzen che presentava a noi tutti, nel 1985, un enorme cartellone pubblicitario elettronico, preso in affitto a Time Square, dove trovava posto una scritta luminosa enorme che diceva: "Protect me from hat I want" (Proteggimi da quello che voglio). E' un'ammonizione dal sapore medievale che la dice lunga sui subdoli nemici che ci circondano. A livello letterario questo abisso provocato dalla dipendenza dalle cose sino all'indifferenza per il "fuori" come per il "dentro di sè" è ben rappresentato da vari testi. Me ne sovvengono due in particolare: Utz di Bruce Chatwin e Auto da fé di Elias Canetti. Ma qui domina comunque un senso estremo per le cose correlato alla passione. Noi abbiamo oggi superato quest'ultimo stato verso un amore fine a se stesso: le cose per le cose, ultima speranza di un vuoto infinito. Non mi resta che sottolineare (a me stesso, prima che a tutti) l'opportunità di una rinuncia, se, come ho scritto nel post precedente, l'ultimo stadio non è già stato superato, portandoci in una condizione di impossibilità alla stessa. Mi piace ricordare qui una poesia di Jorge Luis Borges, tratta dal volume Elogio dell'ombra, uno dei suoi migliori a mio avviso, per la totale dolorosità e al contempo amore per la vita che lo pervade, nella consapevolezza dell'avvicinarsi della sua perdita. L'argentino scrisse: Le monete, il bastone, il portachiavi/ la pronta serratura, i tardi appunti/ che non potranno leggere i miei scarsi/ giorni, le carte da gioco e la scacchiera,/ un libro e tra le pagine appassita/la viola, monumento d'una sera/ di certo inobliabile e obliata,/ il rosso specchio a occidente in cui arde/ illusoria un'aurora. Quante cose,/ atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,/ ci servono come taciti schiavi,/ senza sguardo, stranamente segrete!/ Dureranno più in là del nostro oblio;/ non sapran mai che ce ne siamo andati. La poesia si intitola Le cose, pubblicata nel 1969, alle soglie del percorso postmodernista. Vi lascio quindi, augurandovi Buon Natale, con questo consiglio per gli acquisti.