sabato 5 agosto 2017

La parola è tutto

La "parola" è importante, la parola è tutto. E' un mio pensiero fisso ormai che se volessimo realmente produrre un superamento a quanto di bene o di male (beneficio del punto di vista) ci circonda, il percorso non può che transitare da una riflessione sulle parole. Ne usiamo molte, troppe. Da bambini ci invitavano a leggere molto per ampliare il proprio vocabolario. E' ancora così, certo. Il mio è molto ristretto e, anzi, si sta limitando sempre di più nell'esigenza di capire meglio il contesto in cui ogni "parola" usata si colloca rispetto il suo intrinseco significato. E' spesso un'epifania il farlo. Non ho la pazienza della ricerca speculativa e mi risulta sempre più semplice portare a verifica la cosa con atti concreti, progetti, riflessioni che sono anche esperienze indirette di studio. La filosofia è un'attività di chiarificazione, suggeriva Wittgenstein. Un'attività, forse, di radicamento e al contempo di sfida. La parola è tutto e la sua comprensione è la comprensione di "molto". Ci sono parole che non mi piacciono. Ad esempio una di esse è "integrazione". Non la capisco e non comprendo nemmeno la ragione del suo utilizzo continuo. Mi pare esprima l'esclusione di uno o dell'altro, a seconda di chi si debba integrare con chi. L'integrazione è uno sforzo inutile, se è forse vero che la coabitazione degli "opposti" può aiutare, qualora gli stessi non vadano fondendosi, ma avvicinandosi senza annullarsi nell'altro. Utilizzo così esclusivamente il termine "interazione", che accoglie dentro di sè anche il senso del fare (azione-agire), o meglio del darsi da fare senza aspettative che le cose cadano dal cielo. Non amo il termine "sostenibile", perché richiama nell'accezione retorica contemporanea a qualcosa che sembra risultare esterna all'uomo, che sembra pensata per quello, ma poi operi su principi e si traduca in forme che si allontanano continuamente dallo stesso. La sostenibilità dovrebbe essere per l'uomo uno strumento di avvicinamento ad una condizione (umana) "plausibile". Uno sforzo interiore probabilmente del tutto psicologico di accettazione del nostro fuori, non di manipolazione di esso a nostra immagine e aspirazione. Non capisco il termine "degrado", perché non riconosco la volontà da parte dei più di interrogarsi su quale sia il livello giudicato adeguato, accettabile, forse solo sopportabile che si intende venuto meno. E così, mentre si viene riflettendo con continuità sulla perdita, non si va mai a definire lo stato originario, l'oggetto del rimpianto, perlopiù scomodando in maniera inappropriata le proprie radici, riflessioni identitarie, confidando nell'altrove o nell'altrui e rifiutando di mettere in gioco se stessi. Mettersi in gioco, sperimentare su di sé per assumere consapevolezze da restituire agli altri, essere "cittadini attivi". Non ci si risveglia cittadini attivi e forse non si può realmente insegnare, nè imparare ad esserlo. Quanta retorica dunque, anche soltanto nell'invito continuo a diventarlo! Qualcuno ha ben pensato inoltre di sostituire il termine "cittadinanza" con "protagonismo", attivo. Non cambia nulla? Cambia, invece! Si modificano gli obiettivi, è un'imposizione dell'"io" sul "noi", un accento posto sul ruolo e non sulla cessione di una parte (di tempo, di esperienze) di se stessi agli altri. E' un dono narciso e non una prospettiva. La parola è tutto: una proposta di maturità ("Ripeness is all", suggeriva Cesare Pavese, riprendendo il Re Lear, nella dedica che apre il suo La luna e i falò), di rifiuto della superficialità, dell'esibizione*. Tutto ciò si trova esattamente all'opposto della proposta odierna: la parola è di tutti, il che svilisce la "parola" (nel senso, oltre che nel significato) e limita la sua portata (lo faccio solo per me, in fondo).
* Ne Il mestiere di vivere, alla data 06/12/1938, Pavese scriveva: "La maturità è anche questo: non più cercar fuori ma lasciare che parli, con il suo ritmo che solo conta, la vita intima".