lunedì 29 dicembre 2014

Chroniques italiennes

Con un ponte mentale tra il titolo di una raccolta di racconti di Stendhal, pubblicata postuma alla metà dell'Ottocento (Chroniques italiennes, 1855), e le vicende (vicissitudini?) quotidiane della nostra nazione, mi pare opportuno continuare il racconto di sintesi del 2014 con una raccolta postuma di "passioni" alimentate dalla frequentazione assidua delle forme linguistiche e artistiche più varie. Cosa resta di tali esperienze alla fine dell'anno in chiusura? In realtà molte sedimentazioni, che mi pare di poter riassumere per come segue. Devo ammettere che l'esperienza fatta assieme al gruppo di ETRA mi ha coinvolto molto (www.culturaeticaetra.com) e forse mai come quest'anno ha facilitato l'incontro con persone, ricercatori e professionisti che si occupano di architettura e urbaistica. Tra le persone che mi hanno maggior influenzato con il loro entusiasmo e uno sguardo non ortodosso sul mestiere oggi più oltraggiato del mondo (l'architetto), devo qui citare alcuni dei membri del collettivo AcceSOS, in particolare l'arch. Matteo Fioravanti; poi l'arch. Benno Albrecht, che sta portando avanti una ricerca del tutto personale a Venezia, all'interno del Dipartimento IUAV di Culture del Progetto. Lo stesso Albrecht è anche il curatore di quella che giudico l'allestimento più interessante visto quest'anno, ovvero Africa. Big Change | Big Chance, vista alla Triennale di Milano in questa chiusura d'anno. La mostra ha saputo lanciare sguardi plurimi su di un continente che sarà di certo nel prossimo futuro sede privilegiata di riflessioni importanti all'interno della cultura dello sviluppo urbanistico sostenibile. Un'occasione di riflessione architettonica e urbanistica di gran lunga più interessante delle banalità espresse da Fundamentals di Rem Koolhaas a Venezia per la 14a Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia e soprattutto dalla pochezza (e l'anacronismo) della riflessione sugli innesti promossa per il Padiglione Italia da Cino Zucchi. Devo qui inoltre ricordare un professionista scomparso nel settembre di quest'anno che, con il suo pensiero laico, mi ha indirettamente insegnato molto, Bernardo Secchi, uomo di cultura letteraria estrema e di assoluta dedizione alla ricerca. Vorrei parlarne ancora in un'altra occasione. La mia preferenza in campo artistico va invece per l'ottima mostra milanese al Museo del Novecento Yves Klein - Lucio Fontana. Milano Parigi - 1957-1962, con un allestimento integrato nel percorso espositivo del museo, che ha consentito di gettare uno sguardo in avanti, partendo (in questo caso sì) dalle fondamenta di alcune delle riflessioni culturali forse più importanti del secolo scorso. Altra ricerca e altro campo di interesse è stata la pittura di fine Ottocento e inizio Novecento, stimolata da una mostra a Palazzo Roverella di Rovigo, L'ossessione nordica, curata da Giandomenico Romanelli. Simbolismo, naturalismo, pittura intimista con i quadri di Boecklin, Carl Larsson, Anders Zorn: la figura umana a confronto con la natura e le profondità della propria mente. E' invece americano il film (uscito già all'inizio del 2014) che mi ha maggiormente entusiasmato e che trovo perfetto per raccontare questi nostri tempi, dominati dalla spregiudicatezza economica. Il regista è Martin Scorsese e il film The Wolf of Wall Street con protagonista Leonardo di Caprio. A fare il paio con questo il capolavoro assoluto di Miyazaki Si alza il vento, già ricordato nei post precedenti. Gli ascolti musicali di quest'anno mi hanno riavvicinato con certe sonorità molto amate da ragazzo. Tre titoli mi sono restati addosso: Trixie Withley, Fourth Corner; Sharon Van Etten, Are We There; Sun Kil Moon, Benji. Chi segue la musica folk-rock americana sa che non ho scoperto niente di nuovo. E per peggiorare il senso di déjà-vu, Neil Young a tutto volume. La cosa si amplifica al momento della lettura letteraria. E' stato Delitto e catigo, romanzo-mondo di Dostoevskij a darmi il maggior numero di emozioni. A conferma che rileggere è a volte meglio che leggere e basta. Altro libro molto utile è quello dedicato a Salinger, di David Shields e Shane Salerno. Infine i fumetti. Qui voglio andare oltre le ristampe che abbondano nelle librerie e nelle edicole. Rileggere Ken Parker è stato utile, anche per comprendere meglio i limiti della serie, nell'enfasi ideologica spesso espressa dai suoi autori, o nella convinzione eccessiva attribuita da questi ai propri mezzi. Parimenti appare, dalla riproposta Cosmo, dagli allegati alla Gazzetta dello Sport, dalle edizioni Mondadori e dalle riedizioni in fumetteria, che la BD franco-belga colta nel suo insieme fa il paio con la pubblicazione da edicola e da libreria della Sergio Bonelli Editore. Esprimono due culture diverse nel fare fumetto, ma rappresentano una realtà del tutto editoriale, dove la "massa" del prodotto costituisce spesso il limite primario alla qualità. Non esiste divergenza tra fumetto d'autore e fumetto popolare, non è mai esistita. Il buon fumetto sta nella scrittura curata, nel buon disegno, nella cura editoriale; e nell'esame della quantità del pubblicato (oggi più che mai evidente) le occasioni per godere del medium alle sue massime potenzialità sono realmente poche. Vorrei quindi evidenziare la qualità di una serie su tutte, The Walking Dead di Robert Kirkman e Charlie Adlard, fumetto ben scritto e ben disegnato, intrigante pur nella ripetizione del plot iniziale. Di certo non proprio una scoperta. Nel campo delle storie conclusive segnalerei invece due fumetti su tutto, E la chiamano estate di Jillian e Mariko Tamaki (BAO) e soprattutto il bellissimo Poco raccomandabile di Cloé Cruchaudet (Coconino Press/Fandango). Due scoperte all'interno di culture e segni fumettistici molto definiti e già sondati nel recente passato. Ecco qui la mia sintesi 2014. Si riparte ora, per un nuovo anno, alla ricerca infinita di un'emozione culturale.
P.S. La foto viene dal blog di Manuele Fior, che ringrazio, e mi pareva adatta a rappresentare la direzione presa dalla nostra cultura: due piedi nel futuro e la testa nel passato

giovedì 25 dicembre 2014

Autocritique

Parlare di un anno che sta finendo è pur sempre annunciare una svolta. Si getta il calendario, così come si gira un foglio appena scritto della propria esistenza, in un libro che sappiamo difficilmente avrà (ad avere molta fortuna) oltre le cento facciate. Scrivere a fine anno è scrivere in forma autobiografica. Come proponeva Edgar Morin, intitolando così un testo del 1959 che parlava delle sue esperienze di vita, in forma di Autocritique. Insomma, ci si racconta e ci si mette in gioco. Ho cominciato presto, a Natale, mentre sento che nella stanza accanto si sta preparando una tavola da onorare. Ci sarebbe molto da dire, e non so se, cominciando ora, riuscirei a completare la cosa per il Capodanno. Per contraddizione vorrei essere sintetico. I termini (le parole) che maggiormente mi hanno impressionato durante il 2014 per il loro uso, ma soprattutto per il loro abuso, sono state: "povertà" e "scontro". Alla televisione una ragazza rispondeva nei giorni scorsi che "povero" è solo colui che non ha un posto dove stare, un riparo sulla testa, e qualcosa di cui nutrirsi. Condivido questa lettura, gli altri vivono solo dei problemi. "Andremo allo scontro" è una proposta di vita che mi spaventa, poiché è improduttiva. Mi meraviglio che stia perlopiù nel linguaggio di chi ha delle responsabilità specifiche. La maggior confusione linguistica che mi pare di avere percepito quest'anno è nell'uso improprio della parola "comunità" al posto di" società", e viceversa. Se la differenza non è chiara, non può esserci nè tutela, nè programmazione. La parola più abusata di tutte: "Etica". Rispetto quali parametri? La seconda (ma l'ho già evidenziato nei post precedenti) "Bellezza". Rispetto quale valore artistico? Ne potrà mai esistere uno assoluto? Il tormentone (e siamo solo al 2014!): "Grande Guerra". E' un fatto interiore o esteriore? Può essere "rappresentato"? O meglio sarebbe viverlo intimamente, per una crescita personale e di conseguenza realmente collettiva. Il problema più grande? https://www.youtube.com/watch?v=zLhvfBRXC_4 (invito alla visione). Una sintesi finale? La distanza dello status intellettuale dal lavoro dei nostri padri.
Sta in questo scarto ciò che chiamiamo "crisi", non di certo in un problema di "domanda", di riduzione/contrazione della spesa. Per che cosa poi che non si abbia già! Mi pare che, nell'iniziare questa disamina di autocritique di fine anno, possano risultare queste riflessioni coerenti con lo "spirito del Natale". Auguri!

lunedì 8 dicembre 2014

Le cose che mi passano per la mente

Di certo l'atto più estremo a cui si sottopone l'essere umano è la scrittura. La mente raccoglie in ogni istante centinaia di pensieri e li elabora contemporaneamente, li sovrappone, li mescola. Chi scrive opera una selezione limitante che estrapola una delle migliaia di queste elaborazioni, e le pone sulla pagina. Lo strumento digitale (la scrittura digitalizzata) è per molti la forma più repentina per gestire tale passaggio. Per me è la scrittura manuale (penna su carta). Ogni scelta pone il problema di ciò che è andato perduto a causa della stessa. Ogni parola scritta è quindi al tempo stesso una piccola vittoria ed una enorme sconfitta. Il filtro che ci permette di selezionare ciascuna parola scritta, o detta, è ciò che chiamerei cultura personale o, generalizzando, "cultura". Mai parola fu più abusata di questa, e probabilmente ciascuno nell'utilizzarla si colloca ben lontano dal nucleo sostanziale del significato di quel termine. Cultura, dal participio futuro del verbo latino còlere, quindi coltivare, ma anche avere cura, e infine per ragioni stanziali abitare; al participo passato coltus, che rimanda anche all'onorare, al culto. L'etimologia spiega come sia più importante il percorso che l'atto in sé. Se non vi è la cura, la "coltivazione" e l'"abitazione" prolungata, vi è solo superficialità. Nei giorni scrorsi Renzo Piano, quale senatore dinanzi al capo dello stato, precisava (il testo è quello raccolto da la Repubblica) di non essersi mai sentito, nemmeno da giovane, un semplice architetto (vorrei evidenziarvi, come già l'uso del termine "semplice" la dice lunga su come lo stesso si collochi rispetto i colleghi, quando in realtà nell'essere architetto, specie oggi, vi assicuro che di semplice vi è realmente poco), ma un costruttore di luoghi di cultura, un amante della bellezza. La cultura, continuava Piano, la frequentazione della bellezza (ecco qui il senso dell'"abitare a lungo"), il sapere, ci rendono persone speciali. Qualsiasi lavoro si faccia nella vita, ricordava Piano, ciò che renderà unici sarà la dimensione culturale del singolo. Oggi sono tutti ad evocare la "bellezza", dopo Sorrentino e il suo Oscar hollywoodiano in Italia si mangia pane e bellezza. Ma, come sapete bene, senza procurarsi il pane (purché non si vada a rubarlo) non si mangia. La bellezza va conquistata e non solo evocata. In Italia sembra sempre che la bellezza vada frequentata, ma il costruirla (per restare in tema architettonico) spetta a terzi. Cultura dicevamo. Recuperando alcune riflessioni del 2012 di Massimo Angelini per la rivista online Montesquieu.it dell'Università di Bologna, a cui devo anche gli spunti per la mia sintesi etimologica, dalla "cultura si passa al culto", se cogliamo il senso del tempo, e il "culto preannuncia la cultura", se predilegiamo il fine. E' quindi sempre una situazione di tempo o di finalità. E' ciò che permette alle passioni di prefigurare la cultura. La passione permette la frequentazione e quindi l'abitazione prolungata. Sono le passioni che ci spingono ad approfondire e quindi a spostarci da casa, ad esempio, e raggiungere un teatro, la sala cinematografica, una galleria espositiva, una fiera di settore. Ecco che giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, direi, stancandosi e spendendo, si matura dentro di sé un ambiente utile ad ospitare con consapevolezza il raccolto. Raccolto che viene onorato e curato. Cosa succede invece oggi? La passione viene sostituita dalla mediazione, nel senso della comunicazione mediata. La frequentazione è indotta dalla comunicazione. Ciascuno si sposta rispetto costruzioni mediatiche che definiscono e stabiliscono il culto. Le scelte sono fatte da terzi. A ciascuno basta raggiungere l'oggetto proposto e quindi "coglierlo". Ma da ciò non nasce la cultura, manca la frequentazione e la ricerca pesonale determinata dalla passione. L'evento non è mai di per se stesso un luogo abitato, ma solo un tramite per qualcosa che potrebbe nascere in futuro. Come si diceva è una questione di tempo e di finalità personale. Ecco qua, tutto questo discorso per chiarire che non basta andare all'inaugurazione di una mostra e neanche recarsi alla prima del Teatro alla Scala di Milano per il Fidelio per "abitare" qualcosa. Che spesso una programmazione culturale vale di più di uno, dieci, cento eventi; e spesso programmazione culturale fa rima con uso di poche risorse. Di chi è la colpa? Della comunicazione si diceva, prima di tutto, delle necessità politiche che stanno dietro ogni progetto culturale, dovendosi garantire riscontri immediati, quindi momentanei, quindi scarasamente o poco sentitamente "frequentati", quindi in fondo inutili. La sovrapposizione che tende ormai all'uso indifferenziato dei termini "cultura" e "intrattenimento" è alla base di ogni fallimento culturale. La bellezza resta là fuori, visitata appunto, ma mai abitata realmente. Tutto questo mi è sovvenuto con chiarezza dopo la presentazione del nuovo volume di Loriano Macchaivelli e di Francesco Guccini, La pioggia fa sul serio, Strade blu, Mondadori, durante il festival CormonsLibri alla Sala Italia, domenica 07 dicembre. I due appaiono verso le 19.00, in una sala gremita di gente, molta della quale presente per assistere anche all'incontro precedente con Dino Zoff e Bruno Pizzul. Tantissime persone presenti per Guccini. Tra mille frivolezze dette, tra le difficoltà di stare dentro una sala al limite della sicurezza, tra il desiderio di ciascun amministratore o rappresentante istituzionale territoriale presente di marcare la propria presenza, facendo a parole propria una manifestazione riuscita, l'incontro è apparso alla fine per quello che temevo potesse diventare: una occasione persa per crescere. Eccoci quindi tutti insieme, presenti ad una recita mascherata, ciasuno con il suo ruolo, ad abbracciare miti che furono, a cercare risposte già date anni orsono, a frequentare la nostalgia, a ridurre, come sempre più spesso accade, la cultura in un culto del materiale e dell'effimero. Non mi faccio mancare nulla, avvicino anch'io gli autori, assumo la laica eucarestia dell'autografo. Francesco Guccini è la maschera della noia, invecchiato, gobbo su se stesso, infastidito dalla fila lunghissima dei fan e dalle foto che i più gli chiedono di scattare assieme. Vorrei scattarmela anch'io una foto con Francesco, ma quando è il mio turno gli chiedo: Ma ne hai voglia? Lui risponde con un secco, no! Gli rispondo che allora la foto non la faccio, e lui scoppia in una sonora risata, rompendo il momento di fastidio che stava provando. Mi offre la mano, che stringo, e nel ricordo dell'uomo quello vale più di una foto. Non è stata cultura, quindi, ma solo passione fine a se stessa.
P.S. Per la cronaca, la miglior battuta della serata la fa Guccini: "Non ho la patente, non ho il telefonino... tra poco entrerò tra le specie protette dal WWF!". Bontà sua!