Il gesto estremo di Pavese nel 1950, quando scelse di togliersi la vita, ha consentito interpretazioni plurime della sua contradditoria personalità. Giulio Einaudi, ricorda Ernesto Ferrero nel suo libro I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005) definì Pavese "uomo dei dubbi", non accettando, infondo, da uomo pragmatico e "di certezze", anche politiche, incline alla "felicità" qual'era, la complessità d'autore, ma anche umana del primo. Scrive Ferrero in merito alla sua scontrosità un pò capricciosa e al contempo strumentale ad ottenere dei risultati concreti: "Pavese era un maestro di relazioni pubbliche che non si curava di tenere". E ancora: " Il dramma di Pavese è tutto qui, volersi protagonista di uno scandalo vero e condannarsi a fare il monaco amanuense nel monastero di via Biancamano (dove aveva sede la casa editrice torinese). Alla fine, per stupire tutti, mette fra sè e gli altri la distanza incolmabile di una morte cercata e voluta, estrema punizione agli amici distratti... "Chi non si salva da sé non lo salva nessuno" aveva scritto nel diario. Meno che mai lo salvano i libri. i libri non gli bastarono: erano il pallido surrogato di quello che lui avrebbe voluto essere".
Mi piace ricordare ancora un pensiero di Italo Calvino, ripreso sempre da Ferrero: "Esiste una storia della felicità di Pavese, d'una felicità nel cuore della tristezza, d'una felicità che nasce con la stessa spinta dell'approfondirsi del dolore, fin che il divario è tanto forte che il faticoso equilibrio si spezza".
E' una questione di attitudine la felicità come la malinconia, senza un meglio o un peggio, senza regole sufficienti e tanto meno necessarie. E', quello umano, un equilibrio instabile.