giovedì 28 gennaio 2010

Storia e memoria

All’indomani della Giornata della Memoria, che come ogni anno mi porta a confrontarmi con un passato scomodo e doloroso, che, in quanto essere umano, mi appartiene, mi trovo ad interrogarmi sulla possibilità che questa occasione ci offre “per ricordare” nell’impossibilità “di comprendere”. Così ho sentito suggerire dal senatore Bacicchi durante l’incontro di presentazione dello spettacolo E’ bello vivere liberi!, scritto e interpretato da Marta Cuscunà, e che rappresenta uno splendido esempio di teatro civile, dove vengono rilette le vicende della vita della partigiana comunista Ondina Peteani di Ronchi dei Legionari, deportata ad Auschwitz e sopravvissuta a quella orribile esperienza (morirà nel 2002, se non ricordo male). Ciò che più mi sconcerta quando partecipo a qualcuno degli eventi correlati a questa Giornata istituita in Italia per legge nel 2000 (con grande ritardo direi) è la consapevolezza che le testimonianze dirette a cui noi possiamo oggi assistere (da parte di ex deportati o di partigiani o semplicemente di nonni o zii, che quel periodo lo hanno vissuto in prima persona) non potranno durare che qualche anno ancora. L’inevitabile scomparsa dei testimoni diretti porta con sè un rischio enorme, per la tendenza dell’uomo a restare impressionato esclusivamente da ciò che può toccare con mano: il ricordo che si dissolve a volte nel folklore o a volte nel revisionismo. Da qui l’importanza di ascoltare i testimoni, alimentando la memoria, ogni volta ce ne sia data l’occasione.
Di quanto ho sentito nella giornata di ieri (oltre allo spettacolo di Marta), mi restano principalmente due testimonianze/interventi, che credo più significativi del semplicistico e strumentale effetto mediatico “Ogni uomo oggi è ebreo. Anche io oggi sono ebreo…” pronunciato dal presidente del Senato Renato Schifani durante la visita lampo alla Risiera di San Sabba di Trieste, stella di Davide puntata al petto. La prima è del premio Nobel per la Pace Eliezer Wiesel, rumeno di cultura ebraica, oggi americano, sopravvissuto al campo di Auschwitz prima e di Buchenwald poi: “I testimoni hanno parlato, ma il mondo si è rifiutato di ascoltare, altrimenti non si spiegherebbero i genocidi che sono avvenuti nel dopoguerra: se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo che cosa potrà guarirlo? (…) Non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro per i nostri figli.”
La seconda, lapidaria e universale, è del Goriziano Mario Simaz, sopravvissuto all’internamento nei campi di sterminio in Germania, insignito ieri della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica nella cerimonia organizzata dalla Provincia di Gorizia: “Ai giovani e a chi non ha vissuto la tragedia della Shoah posso solo dire che la guerra, l’odio e la violenza sono cose terribili, che non si devono ripetere mai più”.
Mi sovviene ora. La memoria è spesso acritica, non incline ai compromessi: assorbe e restituisce esperienze proprie e altrui. La memoria non sceglie e mi porta oggi ad un ricordo che stava sepolto lì, tra le pieghe, e ora sembra un rigurgito, che potrei forse interpretare a fronte di quanto detto sopra, ma che invece credo di instradare disinvoltamente tra i fatti di cronaca, divenendo un omaggio alla mia memoria e alla mia giovinezza.
E’ un episodio del 1988. Io, studente di Architettura a Venezia al primo anno accademico, potendo accedere alle liste per disporre di una stanza nelle case dello studente veneziane, avendo ricevuto, per ragioni burocratiche, l’assegnazione in ritardo, vengo alloggiato nella casa denominata Ca’ Laca, non distante dalla chiesa dei Frari. La mia fu la condizione di unica “matricola” in un contesto storicamente assegnato ai fuori corso, fuori zona, perlopiù di origine pugliese e siciliana o straniera in genere. Fu quella un’esperienza formativa, direi, paragonabile ad un anno (tanto durò la mia permanenza lì) di leva militare. Dei “nonni”, a cui seppi infine tenere testa, divenendo una sorta di mascotte accettata e rispettata nella casa, mi ricordo tra gli altri di Carlo, con cui dividevo la stanza. Carlo era catanese e mi faceva ascoltare giorno e sera Fisiognomica di Franco Battiato. Stava allora preparando la sua tesi di laurea sull’Arsenale di Venezia e la stanza sembrava un deposito di plastici di studio. Carlo aveva una ragazza di Venezia e quando occupavano la stanza per farci del sesso, si chiudevano a chiave e mi lasciavano in portineria al piano terreno (noi stavamo al quarto, nel sottotetto) un biglietto con scritto: COMPLETO!
Mi ricordo poi di Mauro, che ci invitava nella sua stanza e mentre ci offriva del Jack Daniels al lume di candela (che io non bevevo, essendo astemio), ci chiedeva consigli sulle fotografie di nudo che scattava alla sua ragazza sullo stesso divano dove noi stavamo seduti. Sullo sfondo le musiche di David Sylvian e dei This Mortal Coil, che io suggerivo per tutti.

Mi ricordo del gruppo leccese e del gruppo palermitano e della loro caciarosità e litigiosità, continua ed insistita, che non smetteva mai, nemmeno alla mensa universitaria di Ca’ Foscari. Ricordo il portiere Sandro (???), veneziano “DOC”, che insisteva per degli infiniti tornei a scopone scientifico, che finiva sempre per vincere e che convinse l’ESU a dotare la casa di un videoregistratore per l’organizzazione delle serate cinematografiche suddivise su tre fasce serali: dalle 18.00 alle 20.00 film “commedia”, dalle 20.00 alle 22.00 film “serio”, come diceva Sandro, dalle 22.00 alle 24.00 film “porno” (la fascia più seguita dagli uomini e dalle donne della casa, imperversando allora Moana Pozzi).
Ricordo vari ragazzi sui 25-30 anni, sconosciuti alla casa, che entravano nella sala di ingresso, dove c’erano delle sedie o delle poltroncine, e strafatti d’haschis (credo), se ne stavano lì a smaltire, con lo sguardo nel vuoto, senza rispondere alle domande dei più, senza dire nulla, perché in fondo c’era poco da dire in quei favolosi anni ’80.
La componente straniera era fatta di un nero inglese, fan di Michael Jackson, che se ne partì al concerto di Torino e tornato ci rifece, precisi, precisi, tutti i balletti del suo idolo; di alcuni palestinesi, un Monhir, un Hassam, e alcuni libanesi cristiani. Ricordo che di notte non si dormiva mai (e di giorno non si studiava mai), perché c’era sempre qualcosa da festeggiare. Ricordo i ramadan di alcuni palestinesi e il totale disinteresse per la religione di alcuni altri. Tra questi ultimi c’era un palestinese sciancato, zoppo e astuto, che soffiava, con i suoi modi gentili, le ragazze a tutti.
Una notte una ragazza di Castelfranco Veneto ci svegliò, io e Carlo. La porta delle camere era sempre aperta e la privacy non esisteva. Nella casa i bagni erano in comune e le scale, dalle quali si “gavettonavano” i neo-laureati con secchi d’acqua dal quarto piano, era una specie di piazza pubblica. La ragazza aprì la porta verso le due o le tre di notte, ci svegliò gridando che qualcuno al terzo piano aveva organizzato un addio notturno per la partenza di un ragazzo libanese, di cui non ricordo il nome. Ci trovammo così nella stanza della ragazza, tutti in pigiama e pantofole con un piatto di spaghetti fumanti tra le mani. Il ragazzo libanese era tristissimo: doveva partire d’urgenza per il sud del Libano, essendo i suoi genitori stati uccisi durante uno scontro a fuoco, credo all’interno della guerra interna alla comunità cristiana che scuoteva al tempo il paese, conseguentemente alla storica formazione della zona di sicurezza tra Libano e Israele. Suo fratello gli aveva chiesto di rientrare, poiché vi era la casa da difendere o qualcosa di simile (non ricordo bene). Ricordo che salutammo la partenza, brindando con della Coca-Cola e che nel salutarci il libanese ci baciò uno a uno sulla guancia, lasciandomi ancora oggi la sensazione della sua barba che mi pungeva il volto e della sua pelle bagnata di lacrime. Il ragazzo ci disse che se tutto si fosse sistemato, se non fosse morto ci saremmo rivisti, lì a Venezia. Ci ritrovammo, invece, circa due mesi più tardi, nella stanza di un altro libanese, a ricordarne la morte.

La memoria è acritica dicevo, consente sovrapposizioni complesse, ci porta lontano dal centro del problema, ma forse soltanto apparentemente.
(la foto è tratta da una scena dello spettacolo E' bello vivere liberi!, di Marta Cuscunà)

domenica 24 gennaio 2010

Un pensiero per Giorgio Gaber

Qualcuno mi scrive, interrogandosi se la dicitura "effettosinistro", che accompagna la mia mail di riferimento al blog, costituisca un'affermazione di mal nascosta appartenenza politica. Lo chiede, come se la cosa potesse interessarmi o avere importanza. Come se si dovesse sempre prima mettere in chiaro le cose per potersi esprimere, per la paura di essere fraintesi, diciamo. Credo che le idee, le idee oneste (nel senso di non condizionate) non abbiano bisogno di una collocazione partitica, forse politica, nel senso etimologico, ma di certo non partitica. Ho già spiegato in uno dei post archiviati sotto l'etichetta: "istruzioni per l'uso", il motivo di "effettosinistro", non serve riprenderlo. Ma tutto questo discorso mi porta alla mente una delle persone più libere che mi sia stato dato conoscere. Conoscere non personalmente, se non in maniera sfuggevole dopo un concerto del 1993 al Politeama Rossetti di Trieste, ma artisticamente. Parlo di Giorgio Gaber, uomo colto e mai retorico, nel senso della sua capacità infinita di estendere la propria cultura oltre credi aprioristici.
E' un caso che parli di lui e credo che ne parlerò ancora in seguito. Il caso vuole che domani, 25 gennaio, cada il giorno del suo compleanno (ne avrebbe ora 71 di anni). Il suo ultimo disco è uscito il 25 gennaio 2003, ovvero 24 giorni dopo la sua morte. Si intitolava: Io non mi sento italiano. Mi ricordo le polemiche del tempo legate a questo titolo; mi ricordo di come pochi giorni dopo l'uscita, mentre eravamo a Livigno, io e Giovanni, apprendemmo dalla radio di come il disco stesse scalando le classifiche, arrivando anche al primo posto della top ten degli album/CD. Mi ricordo di come pensammo a quanta idiozia ci sia nell'uomo che sa guardare ai propri tesori con finta attenzione solo quando non è più tempo per farlo e alla retorica tutta costruita mediaticamente di quella vendita sorprendente: come era stato per De Andrè, come sarà in futuro per molti altri. Mi sovviene però in particolare un commento fatto da Sandro Luporini, che ha sempre scritto con Gaber i testi del suo teatro/canzone e che si esprime così a proposito del senso della canzone Io non mi sento italiano: "Prendevamo in giro proprio quelli che dicevano, credendoci, di non sentirsi italiani, comportandosi proprio come tali. Abbiamo sempre pensato che gli italiani, siano degli artisti della vita: hanno un'intelligenza, un'intraprendenza incredibili che si scontrano, però, con un invincibile pigrizia che li assale ogni volta debbano confrontarsi con le grandi questioni, a cominciare dalla politica. E' quella pigrizia che ci ha consentito di sopportare vent'anni di fascismo". Ebbene, dentro e intorno a me di pigrizia ne sento e scorgo molta, troppa. Ad ogni angolo si vedono solo foglie che, se stanno in alto, aspettano inerti di cadere in basso, com'è d'altronde inevitabile prima o poi avvenga.

sabato 16 gennaio 2010

Haiti

Alcuni giorni fa (13 gennaio) un terremoto violentissimo ha distrutto l'isola di Haiti. Distrutta veramente, poichè le immagine passate dai media sono realmente impressionanti.
Quanta retorica si può spendere attorno a questo tema? Non vi è fine, volendo. Personalmente credo che le immagini che ci arrivano dalla televisione siano inguardabili: siano troppo. Troppo per chiunque sia in grado di guardare con passione alla vita umana. Denotano, quelle immagini (tutte, nessuna esclusa), una tragedia nuova che si sedimenta su un dolore antico. Quanta retorica si può fare attorno alla situazione politica, sociale ed economica di quei luoghi? Non credo mai abbastanza. Un cronista dice, mentre la telecamera passa su corpi a terra senza vita (accanto a corpi in piedi che si interrogano se quella è vita, rispondendosi quindi affermativamente perchè non ne hanno mai conosciuta di tipologia diversa), che la prospettiva media di vita di queste persone è di 50 anni. Penso alle persone anziane, qui da noi, lamentevoli e intolleranti a 70/80 anni per un'anca fastidiosa, per la calvizie incipiente, per delle rughe sotto gli occhi. Quanta retorica si può fare sul disastro mentale di noi umani contemporanei e abitanti di questi paesi "cosidetti "evoluti"? Ciò che ci aspetta è un futuro stracolmo di retorica, incapace di riflettere ed esprimersi se non a retorica.
Di questo mondo io ne faccio parte e retoricamente dico che questa gente massacrata dall'uomo prima e dalla natura ora, mi impone un lacrimevole silenzio e un lutto interiore. E ciò che è più grave è, per la mia inerzia, per la mia inadeguatezza, per la mia pigrizia, la consapevolezza di svegliarmi alla mattina nel mio morbido letto e non aver la possibilità di fare nulla, nulla di realmente concreto.
(nella foto Murales di Keith Haring a Pisa, 1989, particolare)

martedì 12 gennaio 2010

Gli occhi gelidi della lince

Come avrete capito, se avete gironzellato tra i post precedenti, mi piace frequentare, quando posso, la Mostra del cinema di Venezia. Acquisto un biglietto per un film a caso per la Sala Grande (Palazzo del Cinema), mi faccio il giro tra i pini marittimi che circondano il piccolo village con gli stand dei venditori di dvd e simili, faccio un salto nel Palazzo del Casinò, mi apposto dietro una montagna di fans in cerca di autografo per veder passare le "star" sulla passerella, faccio una passeggiata sino all'Hotel Excelsior e poi vado in sala a vedere il film. A volte, quando non ti costringevano a recarti in anticipo in sala, facevo un pò di melina nel foyer della Sala Grande scorgendo "dal di dentro" le "star" che arrivano mentre si fanno immortalare da una folla di fotografi urlanti. Questo almeno sino al 2008, essendo le prassi nell'ultimo anno trascorso cambiate di molto (nuova passerella, arrivo dei "divi" in posizione arretrata, ecc, ecc.; chi frequenta il luogo capisce).
Nel 2006 acquisto già a Venezia (e non al Lido) un biglietto per la proiezione delle 16.00. Il film non lo conosco, ma tant'è, giusto per farci un giro. Il titolo è Infamous di Douglas McGrath. Non ci sono i programmi, quindi non so di cosa parla e con chi è. Dopo i miei giri mi reco un pò in ritardo in sala. Vi trovo un gran casino, la gente è in fibrillazione. Io mi fermo in prossimità dell'ingresso e scorgo fuori dalla vetrata Sandra Bullock. Non ci credo, poi guardo meglio: è proprio lei. Con un ragazzo, mai visto prima, che mi stava casualmente al fianco, spingiamo le porte a vetri dell'ingresso e le scopriamo apribili. Ci troviamo così all'aperto, all'ingresso della sala, in uno piccolo spazio protetto tra le porte vetrate e delle transenne, che delimitano il "red carpet". Alla nostra sinistra i fotografi su di un piccolo spalto sembrano impazziti; davanti a noi, lontano, ci sono i fans scatenati. Tutti urlano: Sandra, Sandra...! La Bullock non è lontanissima da noi. Io e il ragazzo, macchine digitali mignon alla mano, ci guardiamo, perchè la scena è alquanto strana, essendo noi lì da soli, con dentro il foyer una confusione pazzesca, davanti a noi l'inferno e una delle attrici più "carine" dello star system, travolta dalle grida del proprio nome, non molto distante da noi. Nel guardarci, io e il ragazzo, ci viene da ridere e la cosa che ci viene più spontanea di fare è quella di gridare, per scherzo, anche noi: Sandra! Una volta sola. Così. Per gioco. Insomma la Bullock cosa fa? Con tutti quelli che animavano la scena, lei si gira proprio verso noi e mi guarda dritta negli occhi. Io scatto la foto, così, un pò a caso, senza troppo zoom, senza "fuoco". Giusto il tempo, e lei guardava già altrove. Qualcuno dei guardiani di sala si accorge che eravamo lì, ci raggiunge, ci dice alcune parole non simpaticissime e ci chiede di andare in sala. Obbediamo. La sera dopo aver scaricato le foto scattate, riguardandole, mi accorgo dello sguardo dell'attrice, beffardo direi, con quegli occhi bellissimi, ma gelidi, tipici della lince consapevole dell'inferiorità della preda.

P.S. Qualche giorno fa Sandra Bullock è stata eletta in USA, star del 2009, regina del Box office, essendo arrivata prima, grazie ai film The Blind e The Proposal, nella classifica annuale della Quigley Publishing Company. Insomma la star preferita dal pubblico USA. Alla faccia della lince.
P.P.S. Infamous era un film su Truman Capote, che narra le vicende relative la scrittura del capolavoro assoluto dello scrittore americano, A sangue freddo. Nel film, assieme al protagonista Toby Jones, la Bullock era davvero straordinaria. Giornata andata bene insomma.

sabato 9 gennaio 2010

Cultura...! What's? Cu-l-tu-ra! Ah yes, we can!


Nella mia città, Monfalcone, ci sono grandi sommovimenti nel settore culturale. Ciò che mi ha colpito di più è la scelta del Comune di procedere ad una selezione pubblica per individuare il nuovo direttore artistico della stagione musicale/concertistica del Teatro Comunale di Monfalcone. Sembra una cosa banale, detta così, ma bisogna pensare che Carlo de Incontrera è curatore della stagione musicale del Comunale da 26 anni. De Incontrera saputa la cosa, alla quale l'Amministrazione non può sottrarsi per questioni normative nazionali, ha scelto con queste parole di non partecipare alla selezione: "Mi si trova sulle enciclopedie, figuriamoci se alla mia età (quasi 73 anni) mi metto in gara: sarebbe ridicolo!...In alcun caso parteciperò alla selezione pubblica. Ritengo, infatti, che dopo 26 anni, sia giusto lasciare il campo ad altri, possibilmente più giovani. Tutto qui".
De Incontrera va detto ha contribuito alla creazione del Teatro Comunale come è oggi, una realtà riconosciuta a livello nazionale, e ha prodotto stagioni musicali con nomi di assoluto rilievo, essendo persona preparata e competente. A fronte di tutto questo, alcuni giorni dopo l'annuncio l'Assessore alla Cultura di Monfalcone ha anche proposto, pur di non perdere la collaborazione di de Incontrera di trasformare il tatro Comunale in una Fondazione, aggirando quindi il cavillo normativo dell'obbligo di selezione (fonte il quotidiano "il Piccolo" di Monfalcone/Gorizia del 07 gennaio, mi pare). Questi i fatti, vedremo.
Volevo però soffermarmi su alcune parole di de Incontrera rilasciate a margine degli avvenimenti citati (intervista su "il Piccolo" del 06 gennaio). Il direttore artistico parla in relazione alla flessione di spettatori che il Teatro Comunale ha vissuto nella stagione musicale e dice: "E' un fenomeno nazionale e internazionale, per carità. Forse Monfalcone paga anche il fatto di essere una piccola città o forse il pubblico s'è impigrito. Sicuramente mancano i giovani a teatro e, per ragioni sconosciute, è sparita la platea triestina. Ma certo la flessione ha rappresentato un qualcosa di doloroso e ora mi chiedo se il mio "fare cultura" non si sia scollato da ciò che il pubblico insegue oggi. Se la tendenza è seguire le nefandezze, le furberie pubblicitarie, i personaggi trionfanti che sono dei poveracci, io non intendo piegarmi a questa logica. Credo che fare cultura non equivalga a dare il pubblico in pasto a ciò che chiede, ma di portarlo a crescere....Io voglio che il pubblico si innamori delle cose che amo. E siccome il rapporto tra un direttore artistico e il suo pubblico è un rapporto che dalla committenza arriva per fiducia, e non per concorso, fintanto che resta la fiducia e le cose vanno bene si resta, altrimenti si va via. Non devo fare il segretario della platea: per questo non occorre un direttore artistico, può farlo qualsiasi agenzia, basta alzare la cornetta. Io non ci sto: sono pagato per fare un progetto culturale e non per fare la segreteria".
Credo che quanto detto si commenti da solo. Personalmente condivido molto di quello che il direttore ha detto, tra cui che Monfalcone è una piccola città e come tale va presa e soddisfatta. Credo che al di là della bontà di ogni progetto culturale, il pubblico di una piccola città vada favorito anche con cose di taglio popolare, ovvio che ciò c'entra molto poco con il fare cultura, sia chiaro. Non posso dare soluzioni a de Incontrera, perchè il problema che pone non ha una connotazione precisa, trovando le proprie radici nella trasformazione di una società intera di fronte all'imperversare della televisone e delle mode. Personalmente mi spiace che de Incontrera non resti alla guida del teatro, a lui devo alcuni concerti splendidi e soprattutto il merito di aver portato Steve Reich a Monfalcone. Credo però anche che dalle sue parole emerga il desiderio di lasciare il suo incarico e, quindi, che in tal senso vada lasciato seguire la sua strada. Spero, comunque sia, che si voglia realmente affrontare i problemi correlati al fare cultura in città e di non trovarmi, come spesso succede, di fronte ad una situazione che insegue la massima de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa del "cambiare tutto per non cambiare nulla".
Per quanto mi riguarda associerò sempre il nome di Carlo de Incontrera a quello di Miela Reina, colei che ritengo l'artista più importante che questa regione abbia proposto negli ultimi cinquant'anni. Lei era pittrice, artista pop, scenografa e contemporaneamente insegnante, il che non è meno importante nella sua vicenda umana e artistica. De Incontrera ha condiviso con lei e altri una stagione entusiasmante nella Trieste della fine degli Anni '60 (va ricordata almeno l'operazione musicale del Liebslied, con Carlo de Incontrera come compositore e ideatore, Miela Reina come scenografa e Emilio Isgrò come librettista). Miela Reina muore nel 1972 a soli 37 anni, dopo le esperienze con la Galleria la Cavana a Trieste e con la sezione di arti visive di Arte Viva, lasciando un vuoto artistico importante in quegli anni). Io ho conosciuto l'arte di Miela nel 1983 durante un'antologica allestita a Monfalcone presso la allora Sala Roma. Mi sono innamorato dei suoi lavori, quelli più pop in particolare, quelli che sapevano contaminare l'arte cosidetta "maggiore" con quella sequenziale e applicata. Per lei il fumetto non era un espressione sconosciuta e alcuni suoi lavori quali Cenerentola e Storie elisabettiane lo dimostrano. Io ho avuto modo di parlare con de Incontrera alcune volte, per telefono perlopiù, durante la preparazione di una mostra che ho curato per ARTeFUMETTO nel 2004.

La mostra intendeva esporre in forma di collettiva, ma di fatto realizzando quasi tre personali a confronto, i lavori di Nicoletta Costa, artista triestina, tra le più conosciute nel mondo dell'illustrazione per ragazzi (Giulio coniglio, la nuvola Olga ecc.), quelli di Sara Not, altra illustratrice triestina (Valentina, le Superamiche) e appunto Miela. De Incontrera fu molto gentile, mi mise in contatto con gli eredi delle opere di Miela. Al tempo mi parve persona consapevole, altera, molto preso dai suoi impegni e dal suo lavoro. Mi parve poco disposto a guardare al passato e molto al futuro. Non ci fu di grande aiuto materiale, ma allo stesso tempo fu determinante. Per quell'esposizione io e Fabio riuscimmo a farci prestare le tavole de la Cenerentola, le Storie elisabettiane, alcuni disegni di Blow up, tra cui uno che raffigurando un primo piano stilizzato di un ragazza di nome Bella, diceva: "Bella da vicino! Bella alla distanza di un bacio!", che mi straziò veramente e divenne una parte del manifesto della mostra. Oltre a queste due grandi quadri pittorici, dal titolo Arte maggiore, del 1971.

Questi quadri divennero il "la", per il senso che la mostra doveva avere. Rompere i confini, rappresentare nelle stesse sale arte cosidetta "maggiore" e quella cosidetta "minore", quale il fumetto e l'illustrazione per ragazzi, alcuni anni fa era ancora considerata (credo che al di là dei battage pubblicitari lo sia ancora oggi, dai più). Quell'intendimento divenne poi il vero fulcro scatenante dell'attività di ARTeFUMETTO. Le tavole "fumettate" di Miela vennero allestite tra i suoi quadri Arte maggiore e preceduti da una sua foto con lei che tiene tra le dita di una mano un miniquadro dal titolo Arte minore. La mostra si intitolò: Credi ancora ai luoghi comuni? e durò nonostante le fatiche prodotte per allestirla (dovendosi usare quelle sale per ospitare un evento "politicamente" più interessante) soltanto 6 giorni. Le presenze furono di 550 persone di cui oltre 250 presenti all'inaugurazione. Ricordo Nicoletta Costa ricevere da una bimba, innamorata dei suoi lavori, un mazzo di fiori; rcordo Sara che dovendo parlare di fronte alla gente presente seppe soltanto dire: "Mi piace molto la borsa di Nicoletta Costa!"; ricordo che la sorella di Miela Reina ci ringraziò molto e questo mi fece veramente piacere, dando un senso al nostro lavoro.
Quello che voglio dire ora è che in quell'occasione credo si fece cultura e al contempo si percepì la gente, il pubblico come vicino. Sembrava un'iniziativa sospesa, di cui restano poche fotografie, tra cui quella qui sotto, con Sara e gli amici di sempre. Era il tentativo di dire qualcosa senza la pretesa di cambiare le persone, senza la pretesa di inseguire arabe fenici le cui ceneri sono svanite da tempo. E' stata la mostra più significativa fatta da ARTeFUMETTO finora, indipendentemente da cosa ne pensino gli altri.

lunedì 4 gennaio 2010

Albert Camus 1913-1960

Oggi sono 50 anni che è scomparso Albert Camus, morto a Villeblevin near Sens in un incidente d'auto. Di origine algerina, fu scrittore, filosofo, esponente dell'esistenzialismo francese. Fu in vita osteggiato dalla sinistra, benché fosse di sinistra e avesse partecipato alla Resistenza, per le sue posizione antistaliniste (in disaccordo con il socialismo reale e con il pensiero di Jean Paul Sartre, che da antagonista divenne quindi dominate) e non amato dalla destra che, benchè ora cerchi di fare proprie alcune sue posizioni vicine al neoplatonismo, non vedeva di buon occhio al tempo la sua vicinanza alle tematiche del "sociale" e pacifiste. Il suo pessimismo esistenzialista, che nel Saggio sull'assurdo come veniva chiamato il suo saggio Il mito di Sisifo del 1942 lo portava ad interrogarsi sul suicidio quale un problema eminentemente filosofico, arrivando poi a condannarlo, avanzando due concetti chiave del suo pensiero quali quello della "non-rassegnazione" e della "rivolta" (L'uomo in rivolta, 1951). Come scrive Diego Fusaro in un articolo per l'utile e didattico sito wwwfilosofico.net, ne La peste (1947) emerge infine la consapevolezza che "nell'assurdità dell'esistenza, non resta che la ribellione all'insensato di chi si impegna ricercando la solidarietà coi propri simili". Ricorda ancora Fusaro di come nella visione camusiana il motto cartesiano cogito ergo sum, diventi all'interno della sua opera "io mi rivolto, dunque noi siamo".
Mi piace parlare qui di Camus in occasione di questo anniversario, perché a 18 anni lessi il suo libro Lo straniero, che mi colpì molto, considerandolo per lungo tempo il miglior libro avessi avuto occasione di leggere, e che poi mi portò, per una strana affinità, a comprare Raymond Carver, ad innamorarmi di Edward Hopper e ad interessarmi di Daniel Clowes, Jessica Abel e Adrian Tomine. Ancora oggi ricordo quanto mi impressionò l'estraneità e l'indifferenza del protagonista, Meursault, alle cose del mondo, a come considerassi tale "accettazione" come la vera fine di ogni essere umano. Fu un insegnamento che mi porta ancora oggi a non "accettare", a contraddirmi continuamente per garantire che ogni pensiero non venga acquisito per rassegnazione. Mi costa fatica, ma porta un recondito significato a molte cose che faccio.

La Pazienza per Andrea Pazienza

Oggi è uscito sulla cronaca di Monfalcone del quotidiano locale il Piccolo un articolo riassuntivo sull'attività espositiva della Galleria Comunale d'Arte Contemporanea di Monfalcone. Inaugurata il 15 giugno 2002 ha ospitato sino ad oggi 57 esposizioni. Tra queste la più visitata è stata una mostra sull'incisore Tranquillo Marangoni che in 65 giorni è stata visitata da circa 3mila persone (vorrei sottolineare che sono numeri alti da queste parti). La mostra, sottolinea l'articolo, era però abbinata alle celebrazioni per il Centenario del cantiere Navale di Monfalcone, godendo del trend positivo di quell'evento, fortemente pubblicizzato e sentito dai locali. L'articolo continua: "Se si considerano invece i singoli eventi, la coppa delle preferenze del pubblico è stata assegnata alla mostra di fumetti dedicata ad Andrea Pazienza (del 2005) che in soli 38 giorni (quindi la metà di quelle dedicate al cantiere) riuscì a portare a Monfalcone (forse meglio, in mostra, n.d.s) ben 2712 persone". Quella mostra (che se si aggiungono anche le iniziative collaterali al di fuori della Galleria interessò più di 3500 persone) si intitolava "Andrea Pazienza. Segni e memorie per una rockstar" la organizzammo io, Fabio e Mauro in qualità di Associazione culturale ARTeFUMETTO, con la collaborazione del Comune di Monfalcone e in particolare con il sostegno dell'allora assessore comunale Stefano Piredda. La macchina organizzativa per la mostra, che fu inaugurata il 19 marzo del 2005, partì in realtà nel gennaio 2004, forse tra accordi e simili ancora qualche mese prima. Fu una cosa estenuante che ci portò a confrontarci con la famiglia di Pazienza, i suoi eredi, moltissimi autori, tra i più noti del panorama fumettistico italiano, giornalisti, fans e chi ne ha più ne metta. Per quella mostra ci volle veramente una "Pazienza" infinita.
Di quel periodo ricordo Roberta per il suo impegno e contributo alla mostra in fase di comunicazione; ricordo Clara, che ci aiutò e con la quale naque poi un'amicizia e per Fabio qualcosa di più; ricordo le riunioni fiume con i responsabili del comune, le telefonate infinite a tutte le ore con Michele Pazienza; ricordo Luisa che accettò di preparare per noi uno spettacolino teatrale in galleria e che poi utilizzò una parte di quello spettacolo per una rappresentazione molto bella dedicata al disegnatore scomparso; ricordo Franco Giubilei, giornalista de la Repubblica (che io ero convinto essere de La Stampa e lo presentai come tale), che propose in anteprima un suo saggio su Pazienza, che divenne un vero best seller ristampato più volte; ricordo Michele Pazienza con sorella, madre e famiglia, la cui auto si spaccò la sera dell'inaugurazione e ci volle la mattina dopo il carroattrezzi per portarla via; ricordo lo spettacolo teatrale con questo gruppo che si chiamava Teatro Le ZeRBe, venuto da Genova e che proprio la sera del 2 aprile 2005, alle ore 9.00, proprio mentre Papa Wojtyla moriva, (con l'amministrazione che ci disse di scegliere noi se rappresentare lo spettacolo o meno e io decisi di rappresentare perchè dissi: il papa è stato attore, infondo, quindi probabilmente ne sarebbe contento, cosa che convinse tutti) e mentre tutti erano a casa attaccati alla televisione ci regalarono uno spettacolo esilarante rileggendo le storie di Andrea (Nel segno di Paz); ricordo che grazie a Roberta proiettammo quattro film omaggio a Pazienza tra cui un documentario su di lui, il film Paz e anche il film Tre metri sopra il cielo (che fece un bel pienone e forse c'entrava poco, ma al tempo non rappresentava ancora il putiferio che fu dopo). Insomma ricordo di quell'anno una serie di cose impressionanti.
Però ciò che mi piace ricordare di più è questa foto scattata il 01 febbraio 2004, quando con Mauro, Fabio e Gianluca, andammo per la prima volta ad Ozzano dell'Emilia a trovare Michele Pazienza, con il quale avremmo dovuto prendere accordi per i diritti sul materiale da stampare per il catalogo e simili. Si stava svolgendo la sfilata dei carri allegorici per il Carnevale (in anticipo perchè in quelle zone i carri sono pochi e ogni frazione si passa gli stessi, una domenica dopo l'altra nel periodo carnevalesco, e quindi ad Ozzano il Carnevale veniva molto prima del martedì grasso, diciamo con due settimane di anticipo). C'erano un sacco di coriandoli a terra. Tra le persone che accompagnavano con la famiglia la sfilata scorgemmo Michele Serra. Mauro faceva lo scemo, Gianluca fumava, Fabio stava per entrare per la prima volta a casa del fratello di uno dei suoi miti assoluti. Eravano sereni, inconsapevoli di cosa ci sarebbe aspettato da lì a poco, eravamo pieni di stimoli verso questa cosa che si doveva fare. E' un autoscatto che mi infonde una tenerezza infinita. Vederla, oggi, mi pare ieri e invece sono già passati quasi sei anni e attorno mi sembra cambiata ogni cosa: non in meglio.

domenica 3 gennaio 2010

La gente... nel 2010

Da un testo di Patti Smith:
Dove si sentiva l'aria pura
E i miei sensi si rinnovavano
io mi svegliavo al grido
Che la gente ha il potere
Di riscattare il lavoro degli sciocchi
Sull'umile piovono le grazie
il potere sarà del popolo, è destino...

Ieri ero in giro, in città, con la gente attorno che assaltava i negozi per delle magliette, per una gonna, per qualsiasi cosa e ho pensato ...dov'è la crisi. La crisi nel senso etimologico di rottura è dentro di noi. Qualcosa si è rotto e giorno dopo giorno i pezzi di ricambio stanno scomparendo. Il problema quindi è: Ok, la colpa non è della gente, ci hanno condotto, giorno dopo giorno, sino qui. Ok, la gente ha il potere, ma lo merita veramente questo potere o siamo solo delle grandi, comode teste di c...o!