domenica 27 dicembre 2015

Rust Never Sleeps


"Camminare è ciò che mi piace di più, perché quando cammino penso", appunta Neil Young nella sua autobiografia ufficiale, esplicitando il proprio punto di vista sul senso stesso della vita qualitativamente piena, non condizionata cioè dai distraenti flussi esteriori, ma coordinata invece da un senso interiore di consapevolezza del proprio se stesso rispetto il mondo. Una filosofia di vita minima, una propria filosofia. Risponderebbe bene però Linus, così come fa a Charlie Brown che gli espone la propria filosofia di vita, in una fantastica strisca dei Peanuts del 01 agosto 1975: "C'è differenza tra una filosofia e un adesivo sul paraurti!". E' in questa ambivalenza di posizioni solo apparentemente antagoniste che andrebbe collocato il tentativo di fare il punto sul personale porsi nel contesto del 'proprio' mondo e quindi del mondo intero, tantopiù nel tentativo di evidenziare un resoconto su di un periodo della propria vita che per brevità definiamo "anno". Andrebbero, cioè, trovate delle coordinate e allo stesso tempo queste ultime non andrebbero trasformate in dichiarazioni che potrebbero benissimo venir stampate sul dorso della propria maglietta estiva. Sarà mai quindi utile a qualcuno stare qui ad ascoltare il punto di vista sul che cosa mi sia piaciuto o meno di un anno come il 2015? Andrebbe forse con maggior efficacia ammesso che ogni cosa che si potrà dire da qui in poi rappresenta soltanto una semplificazione, il trasferimento di un'emozione o di un pensiero critico nell'enunciazione di un nome. Infatti domani stesso a fronte di un'emozione nuova sarò di certo propenso a variare tutte le mie scelte e quindi a rinnegare ogni sicurezza. Vorrei essere quindi meno netto nel solito, meno didascalico, trovando dei nomi da collocare al fianco di alcune riflessioni, in un mare di complessità, che sappia, alemeno per una volta, separarsi dalla nostalgia. E proprio mentre lo enuncio mi rendo conto che non ci riesco e ricado nel desiderio di dire la mia, a scapito della coerenza con il discorso sin qui fatto, a scapito della mia stessa filosofia sottile, per trasformare appunto ogni sillaba in un adesivo per paraurti. Unica soddisfazione sarebbe quindi forse quella del riuscire a produrre un'analisi che non risultasse infine condizionata dalla paura di restare soli tra gli altri, di autoescludersi dal rito collettivo. Ci provo, dando oggettività alle mie soggettive opinioni, alle cose pacevoli vissute e alle cose che mi hanno turbato. Inizio da quest'ultime. Alcuni giorni fa, il 22 dicembre è scomparso Enzo Cogno, fondatore a Trieste negli anni '60 con Miela Reina de la 'Galleria la Cavana', quale sede simbolica per un sodalizio che continuò all'interno dell'associazione 'Arte Viva' fondata da Carlo de Incontrera. In entrambi i casi siamo di fronte a dei veri ponti artistici tra la cultura locale della Venezia Giulia e quella internazionale. Cogno era pittore attento, dedito al trasferimento del segno pittorico all'interno di una composizione geometrica, così "scientifico" lui, come era creativa e dirompente Miela. Per il Piccolo di Trieste Carlo de Incontrera ricorda come, morta Miela (nel 1972), Cogno non avesse più voluto restare a Trieste, così come il musicista de Incontrera non volle più comporre. E' questa una vicenda artistica collettiva, che mi crea grandi emozioni intellettuali e alla quale ripenso sempre allorché il mio animo si fa "irrequieto" (per dirla alla Chatwin) e sente il bisogno di dedicarsi a qualche nuova esperienza culturale. Il turbamento maggiore nel 2015 è stato ovviamente determinato alle vicende dei migranti, dei profughi (o come si intenda classificarli o nominarli, tanto la questione di fondo non cambia). Questa massa umana in movimento mi ha scavato dentro ogni santo giorno dell'anno e di certo non siamo che al principio di un percorso. Di questa vicenda mi hanno turbato le domande (poste da questa amalgama di popoli diversi), ma ancora di più le risposte date dalla cultura occidentale. La reazione della comunità politica e sociale, che nel bene e nel male ha solo saputo strumentalizzare la cosa e avanzare soluzioni del tipo usa e getta, mi ha creato perlopiù imbarazzo, nel dover condividere gli stessi spazi, la stessa cultura con questa disumanità, che ha saputo offrire solo proposte vacue, matematiche, fatte di numeri, di battaglie navali gestite su dei fogli a quadretti. La situazione che più di tutte mi lascia quindi basito è poi a me territorialmente vicina, a Gorizia, dove sono dovuti infine intervenire quelli dell'organizzazione internazionale di  Medici Senza Frontiere, per tamponare falle che una collettività intera, nei suoi rappresentanti locali in primis, ha determinato, consentito e tutelato. A me, scusate, questa cosa mi ha disgustato parecchio e mi toglie a volte la tranquillità. Sarà per questo che forse il film che ha lasciato il segno quest'anno  ha il sapore del cinema, ma allo stesso tempo lo spirito del documentario. E' Taxi Teheran di Jafar Panahi, già Orso d'Oro 2015 al Festival del Cinema di Berlino. Che il documentario stia sempre di più assumendo ruolo centrale nell'espressione cinematografica contemporanea è sintomo inevitabile di qualcosa che stiamo vivendo, alcuni con consapevolezza, altri con negazionismo. Nel film, fiction e realtà si mescolano, lasciandosi dietro una montagna di parole tutte importanti su di una società in cui  il cambiamento fa a botte con la conservazione di status quo millenari ormai allo stremo. Ho ascoltato molti dischi quest'anno, molti dischi buoni, molti dischi inutili. Ho scritto in qualche post precedente della fine ormai conclamata del Postmoderno, del citazionismo invasivo che lo sosteneva (per semplificare). Nelle arti questo citazionismo è però ancora oggi  matrice prima di espressione, divenendo infine essa stessa nucleo fondativo di ogni proposta (chi ha visto l'ultimo Star Wars sa di cosa parlo). Ciò dipende da varie cose, ma forse soprattutto dalla disponibilità del pubblico a lasciarsi trasportare nostalgicamente nel regno dei propri ricordi, forse come risposta a questa crisi infinita che ci ha costretti a ritrovare nel passato ciò che di buono poteva esserci, come appiglio per stigmatizzare il presente, per negarlo in quanto tale. Ecco quindi che gli anni '80 diventano un periodo d'oro della creatività, sinonimo di pienezza infine, dopo decenni di invocazione al loro essere anni vuoti e superficiali. Ma il vuoto ha una caratteristica principale, non è mai pieno a sufficienza! Quindi quale disco il migliore, il migliore per me, ovviamente! Potrei citarne alcuni bellissimi o interessanti, tra cui l'ottimo di Florence and the Machine, oppure l'intensa prova di Laura Holter, o ancora il disco di John Grant o quello di Torres (in aria PJ Harvey), ma per me più di tutti vale un disco che di soppiatto è venuto fuori in questa fine d'anno dalla camera del tempo (dal 1988, guarda caso) ed è il live Bluenote cafè di Neil Youug, che ti fa capire realmente cosa sia "spaccare", musicalmente parlando. Che cosa ho letto quest'anno? Fumetti. Perché? Lo si sa che chi scrive in questo blog legge i fumetti. ma non è più solo questo. Il fatto è che possiamo ormai dire che se non conosci i fumetti sei tagliato fuori. Lo si capisce bene se si scorrono le pagine degli allegati ai quotidiani, dove gli autori del fumetto italiano e internazionale occupano pagine con le loro storie e storielle (di solito, ormai, più sono intellettuali e più sono storielle). Sono gli editori letterari tutti ad essersi accorti che il fumetto tira (per dirla in gergo) e poi ci sono editori di fumetto che si sono fatti strada nel mercato italiano a suon di copie vendute e ora possono pretendere delle pagine sui quotidiani o nei programmi televisivi generalisti. Ok, quindi, fumetto. Ma fumetto cosa? Perchè va detto che è difficile trovare cose buone che ti tengano incollato alla poltrona, che non strizzino continuamente l'occhiolino a cinema, letteratura e arte figurativa che si presuppone come qualitativamente "alta". E' difficile quindi trovare il metro giusto per misurare le cose. Io ho provato a cercarlo nel ricordo della sensazione che provavo da bambino nell'arrivare all'ultima pagina di un giornaletto di Zagor o di Capitan America (con la troncatura netta delle vicende in divenire) e patire per dei giorni nell'attesa di sapere come sarebbe proseguita la cosa. Esiste oggi nella lettura di un fumetto nuovo la possibilità di rivivere quel momento di assorbimento totale, di straniamento di cui sopra? Forse non più. A suon di graphic novel, pagine fumettate, racconti didascalici, esperimenti linguistici e tecnici, autobiografie e biografie collettive, menate sulla scrittura e sul bel disegno, reboot e ristampe preziose, si è finiti per aver perso il senso di cosa dovrebbe poi produrre sta cosa che chiamiamo fumetto. La sensazione è che forse quell'entusiasmo iniziale si sia forse perso per sempre e che quindi si debba proprio sforzarsi un pò, per non cadere nella trappola del titolo sparato lì pur di sentirsi dire: ma guarda un pò questo che cose intelligenti legge e infine dice. Parto quindi con le delusioni. Il Corto Maltese di Sotto il sole di mezzanotte di Canales e Pellejero è la più grande. Un racconto inutile, che non aggiunge nulla a quanto c'era, disegnato alla "speravo meglio", che dimostra maestria, ma nessun spessore intellettuale alla Pratt, nè tanto meno avventura alla Corto. Altra cosa ormai illegibile sono le serie della Marvel (lasciamo stare la DC che lì ci si perde davvero). Il disegno è ormai sempre uguale a se stesso, privo di una forza evocativa, limitato ad un segno molle di rimando umoristico o all'imitazione fotografica. Le storie si perdono in una continuity infinita di citazioni circolari, con una lettura frammentata e allo stesso tempo dilatata all'infinito, tanto che se ti perdi quattro cinque numeri forse rischi solo di aver cambiato il piano sequenza. Chiaro che si salvino le invenzioni dell'Occhio di falco di Fraction e Aja, ma poi a leggere bene oltre le invenzioni la storia dov'è? Altra super delusione: il Battaglia tascabile, nato sotto la supervisione del solito "ti risolvo io la cosa" Roberto Recchioni e dell'ormai solo copertinista Leomacs. Ma cosa cavolo è uscito da quella serie? Storie vuote, inesistenti, tutte sorrette dall'accoppa e...spacca, gestite attorno a percorsi narrativi lineari (vedi "E le Foibe!"), dove c'è un personaggio che si sposta da un punto 'A' ad un punto 'B' (l'ingresso della grotta e l'uscita della grotta), e nel mezzo gli succede di tutto (Man-Bat di rimando DC compresi). Storie videogioco insomma, in piena idolatria per autori nati in odore di Playstation. Insomma, cosa ho amato quest'anno di questo mondo autoreferenziale impazzito. Ho amato molto Here di Richard McGuire. Ma è un fumetto? Me l'hanno presentato per tutto un anno come tale e alla fine ho finito per crederci. Un gran lavoro, comunque. Ho ritrovato un certo fumetto che amo, di evidente collocazione BD, nelle vicende di Marina di Zidrou e Matteo Alemanno, pubblicate su Skorpio a puntate (i primi due volumi francesi dei quattro che saranno), e che usciranno infine a volumi nel 2016 (mi si dice!). Lo dico forse ora con maggior convinzione di quanto le ho realmente lette, per averle presentate il 17 dicembre a Venezia, nella Sala Pratt del ristorante "Al Graspo de Ua", sotto l'egida di Piero Zanotto (nela foto), e infine capite a fondo nel loro percorso creativo (bisognerebbe forse fare sempre così con ogni storia).  
Adoro un manga con dei personaggi strepitosi che mi ricorda più di un pò le Wacky Races di Hanna Barbera. E' Run Day Burst di Yuko Osada (serie in corso, al quinto volumetto di otto). Va citata poi una storia potente di Zerocalcare in allegato a la Repubblica del 10 maggio, La città del decoro, a dimostrazione che il successo di cui gode in Italia è meritato (e non sono certo io a dirlo, ma i suoi migliaia di lettori). Della Lucca 2015 mi resta forse i Due fratelli, dei fratelli (guarda un pò) Fàbio Moon e Grabriel Bà. Tratto da un romanzo di Milton Hatoum, risulta narrativamente imperfetto, ma è sostenuto da una grafica notevole con un tratto che unisce e sintetizza Mike Mignola, Eduardo Risso e tanto altro ancora. Ha inoltre il merito di una frase gettata tra le righe: "Volevo prendere le distanze da tutti quei calcoli, dal progresso ambizioso. Il futuro questa menzogna che persiste". E ultima voce la darei infine all'epilogo del Ken Parker di Berardi e Milazzo che, con Fin dove arriva il mattino, ci hanno costretto ad accettare una fine, che è stata inutile e dignitosa, come quella del protagonista. Volevo infine citare a fine anno con merito una fiction TV, perché vorrei qui infine spezzare una lancia per il ruolo educativo che ha la narrazione nella formazione dei ragazzi di oggi, spesso frammentati (più nel loro dentro che nel loro fuori) dagli impegni continui, dalle aspettative che su di loro si pongono, dalla tolleranza che viene continuamente data ai loro desideri superficiali. Non è un caso quindi che forse sarebbe opportuno garantire loro l'opportunità della narrazione, non solo quella in prima persona, che pone l''Io' al centro continuo del mondo, ma quella che offre la possibilità di ricordarci che oltre l''Io' c'è anche il mondo. Così cerchiamo di fare ormai da molti mesi durante i laboratori di narrazione urbana che curo per la scuola assieme ai membri e ai collaboratori dell'Associazione culturale ETRA di Monfalcone, senza ambire a dei risultati certi o immediati, ma consapevoli che quella è la strada. La fiction, che è scritta benissimo e ha dei dialoghi splendidi, nonostante (ma forse grazie) tutte le pecche della recitazione e la regia televisiva all'italiana, è E' arrivata la felicità, ideata e scritta in primis da Ivan Cotroneo e prodotta da Publispei per Rai 1. Si parla molto semplicemente dell'amore, in tutte le forme e le derivazioni possibili. A me è piaciuta molto e qui la evidenzio come la cosa migliore vista, letta e sentita nel 2015. Forse anche perchè c'è bisogno di leggerezza alla fine e all'inizio di ogni nuovo anno, che non significa dimenticarsi di pensare, ma semplicemente respirare a pieni polmoni aria fresca.