lunedì 28 giugno 2010

Inevitabile calcio!

E' una sorpresa anche per me trovarmi a parlare di calcio. Chi mi conosce sa quanto ne sia estraneo sia per interesse che per pratica. Ma non mi ritengo un disfattista sul tema: mai pensato "il calcio che pena! Undici uomini in mutande a correre dietro ad un pallone!". Credo che sia un grande sport, uno dei più complessi sul piano agonistico e soprattutto tattico. I Mondiali di calcio li seguo da sempre: dal 1978 ne ho anche personale memoria. Ho sempre apprezzato lo spettacolo della concentrazione di speranze e delusioni perfettamente umane che una vittoria o una sconfitta in quel contesto offre.
Da spettatore ho visto l'Italia perdere con la Slovacchia il 24 giugno scorso: 2 a 3. La cosa che mi ha colpito aldilà dell'evento sportivo è stata la vicenda dell'allenatore della nostra squadra, Marcello Lippi. La sua sottile arroganza dimostrata dai tempi della sua sostituzione a Donadoni è stata esemplare direi ed epifanica di certi sistemi. La cosa più interessante è stata la sua conferenza stampa a partita persa ed elimazione avvenuta. Ha detto, pressapoco: " Sono dispiaciuto e mi assumo tutte le colpe!" Le persone che dovrebbero darci degli esempi ci hanno ormai abituato in questo paese a formularsi da soli i giudizi e a non accettarne dagli altri. Lippi non è stato da meno, rivelando in tal senso quanto fosse fuori posto nel suo ruolo di guida e quindi di "educatore". Lippi è l'Italia, purtroppo. La rappresenta con tutte le sue contraddizioni, con la sua scarsa umiltà. Lippi rappresenta il "sistema Italia" e la sua classe politica tutta. Un mondo di persone "infoiate" dentro le proprie aspettative di successo personale ed economico. Persone alle quali di questo paese, realmente, importa poco. Loro stesse forse non se ne rendono conto. Vecchi, non anagraficamente, ma vecchi dentro.
Andrea Pazienza riprendeva Boris Pasternak nei suoi pensieri a fumetti e recitava: "La vecchiezza è una Roma/ senza burle e senza ciance/che non prove esige dall'attore/ma una completa autentica rovina". Un tempo leggevo suggestioni diverse in quelle parole, che probabilmente rimandavano invece a tutt'altro. Oggi, nel collegamento di idee che ne è sorto, per me quelle significano semplicemente che la vecchiezza domina, CI DOMINA, attraverso le persone che dovremmo stimare, quelle che votiamo e quelle che non votiamo. Al contrario dello spunto dei fratelli Coen nel loro film premiato dall'Oscar: "Questo è un paese per vecchi!" E' uno Stivale calzato a pennello su ciò che siamo! E sinceramente, mentre comunque alzo le mani ad ogni gol della nazionale calcistica, un certo disgusto di fondo alfine lo provo!

domenica 20 giugno 2010

Piccole scatole emozionali n.4

Roma. Basilica di San Pietro in Vaticano. L'elenco dei papi sepolti nella chiesa: il senso di far parte della storia, il senso della brevità di ciò che chiamiamo storia. Una serie di nomi tutti contenuti in una lapide e per ogni nome vicende, destini, uomini, tragedie: al contempo una costrizione ed un allargamento infinito. Brividi sotto pelle...devo distogliere il pensiero.

martedì 15 giugno 2010

Io ero là e lui forse non c'era

Domenica 13 giugno alle 20.30 precise. Sul palcoscenico temporaneo, montato sul parquet del palasport Hala Tivoli di Lubiana le luci si spengono. Una voce programmata fa un discorsetto retorico, elogiativo in inglese e poi conclude, sempre in inglese: "Signore e signori, ecco a voi Mister BOB DYLAN!"
Sì per anni ho rimandato questo appuntamento con Dylan. Avrei potuto vederlo anni orsono a Verona con Tom Petty, poi a Trento, ma mentre vedevo decine di altri concerti, quello con Dylan era un appuntamento continuamente posticipato. Non so perchè, ma le cose succedono e basta.
Non sono mai stato uno sfegatato dylaniano, ma le sue canzoni, il suo mito mi hanno sempre affiancato, in alcuni periodi di più, in altri meno. Non ho un disco preferito, non ho una canzone migliore, ho solo il senso di una presenza continua, aleatoria, sfuggente, lontana. Alcuni mesi fa mi è capitato tra le mani il DVD del film a lui ispirato (."..le vicende di sei personaggi, ognuno dei quali rappresenta un aspetto diverso della vita e della musica di Bob Dylan...") e il titolo dato mi sembrava parlasse esattamente di questa condivisione per una distanza tra l'effige di un musicista, il suo mito e la realtà delle cose. Il titolo era "I'm not there" (tradotto "Io non sono qui", film di Todd Haynes del 2007).
Bob Dylan entra in scena. Io sono a pochi metri dal palco ed è già una cosa strana. Mentre la gente urla e applaude mi cade lo sguardo sull'uomo. Sono lì per il mito e vedo l'uomo: ha in testa un cappello tipo "panama" colore crema a coprire i ricci radi e grigi; indossa una specie di livrea nera con i bottoni e i polsini dorati; i pantaloni sono neri con una riga verticale per gamba anch'essa dorata; cammina a fatica dentro degli stivali a punta, a passi lenti ed insicuri. Mi ricorda il presentatore di uno spettacolo circense, mi viene in testa Buffalo Bill, la fine della sua carriera nei circhi. Non riesco a concentrarmi sulla musica, continuo a guardare l'uomo. E' un vecchio, ma per nemmeno un minuto, durante tutto il concerto non perderà il suo carisma: sento e percepisco l'aurea di un mito, percepisco la distanza. Alla fine mentre inizia Don't Think Twice, It's All Right da "Freewheelin' Bob Dylan" in versione elettrica, riesco a uscire dai pensieri e ad ascoltare finalmente il concerto. Dylan starà poco alla chitarra e passerà gran parte della serata alla tastiera e all'armonica a bocca. La voce per quasi sei canzoni è un grugnito faticato, poi da una splendida versione di Simple Twist Of Fate in poi riprende quella sua densità tipica. E' un crescendo fino ai bis. Il gruppo è costituito da due chitarre, una steel guitar, una bass guitar e una batteria. Highway 61 Revisited ne esce benissimo e dopo un pò parte Ballad Of A Thin Man. Nel risentirla capisco che forse è una delle canzoni che amo di più e lui la fa benissimo, si contorce sull'armonica, la canta con la sua voce da fumo e sinusite. Mentre la canta e suona Dylan ha gli occhi come fessure e sorride, sorride per gli applausi, sorride perché stare su di un palco a cantare è la sua vita. Il pubblico esplode. Poi Like A Rolling Stone ed è storia. Quindi si finisce con una tiratissima All Along The Watchtower. Poco meno di due ore, le luci si spengono, Dylan si muove al buio sul palco, i musicisti posano gli strumenti e si avvicinano, insieme si scambiano parole al buio, il pubblico grida, le sagome si mettono in fila lungo il palco, poi i fari si accendono per alcuni secondi. Dylan prende gli applausi, li assorbe. Le luci si spengono di nuovo e dopo alcuni secondi il suo mito "non è già più lì".

sabato 12 giugno 2010

Panem et circenses

La scorsa settimana ho passato alcuni giorni a Roma. Era un pò di tempo che non vi tornavo e avevo voglia di rivedere alcune cose frequentate ormai molti anni addietro e farmi un'idea diretta di alcune architetture contemporanee non ancora visitate. Inoltre vi era una mostra su Edward Hopper, una su Caravaggio, una su De Chirico, ecc.. Di tutto e di più.
Bene. Si è girato, si è visto un sacco di cose, si è frequentato perlopiù la Roma minore, Trastevere con la sua caciarosità; si è cercato di visitare Villa Albani, privata e inaccessibile a quanto pare (la famiglia Torlonia non concede facilmente le visite), ma si è anche visitato il nuovo MAXXI, il Parco della Musica di Renzo Piano, l'Ara Pacis con la scatola "conservativa" di Richard Meier.
I momenti forse più intensi e interessanti di questo viaggio di riposo, che come sempre è diventato un viaggio massacrante per la curiosa frenesia che ogni volta mi assale nel frequentare le grandi città, credo siano stati il rivedere l'Estasi di Santa Teresa d'Avila del Bernini nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria (L.go Susanna), scoprire i disegni preparatori (maniacali e meravigliosi) di Hopper per i suoi quadri: disegni dove il pittore appuntava tutte le gradazioni cromatiche offerte dalla luce e ogni riflessione connaturata alla costruzione dell'immagine finale; la mostra di Gino De Dominicis al MAXXI (una scoperta il suo lavoro, specie per la sua irriverenza, che però nascondeva una maestria concettuale e pittorica notevole).C'era questa frase tra le tante che il curatore, Achille Bonito Oliva, ha voluto riportare alle pareti del percorso della mostra: "E' il pubblico che si espone all'arte e non viceversa". Credo che coincida con il leit motiv di questa permamenza romana.
Il pubblico e l'arte. Il grande pubblico e l'arte. Non ho potuto visitare la mostra di Caravaggio per le file immense che si formavano davanti l'ingresso delle Scuderie del Quirinale (vedi foto). Non ho potuto rivedere Raffaello ai Musei Vaticani per la fila infinita che coronava lo svilupparsi delle mura vaticane prima dell'ingresso ai musei. Non ho potuto entrare nella Galleria Borghese, perchè, arrivato giovedì, avrei potuto accedervi solo il mercoledì successivo. In ogni luogo si vedeva tutto poco e male. Negli ultimi vent'anni è cambiata completamente la fruizione dell'arte. Un tempo si parlava dei fastidiosi turisti incolti, delle masse sprovvedute scaraventate ai musei, dei visitatori che assimilavano pariteticamente Michelangelo e una Carbonara, con lo stesso interesse. Oggi non credo sia più così. I turisti ci sono, le folle anche, più e molto più compatte di prima: ma non è gente portata lì per caso. Se ti metti in fila scopri le persone più inaspettate discutere di Caravaggio come di De Chirico, fare paragoni azzardati tra autori, discutere con le forme (non certo con i contenuti) dei critici. E' gente che cerca l'arte e la vuole, per presenzialismo più che per ricerca personale, ma la desidera. E per l'arte accetta ore sotto il sole, dolore ai piedi e quant'altro.
Ormai ogni visita va programmata. Internet ha creato molte facilitazioni comunicative, ma un tempo alle mostre, nei luoghi ci dovevi andare di persona, telefonare, sbatterti prima di poter fare prenotazioni. Oggi la massa (colta ed incolta, democraticamente, ma "L'arte è democratica e richiede una fruizione democratica?") formalizza tutto con un click del mouse e chi arriva prima meglio alloggia, indipendentemente dall'interesse e dalla ricerca personale. E' il popolo dei media, di coloro che hanno comprato in edicola all'inizio degli anni Novanta gli allegati al Corriere della Sera con L'Arte Moderna di Giulio Carlo Argan, magari solo perchè ci regalavano le litografie de I girasoli di Van Gogh (è da qui che parte la fortuna degli Impressionisti in Italia da quella litografia lì, da quelle riproduzioni che trovi ancora oggi nei soggiorni delle case più disparate, come negli studi dentistici). E' il popolo che ha acquistato poi le collane d'arte senza fine promosse da la Repubblica e ancora dal Corriere, che ha guardato per mesi Sgarbi alla TV e che ora segue Philippe Daverio. E' un popolo "acculturato" a colpi di inserti nei quotidiani, a colpi di pagine culturali ne Il Sole 24 ore, a forza di speciali televisivi misti a spot, di cataloghi della Silvana Editoriale distribuiti in edicola. E' un popolo che poi magari, come senti se giri nei treni, colloca Parmigianino nel 1700, ma che ha investito, ha pagato tutti quegli allegati per costringersi ad una cultura e ora vuole esserci, vuole vedere, presenziare appunto.
La gestrice di un B&B non lontano dal Vaticano, laica oltremodo, commentava alcuni giorni fa le domeniche dei fedeli in Piazza San Pietro, dicendo: "E' l'oppio dei popoli! Tutti a guardare in alto, ad ascoltare parole vuote! Ad inseguire speranze e disposti a passare ore in piedi, sotto il sole, per una parola che gli faccia credere di poter superare i momenti difficili solo sperandolo!" Mi sono sentito di ribattere che era storia vecchia, che era un discorso demagogico anche quello, che se a qualcuno andava bene così a me andava bene pure. La vita è di ciascuno la viva e credo ciò sia fondamento di libertà, se un atteggiamento viene vissuto in proprio senza voler condizionare gli altri (e qui la cosa si fa più ingarbugliata). Ma, ho detto, che se ci si guardava intorno, un pò oltre la piazza vaticana, c'erano modi più subdoli, meno privati per "obliare le menti". Uno di questi è l'arte in quanto oggetto mediatico di consumo. Nel senso che a colui che lavora tutta la settimana, fa i turni, torna a casa, segue i figli, lava, stira, oppure sta sul divano in cassa integrazione da un anno o più, oppure vive con 800 euro al mese, così che la vita sembra un pochino misera, oggi gli puoi togliere tutto, ma non puoi togliergli: 1) la televisione e 2) la possibilità di mettersi in fila per ore per vedere Caravaggio. Godere del circo mediatico dell'arte, che come in molti altri casi, arricchisce qualcuno (con i soldi), convincendo qualcun'altro di stare ad arricchirsi (con la cultura mediatica). E' un vendere aria, è non dire le cose come stanno, è un fare perfettamente in linea con questi tempi. Non è un caso che si risparmi sulla spesa girando per tredici supermercati di fila e comprando ogni volta al prezzo minore qualcosa e poi non si rinunci alla mostra d'arte (con le file, con gli scazzi che comporta), al concerto rock (a cinquanta, sessanta euro a biglietto + trasferta ecc.), ad un libro (di Bruno Vespa magari). Non è un caso che dalle profondità della "crisi" che ci attanaglia, si salvino solo le carovane dell'arte e dei concerti oltre al calderone (sempre più esteso e incontrollato) dell'editoria libraria.
Panem et circenses si diceva nell'antichità, lo diceva satiricamente Giovenale, credo. Solo che oggi sono restati i Circenses, mentre il Panem scarseggia. Ma tanto vale.